Il 7 dicembre il direttore inaugura il Teatro alla Scala proponendo la versione originale della partitura del 1900 nuova tappa dell’integrale del compositore toscano
Come Tosca anche Riccardo Chailly vive «d’arte e d’amore» come canta la protagonista dell’opera di Giacomo Puccini, Tosca appunto, che il 7 dicembre inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala. «La mia arte è la musica, l’amore è quello per la mia famiglia. Vivo di questo» racconta il musicista milanese alla vigilia del debutto del popolare melodramma che la sera di Sant’Ambrogio va in scena con la regia di Davide Livermore – alla sua seconda inaugurazione consecutiva dopo il verdiano Attila dello scorso anno – e le voci di Anna Netrebko, Francesco Meli e Luca Salsi. «Tosca, che per la prima volta nella storia inaugura una stagione scaligera, è un altro tassello della mia ricerca per proporre le versioni originali delle opere di Puccini: sul leggio avremo la primissima stesura del melodramma che Illica e Giacosa hanno tratto da Sardou – e che anche Giuseppe Verdi avrebbe voluto musicare se l’autore gli avesse dato il permesso di cambiare il finale –, quella andata in scena il 14 gennaio del 1900 al Teatro Costanzi di Roma e che da allora nessuno ha più sentito perché modificata subito da Puccini per l’arrivo due mesi dopo a Milano» racconta il direttore musicale del Teatro alla Scala, premiato di recente come Artista dell’anno dalla rivista francese Diapason. «L’edizione critica di Roger Parker – spiega – ci consegna l’esatto volere del compositore toscano, facendo anche chiarezza della scrittura nervosa, al limite del leggibile presente sul manoscritto originale».
Cosa si ascolterà, maestro Chailly, la sera di Sant’Ambrogio in teatro, ma anche nei cinema di tutto il mondo e in televisione con la diretta di RaiUno? Una nuova Tosca?
«La Tosca così come la conosciamo, popolarissima e nota per le sue celeberrime arie, ci sarà tutta, non una nota di meno. Ci saranno, piuttosto, passaggi in più perché Puccini nelle revisioni tagliava, non aggiungeva nulla. Saranno, otto momenti che nulla tolgono a quello che conosciamo della partitura, come già capitato nella Madama Butterfly che nel 2016 abbiamo proposto nella versione che si era ascoltata solo la sera della prima alla Scala, ma poi ritirata per il fiasco. Il Te Deum che chiude il primo atto sarà a cappella senza il raddoppio degli ottoni. C’è una coda alla celeberrima aria di Tosca Vissi d’arte dove la protagonista ha uno scambio di battute con Scarpia. Il finale del secondo atto, quando la donna delirando pugnala il capo della polizia, prevede 15 battute in più in un continuo passaggio di terzine e duine che arriva ad un espressionismo che non è quello di Berg, ma gli si avvicina molto. Il finale dell’opera, con Tosca che si lancia nel vuoto da Castel Sant’Angelo, prevede una ripresa del tema di E lucevan le stelle a tutta forza che allunga di circa un minuto l’azione dilatando il tempo teatrale riempito di azione da Livermore. Puccini intervenne molto sul libretto: c’era una scena con una pazzia di Tosca che lui ha studiato ma poi eliminato».
Qual è l’importanza di conoscere le versioni originali della opere di Puccini?
«Questo percorso di ritorno alle origini non è mosso dalla volontà di imporre una visione, piuttosto dal desiderio di condividere la fortuna di avere tra le mani testi che sino a qualche anno fa noi artisti non avevamo a disposizione. Questa versione di Tosca cinque mesi fa non era ancora stampata. Così come quella della Manon Lescaut che ho diretto ad aprile grazie all’edizione critica sempre di Parker al quale esprimo gratitudine per il grande lavoro fatto in collaborazione con Ricordi. Certo, c’è ancora molto da scoprire in Puccini che era un perfezionista al limite dell’autolesionismo, correggeva anche andando contro se stesso: forse non avrebbe dovuto essere così severo. È un bene per la musica che esistano queste edizioni e per quel che mi riguarda scoprirle è la ragione per cui sono ancora attivo come direttore».
In che senso?
«La ricerca è la fiamma che alimenta la mia passione e il mio lavoro: ho iniziato a dirigere a 13 anni, ho affrontato tante partiture e oggi la scoperta è ciò che riempie le mie giornate, il dirigere viene dopo. Anche perché è sempre desolante pensare che in tutta la nostra vita arriviamo a conoscere solo una piccola parte del sapere umano».
La prossima ricerca in che direzione andrà?
«Mi piacerebbe proporre la prima versione di Edgar con il quarto atto ritrovato che amplia in modo incredibile il ruolo di Tigrana e permette di indagare la vocalità di mezzosoprano per Puccini. Discuterò del proseguimento del progetto Puccini con il nuovo sovrintendente Dominique Meyer».
Il cambio della guardia con Alexander Pereira avverrà subito dopo Tosca.
«Con Dominique Meyer ci stiamo capendo molto bene, è un grande professionista che porta a Milano l’esperienza maturata a Vienna in tutti i teatri in cui ha lavorato. Pereira conclude cinque anni che hanno visto un grande ampliamento del repertorio. Gli auguro gli stessi successi avuti a Milano anche a Firenze».
Tosca è un titolo popolarissimo. Come toglierle le incrostazione del tempo?
«È una grande fatica perché vuol dire provare a far dimenticare prassi esecutive che vanno contro il volere di Puccini. Avere sul leggio la prima versione mi aiuta ad uscire da certi stereotipi. Ho diretto le versioni tradizionali di molte sue opere e proporle ora nelle versioni originali significa mettere in discussione se stessi, ripartire da capo: ho ristudiato Tosca e la dirigo cercando di rispettare i metronomi coraggiosi del compositore che aveva uno spiccato senso dei tempi teatrali. L’edizione critica di Parker impone un ripensamento radicale nella scelta dei tempi, nel fraseggio e delle dinamiche. E poi trascrivo poi sulla mia partitura tutte le indicazioni contenute nel libro di Luigi Ricci Puccini interprete di se stesso. Tosca è un capolavoro ed è facile farla male, sommariamente, difficilissimo farla bene rispettando ciò che Puccini ha scritto. Tosca chiede vocalità eccezionali per forza interpretativa e resistenza per salti vertiginosi dall’alto al basso. Per proporre questo capolavoro c’è la necessità di avere voci formidabili: quelle di Anna Netrebko – e di Saioa Hernandez che sarà Tosca a gennaio –, di Francesco Meli e Luca Salsi sono adattissime a quest’opera e idiomaticamente giuste».
Come avvicinarsi a questa “nuova” Tosca?
«Abbandonandosi all’emozione dell’ascolto. E si può ascoltare anche senza prepararsi molto perché la musica ha una forza che va subito sotto pelle».
Tosca piaceva anche a Verdi.
«Il musicista scriveva: “Vi sarebbe un dramma di Sardou che se io fossi ancora in carriera musicherei con tutta l’anima e sarebbe Tosca a patto che però il Sardou mi accordassi il permesso di cambiare l’atto ultimo”. Verdi scrivere anche: “Puccini ha un buon libretto. Maestro fortunato chi ha per le mani questo”. La teatralità di questo testo stimolava il compositore anche negli anni della maturità. Puccini, scrivendo a Ricordi, parlava di un’opera fatta tutta di duetti, una trappola apparentemente ossessiva risolta bene però dal compositore perché non ci accorgiamo di assistere a grandi duetti: tutto è integrato in un unico racconto».
Quali le edizioni di Tosca che preferisce?
«Quella del 1929 diretta da Carlo Sabajno con i complessi del Teatro alla Scala, a soli cinque anni dalla morte di Puccini, con artisti che avevano conosciuto il compositore. E poi quella del 1953 diretta da Victor De Sabata con Maria Callas e arrivata al culmine di un percorso pucciniano trentennale del direttore con orchestra e coro della Scala. De Sabata era un concertatore che provava molto ed attento ai diktat della partitura: tutto ciò che era scritto doveva arrivare al pubblico».
Quale la prima Tosca che ha ascoltato?
«Proprio quella del maestro Sabajno con Carmen Melis, l’avevo trovata in un mercatino e l’ascoltavo in solitaria in camera mia: preferivo la musica a una partita di calcio con gli amici. Ma ero soggiogato alla bellezza di quella musica, dai 17 temi presenti nell’opera che identificano personaggi e situazioni drammaturgiche, che formano una ragnatela claustrofobica dalla quale non si esce sino all’ultima battuta: appaiono e scompaiono vengono sovrapposti, smembrati, dilatati, accelerati».
Visivamente che Tosca sarà?
«L’azione è storicamente collocata, in un giorno di giugno del 1800, e collocata in tre luoghi precisi. Che nella regia di Livermore ci saranno, ripensati e restituiti in modo nuovo. Per quel che mi riguarda cerco sempre di staccare da quella che può essere la parte politica dei personaggi per concentrarmi sull’uomo. Mi interessa in particolare il personaggio di Scarpia, figura orribile, che sfrutta il suo potere per possedere Tosca: Puccini lo racconta scurendo l’orchestra a cominciare dagli accordi degli ottoni che aprono l’opera, rendendola melliflua per sottolinearne la doppiezza. Un personaggio che potrebbe stare in qualsiasi tempo».
Questa Tosca sarà sui luoghi e nei tempi del libretto.
«La collocazione temporale di una storia non è mai il punto di partenza nel mio confronto con il regista su uno spettacolo ma deve essere l’arrivo di un percorso condiviso. Oggi la tendenza della musica Barocca è quella di farla sempre contemporanea e io non sempre condivido questo punto, mi piacerebbe tornare a un teatro alla Strehler con rispetto del libretto e grande invenzione registica. Non sempre sono d’accordo, ma a volte mi piace lo spostamento in avanti. Penso alla Salome di Strauss che faremo con Damiano Michieletto regista che proporrà un’idea molto nuova e moderna, spostata temporalmente in avanti».
Per le prossime inaugurazioni si parla di Otello e Macbeth, entrambi titoli verdiani.
«Sono ipotesi di lavoro. Nel programmare non partiamo mai dai titoli, o meglio facciamo un’ipotesi, si cercano le voci e se ci sono si va avanti altrimenti si rimanda il progetto ad un altro anno. Il Macbeth sarebbe l’ideale chiusura della trilogia giovanile di Verdi dopo Giovanna d’Arco e Attila».
Il 7 dicembre tutto il mondo guarda alla Scala. «C’è sempre un’adrenalina in più, è un momento mediaticamente esposto a livello mondiale. Il fatto che Tosca vada fuori dal teatro, in tv e in diversi luoghi della città è positivo».
Un momento emotivamente intenso per voi artisti. Cosa fa dopo che è calato il sipario la sera di Sant’Ambrogio?
«Ho bisogno di far decantare le emozioni dopo un’esperienza di coinvolgimento fisico e psicologico totale. Ho la necessità di rientrare in una dimensione umana, in famiglia».
Intervista pubblicata in gran parte su Avvenire del 29 novembre 2019
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Riccardo Chailly e le prove di Tosca