La Fenice inaugura la nuova stagione con l’opera di Verdi immersa dal regista in un nero che chiude alla speranza Trascinante e cupa la direzione di Myung-Whun Chung
Più nero di così non poteva essere il Don Carlo di Giuseppe Verdi nella lettura di Myung-Whun Chung e Robert Carsen che domenica 25 novembre ha inaugurato la nuova stagione del Teatro La Fenice di Venezia. Un successo dopo i danni provocati dall’acqua alta che hanno messo a rischio la prima dello spettacolo, poi andato in scena grazie alla tenacia di tutti i lavoratori: le prove musicali a Treviso, quelle di scena in casa del regista, il lavoro giorno e notte per far ripartire la macchina teatrale. Scommessa vinta con tutti i lavoratori in scena, insieme agli artisti, a prendersi l’applauso del pubblico
Nero il Don Carlo della Fenice perché è questo il colore dominante dello spettacolo: nera la scatola scenica (disegnata da Radu Boruzescu) che racchiude il palco in una fuga prospettica (anche intelligente camera acustica per le voci) e sulle cui pareti si aprono porte e finestre che si affacciano sul nero; neri i costumi (di Petra Reinhardt) che sono abiti talari, tonache monacali, paramenti sacri. Ma non solo. È nero nell’anima questo Don Carlo, nero di un pessimismo che non lascia scampo, che ti fa correre un brivido per la mancanza assoluta di speranza che ti butta in faccia. Un pessimismo che inghiotte tutto e tutti, persino i puri. O almeno quelli che fino ad oggi – conoscendo un po’ l’opera – credevi essere tali. Rodrigo, nello specifico, personaggio che Carsen ribalta completamente rispetto alla tradizione che lo vuole bandiera di un’amicizia disposta al sacrificio e al dono della vita, reinventa (tra l’altro nel libretto dove compaiono tutti personaggi storici è l’unico frutto di fantasia, senza un aggancio alle vicende della Spagna di Carlo V e Filippo II) facendone un vigliacco e un traditore, venduto al potere dell’Inquisizione.
Carsen costruisce il suo racconto come un noir (visto anche il colore dominante… non poteva essere altrimenti) cupo e sottilmente psicologico, alla Hitchcock, dove come in ogni racconto del genere che si rispetti, la soluzione (difficile da immaginare prima) arriva solo alla fine. E il colpo di scena che il regista canadese assesta sulle ultime note di Verdi è di quelli che ti arrivano come un pugno nello stomaco. Come una secchiata d’acqua fredda a svegliarti di colpo. Come una sberla che brucia a lungo sulla pelle. E che quasi ti fa dire «noo..» se non ci fosse la musica – di una bellezza assoluta – a soggiogarti e a lasciarti senza fiato. Carlo e Filippo vengono uccisi dai sicari del Grande Inquisitore, complice di Rodrigo che non era morto realmente – la sua fine era stata tutta una messinscena, con colpi a salve e l’Inquisitore pronto a farlo rialzare da terra – e che ora viene incoronato re.
Una critica feroce e spietata al potere della Chiesa, ma in generale a un potere occulto che manovra coscienze e uomini, che detta l’agenda alla politica. Perché il colpevole, dice Carsen, è proprio il Grande Inquisitore, mandante che nell’ombra dispone e impone. Non è cieco, ci vede benissimo da dietro gli occhialini tondi. Non è ultranovantenne, è energico. E agisce. Dispone un ordine del mondo, quasi un ordine monacale che appiattisce l’umanità in tristi replicanti, dove lo sguardo della Chiesa si allunga su tutti, stanandoli nella loro intimità: spie in abito talare, aguzzini che vestono la tonaca e impugnano la pistola sono il suo braccio armato. Impone chi questo ordine lo deve mantenere, facendone, però, un burattino nelle sue mani. Prima è Filippo II che nella scena dell’autodafé viene vestito dalle guardie in talare (burattino, sempre), papa nero con tanto di triregno in testa che pesa e lo piega forzandolo a decisioni che (forse) non vorrebbe come l’uccisione dei fiamminghi, protestanti ai quali viene strappata di mano la Bibbia poi bruciata nel rogo, freddati con un colpo di pistola in testa – immagine potente che chiude la prima parte dell’opera. Poi quel burattino diventerà Rodrigo, complice (per vigliaccheria? per convenienza?) dell’Inquisitore nel tendere la trappola a Carlo, abile nel farsi consegnare i documenti compromettenti che poi passerà al nemico e pronto a raccogliere lo scettro di Filippo, tolto di mezzo per i suoi tentennamenti, per il non essere più allineato con il potere. Sconfitto per aver mostrato una “debolezza” umana nel voler cercare un amico su cui contare… quel Rodrigo che si è poi rivelato tutt’altro.
Una riflessione sul potere che corrompe anche i più puri. Pessimista e chiusa a qualsiasi possibilità di speranza e riscatto, indubbiamente. Troppo forte e violenta? Eccessiva? Forse sì. Inutile negare che il finale lascia spiazzati. Perché Rodrigo è l’uomo dei grandi ideali, quelli proclamati a tutta forza e vederlo come un corrotto un po’ fa male. Ma poi pensi, non puoi non farlo, al nostro oggi a quanti dei nostri politici fanno grandi discorsi, anche condivisibili, pieni di ideali, ma poi si vendono per mantenere il potere o finiscono in inchieste per corruzione o scandali sessuali… Quella di Carsen è una proposta intellettuale che non può certo lasciare indifferenti e che costringe a farsi qualche domanda: il regista non si limita a metter in scena una storia (non lo fa mai), tenta un’interpretazione, qui prova a dare un senso a un finale che Verdi e i suoi librettisti lasciano volutamente aperto – Carlo dovrebbe essere rapito in convento dal fantasma del nonno Carlo V. Ci mette un pensiero sul quale si può discutere se è o meno aderente alla storia e al volere del compositore – che poi, chi può dire di conoscerlo veramente?
Succede da subito. Dalla prima immagine dello spettacolo quando i frati che piangono la morte di Carlo V escono di scena lasciando solo Carlo con un teschio, un Amleto in maglietta e giacca, nere naturalmente, che si interroga sul senso della vita, sull’essere o non essere uomini che amano. Taglio shakespeariano a un racconto che procede per immagini forti: i gigli sparsi a terra (richiamo ad una purezza di Elisabetta mai venuta meno), il rogo dei libri, le bare che affollano la scena nell’ultimo drammatico atto dando già il senso di morte al racconto. Un lungo piano sequenza, sempre in soggettiva, una vicenda vista di volta in volta con gli occhi di Carlo, di un Filippo più tormentato e umano del solito, di un’Elisabetta resa imperturbabile dal dolore.
Personaggi che racconta così Myung-Whun Chung. Tensione e bellezza nella sua direzione capace di trovare suoni potenti, sconquassanti, ma anche grandi abbandoni. Il direttore coreano, che crea una sintonia unica con orchestra e coro della Fenice, fa venire a galla i mille dettagli della partitura: disegni melodici, contrasti violenti, respiri sinfonici raccontano il nero dell’uomo quello che emerge prepotente nel duetto del terzo atto tra Filippo e il Grande Inquisitore e che Chung fa già sentire nel duetto del primo atto tra Filippo e Rodrigo, già cupo e pessimista. Verdi, nella lettura del direttore, arriva in tutta la sua modernità e nella sua disarmante bellezza. Chung si concede una direzione libera, piena di inventiva rischiando a volte di lasciare allo scoperto i cantanti nella loro linea vocale- ma nessuno si perde perché l’arcata musicale è ben chiara – perché sa di poter contare sulle eccellenti prove di Piero Pretti, Alex Esposito, Julian Kim e Maria Agresta. E di tutto il cast.
Pretti, squillo limpido e generoso, sempre musicalissimo e mai eccessivo, è un Carlo chiuso nel suo dolore, sgomento di fronte ai fatti che gli precipitano addosso, estraneo alla vita, come Amleto appunto, che guarda da lontano, con la consapevolezza – che è di Elisabetta – che questa eternità, la felicità, un giorno sol durò. Maria Agresta mette nella sua voce tutto il dolore della Valois in un crescendo di tensione emotiva e musicale che si sfoga nel dolente Tu che le vanità. Alex Esposito debutta e subito convince come Filippo II, personaggio che il basso, scenicamente carismatico, scolpisce attraverso la parola che si fa canto, sempre sfumato, pieno di intenzioni, cardiogramma dei sentimenti dell’uomo prima che del re. Julian Kim, che è Rodrigo reinventato traditore, ha un fiume di (bella) voce con la quale domina in ogni momento la scrittura verdiana. L’indubbio temperamento scenico consente a Veronica Simeoni di disegnare un’incisiva (più teatralmente che musicalmente) Eboli. Problematico e non a fuoco l’Inquisitore di Marco Spotti che sembra faticare nel grande duetto con Filippo nel quale Chung dispiega tutta la forza e la cupezza dell’orchestra.
Barbara Massaro è un cristallino Tebaldo, Gilda Fiume una voce dal cielo che ha i colori della terra, Luca Casalin un puntuale Conte di Lerna, Matteo Roma un araldo reale dalla voce limpida che risuona nel silenzio inquietante al centro dell’autodafé (piccolo ruolo, ma impegnativo perché è un canto scoperto) a chiedere che al popolo sia restituito il re. Perché Filippo, lo si vede piegato dal peso dei paramenti sacri, non è più re. È una pedina di un potere occulto, dice Carsen, pronto ad essere inghiottito dal nero. Che alla fine piomba sulla scena dove aleggia, bianco e inquietante, solo il fumo dei colpi di pistola.
Nelle foto @Michele Crosera Teatro La Fenice Don Carlo