Diario Rossiniano 2019. 3
Al Rof Demetrio e Polibio primo lavoro del compositore reinventato con grande fantasia dal regista Davide Livermore che fa volare oggetti e cantanti, Pratt, Molinari, Gatell e Fassi
C’è un fantasma al Teatro Rossini di Pesaro. Il fantasma dell’opera. Ma non ha una maschera che gli copre il viso deturpato. Anzi. Sorride. E fa sorridere. Perché combina scherzi a cantanti, macchinisti e pompieri del teatro. Fa volare candelabri e candele, solleva in aria pianoforti, sparge per il palco abiti di scena. Appicca persino un incendio. Ma nessuno si fa male. Perché il lieto fine è assicurato. Come in Demetrio e Polibio la prima opera scritta da Gioachino Rossini: era il 1806 e il compositore pesarese aveva solo quattordici anni quando fu contattato (o contattò proponendosi?) da Domenico Mombelli che aveva una compagnia teatrale con la moglie e le figlie: due anni per scrivere la partitura per la quale la moglie dello stesso Mombelli, Vincenzina Viganò, scrisse il (non memorabile) libretto. La prima nel 1812 a Roma dove si capiva già chi sarebbe diventato Rossini (lo diciamo oggi, certo, sentendo questo primo lavoro che, forse, non è nemmeno tutto autografo del compositore), ma certe zampate erano evidenti.
A Pesaro, per l’edizione 2019 del Rof, hanno recuperato l’opera (nella revisione sulle fonti a cura di Daniele Carnini) riportando in scena l’allestimento (godibilissimo e che funziona ancora alla perfezione) firmato nel 2010 da Davide Livermore. Quello del fantasma dell’opera, appunto. Che compare sin dalla sinfonia quando gli spettatori sono catapultati nel retropalco, dietro il sipario mentre un tenorissimo raccoglie applausi e consensi. Lo spettacolo è finito, si smobilita la scena. Giù le luci e il teatro chiude. E, come nelle fiabe, i fantasmi escono dai loro nascondigli. Che sono le botole del palco e le casse di scena. I fantasmi che abitano il teatro sono quelli dei personaggi evocati in Demetrio e Polibio, opera dalla trama classicheggiante, ambientata nei regni ellenistici nel II secolo a. C.: amori contrastati e il riconoscimento tra un padre e un figlio che si erano perduti. Escono da casse e botole, si rincorrono e si sdoppiano, spuntano tra i costumi o aggrappati a una quinta che attraversa a folle velocità il palco.
Come in un fumettone, come in una pellicola del cinema muto Livermore racconta, nell’unico modo possibile, cioè con l’ironia, una storia che se presa sul serio sfiorerebbe il ridicolo. Oggi, almeno. Certo, era il gusto di inizio Ottocento e Rossini lo aveva assimilato in pieno, mettendo già, però, il suo marchio d fabbrica (i crescendo già ti prendono facendoti saltellare sulla poltrona) nei concertati, in duetti, terzetti e quartetti, modellano, invece, le arie su una tradizione mozartiana e belcantistica con picchettati, sovracuti, agilità a non finire. Aspetto che viene ben evidenziato dalla lettura di Paolo Arrivanbeni, puntuale e accurato sul podio della Filarmonica Gioachino Rossini (qualche cosa da mettere a punto, invece, sul fronte del coro che è quello del Teatro della Fortuna di Fano) nell’accompagnare in stile le ari e nel correre in avanti verso il Rossini del futuro nei numeri d’insieme.
Opera, Demetrio e Polibio, che ha innanzitutto un valore musicale, affidata a un quartetto di ottimi solisti. Jessica Pratt affronta con la sicurezza di sempre l’impervia parte di Lisinga, tutta agilità e sovracuti (qualcuno alla prima non è andato a segno, ma poco importa dato che il soprano australiano ha materiale vocale e intelligenza musicale in quantità) cantati anche ad alta quota dato che Livermore la imbraga e la solleva in altro sdraiata su un pianoforte volante. Cecilia Molinari ha bel timbro, temperamento e buona tecnica per rendere convincente Siveno. Juan Francisco Gatell è interprete sempre raffinato, misurato e di gran gusto musicale grazie a una voce limpida e avvolgente a una tecnica che lo sostiene nella scalata alle vette del personaggio di Demetrio. Riccardo Fassi mette voce (bel colore e corpo) e presenza scenica notevolissime nel suo Polibio. Personaggi cantati alla vecchia maniera, con afflati, slanci affettivi da vecchio teatro.
Li vuole così Rossini, li vuole così Livermore che gioca con i codici e i linguaggi teatrali: niente peli o armature, ma abiti ottocenteschi per i fantasmi dell’opera che in un perfetto meccanismo registico scompaiono in un angolo per apparire subito nell’altro, dando l’illusione di immagini fatue che si muovono tra la polvere del palcoscenico. Volano candelabri, una candela fluttua sopra la platea, le luci si accendono e si spengono, un pianoforte resta sospeso a mezz’aria con Lisinga addormentata. Come nella casa ei fantasmi del luna park. Effetti che suscitano uno stupore quasi infantile nel pubblico che resta spesso con lo sguardo all’insù e gli occhi che sorridono. A cercare il fantasma del’opra. Ma è un attimo. Demetrio e Polibio, i padri, fanno pace; Siveno può sposare Lisinga. Tornano i pompieri, le sarte, i macchinisti. Una cantante si scalda la voce, due ballerini si preparano per una presa in arabesque. Lo spettacolo, sul palco, può ricominciare. Con buona pace del fantasma.
Nelle foto @Amati/Bacciari Demetrio e Polibio al Rof