Alla Verdi insieme alla Settima sinfonia il Primo concerto affidato al talento maturo del giovane pianista milanese
C’è folla, ordinata e distanziata, davanti all’Auditorium di largo Mahler. Una sera di agosto inoltrato a metà settimana. Milano è (ancora) mezza vuota, nemmeno i Navigli brulicano di gente – meglio così, intendiamoci, visti i dati sanitari in altalena. E, cosa rara, si trova subito parcheggio (aspetto che rende più piacevole l’inizio della serata, senza le tensioni da stress automobilistico) in zona San Gottardo. Tutti buono segnali. Ma il migliore è quello che ha lanciato laVerdi nell’estate milanese, proponendo un ciclo Beethoven, le Nove sinfonie e i Concerti per pianoforte e orchestra, che riempie sempre la sala (ripensata togliendo alcune file di poltrone si arriva a 290 posti circa): due concerti per programma (il mercoledì e il giovedì) con il direttore musicale Claus Peter Flor sul podio e alla tastiera talenti – consolidati e nuovi – del pianoforte da Alexander Lonquich ad Alexander Romanovsky, da Benedetto Lupo a Luca Buratto.
Proposta facile? Forse. Certo doverosa in questo 2020 che celebra i 250 anni della nascita del compositore. Sicuramente coraggiosa (altri teatri o non hanno riaperto o hanno fatto solo una presenza simbolica dopo il via libera del governo) e giustamente premiata. Perché gli applausi calorosi che hanno salutato il concerto di giovedì 20 agosto (ma anche tutte le altre esibizioni) non sono certo di circostanza e dicono, sicuramente, la gioia di tornare dopo mesi ad ascoltare musica dal vivo, seduti in platea. Tanto che lo stesso Flor ricambia applaudendo prima dell’ultima uscita il pubblico. Il Beethoven Summer de laVerdi (in programma sino al 30 agosto quando la Nona risuonerà al Castello) si aggiunge all’altra ”aria fresca” musicale dell’estate milanese, il ciclo barocco di Milano arte musica. E l’auspicio è che diventi, anche nei prossimi anni, un appuntamento fisso.
Visti anche gli ottimi risultati. Almeno stando al sesto concerto del ciclo. Beethoven VII il titolo, perché al centro c’era la Sinfonia n.7 in la maggiore, anche se cuore della serata si è rivelato il Concerto n.1 in do maggiore per pianoforte e orchestra. Ed è stato così grazie a con Luca Buratto perché il pianista milanese, classe 1992, ha impresso la sua personalità alla pagina del 1798 (e l’eredità mozartiana si sente), un fiume in piena di idee che Buratto asseconda, esalta, aggancia alla tradizione e proietta nel futuro con una lettura analitica e calcoltissima che non manca mai, comunque, di trasporto e sentimento (senza cedere nel patetismo). Tanto pedale quasi in una danza (si agitano sotto la tastiera le gambe di Buratto) sui ritmi che Beeethoven mette nelle sue melodie che fatichi a non canticchiare o a tamburellare con le dita sulla poltrona. Orchestra piccola (cinque primi violini e cinque secondi, due violoncelli e due contrabbassi) per un suono che avvolge le evoluzioni della tastiera di Buratto, ben governato da Flor.
Flor che poi mette il turbo e alza il volume al massimo nella Settima (l’orchestra si rinforza, ma di poco, due violoncelli e due contrabbassi in più), con un effetto deflagrante. A volte troppo perché le dinamiche escono a tratti livellate verso l’alto, i temi si rincorrono fin troppo precipitosamente e l’eliminazione degli stacchi tra un tempo e l’altro (che rendono wagneriana la sinfonia) uniformano il discorso, ma sottraggono quel giusto tempo di interiorizzazione e meditazione di quanto ascoltato della pagina del 1811/1812 che ha già in sé i germi della Nona che verrà. anche nella stagione de laVerdi.