Dopo 500 recite il baritono dà l’addio al ruolo verdiano cantato la prima volta nel 1973 con la moglie Adriana Tanti i ricordi legati al giullare. Il mio erede? Luca Salsi
Leo Nucci dice di «non amare gli annunci». Ma questa volta è d’obbligo. Il 20 settmbre (dovrebbe essere) l’ultima volta che canterà Rigoletto: dopo 550 recite in quarantasei anni nei panni del giullare gobbo – «se ci mettiamo le prove avrò cantato la partitura qualcosa come duemila volte» dice – il baritono da’ l’addio al personaggio di Giuseppe Verdi. Succederà al Teatro alla Scala dove dal 2 settembre Nucci è in scena accanto ai gioviani dell’Accademia del Teatro alla Scala. «Un ideale passaggio di testimone» racconta il baritono di Castiglione dei Pepoli, classe 1942, alla vigilia dell’ultima replica di Rigoletto: giovani sul palco, in orchestra e dietro le quinte. «Qui, dopo alcune stagioni come corista, – ricorda – ho cantato per la prima volta da solista quarantadue anni fa: era il 1977 e vestivo i panni di Figaro nel Barbiere di Siviglia di Rossini».
Perché, Leo Nucci, ha deciso di dire addio a Rigoletto, uno dei suoi cavalli di battaglia che ha cantato in tutto il mondo?
Mi sento in ottima forma – quasi ogni sera abbiamo fatto il bis della Vendetta con il la bemolle – e un po’ mi dispiace. E, conoscendomi, non escludo ripensamenti. Certo, gli anni inevitabilmente passano. Nei giorni di prova con i ragazzi dell’Accademia mi è venuta in mente la storia di Icaro che mi raccontava la mia maestra a scuola: attento a voler volare troppo in alto perché poi le ali si bruciano e cadi a terra. Sento una responsabilità nei confronti del pubblico, ma anche di me stesso e di ciò che ho fatto nella mia carriera. Mi sento in dovere di dare un esempio ai giovani in un periodo in cui gli esempi sembrano scarseggiare.
Che ricordo ha del suo primo Rigoletto?
Il più bel Rigoletto di sempre, perché la mia prima Gilda è stata mia moglie Adriana, incinta di sei mesi di nostra figlia Cinzia. Abbiamo la locandina appesa in casa: era il 1973 al teatro Salieri di Legnago, lo preparammo in due giorni. Nel coro, che veniva da Parma, c’era anche il papà di Luciano Pavarotti, Fernando. Lui e i coristi mi dicevano: «Attento giovane che con il Peppino non si scherza». Erano tutti pronti a sentire come cantavo uno dei ruoli più amati del “loro” musicista. Andò tutto bene e alla fine erano dietro le quinte ad applaudirmi. L’organizzatore, Ottaviano Bizzarri, mi disse: «Un giorno, sono sicuro, farai Rigoletto alla Scala e farai anche un bis. E così è stato. Da allora ho cantato Rigoletto centinaia di volte e tutte le esperienze sono impresse nella mia memoria.
Come è cambiata la sua interpretazione del personaggio verdiano in questi anni?
Se prima cercavo di intellettualizzarlo col tempo ho imparato a entrare dentro Rigoletto, non solo interpretando, ma diventando il giullare, cercando di provare le sue emozioni e le sue sofferenze: ora quando entro in scena non sono Leo che fa Rigoletto, ma mi sento Rigoletto ed è una sensazione particolare perché ogni sera le emozioni sono diverse, perché diversa è la vita. Il personaggio si è evoluto come mi sono evoluto io perché noi siamo il risultato della nostra storia e dei nostri valori e questa nostra storia non può non trasferirsi in quello che facciamo sul palco. Quando qualcuno dopo la recita mi dice che si è commosso perché ha visto in me i sentimenti di un padre sento di aver fatto centro, di aver restituito quello che ha voluto scrivere Verdi.
Si commuove ancora?
Ogni sera. E l’emozione inizia sulla prima nota e si spegne sull’ultima. Certo, ci sono momenti che mi toccano particolarmente come nel finale – tutto il terzo atto è intriso di sofferenza umana che Verdi racconta benissimo in musica – quando Gilda canta Lassù in cielo per voi pregherò perché sono le stesse parole che ho voluto incidere sulla tomba di mio padre.
Chi l’ha aiutata in questi anni ad entrare nell’anima di Rigoletto?
Sicuramente Riccardo Muti con il quale nel 1994, riportando dopo anni il titolo alla Scala, abbiamo fatto un lungo lavoro di scavo sul personaggio. Porto nel cuore, poi, la lezione di Herbert von Karajan e Georg Solti che mi hanno fatto riflettere su come la voce non sia il fine della lirica, ma solo il mezzo per cantare l’opera che non deve avere solo un risvolto estetico, ma anche etico.
Quale quello di Rigoletto?
Penso al tema della maledizione: quante volte, ce lo racconta anche la cronaca, diamo la colpa di ciò che ci accade a qualcun altro, non prendendoci le nostre responsabilità?
Quale insegnamento si sente di trasmettere ai giovani che oggi cantano con lei?
Quello che ho avuto dal ciclismo, sport del quale sono un grande appassionato e che pratico da dilettante macinando chilometri in bicicletta. E il ciclismo è molto simile al canto perché in scena si è sempre in salita, si soffre: sali in sella all’inizio dell’opera e da solo devi arrivare in fondo. La bicicletta mi hai anche insegnato a non salire in cattedra perché quando pedali pensi che vai più forte e poi c’è sempre chi va più forte di te. Oggi, specie in Italia, quello del cantante lirico sembra un mestiere passato di moda. Ci sono pochi cantanti, così come non ci sono più i pugili e non ci sono più i ciclisti tanto che Giro e Tour lo vincono gli stranieri. Forse i giovani non vogliono affrontare un mestiere che richiede disciplina e rigore.
A chi passa il testimone di Rigoletto?
Ci sono tanti colleghi che cantano questo ruolo e lo fanno bene, ma quello che stimo e apprezzo più di tutti è Luca Salsi.
Articolo pubblicato sul quotidiano Avvenire il 19 settembre 2019
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Rigoletto