Al Teatro alla Scala Diego Fasolis dirige l’opera sul re di Creta affidata alla regia di gusto “tedesco” di Matthias Hartmann
La sensazione, di fronte alla testa gigante del minotauro e al relitto di nave che si rincorrono in continuazione sul girevole sul quale è disegnato un labirinto – o meglio “il” labirinto, quello di Creta dove l’opera è ambientata – è quella di un’immagine già vista. E se non proprio così, almeno simile. Nell’estetica. Nell’impostazione. Nell’idea di un certo modo di fare teatro d’opera. Già vista su un qualsiasi sito di una staatsoper tedesca. O quantomeno di area germanica. E non è solo una questione di anagrafe perché il regista di Idomeneo di Wolfgang Amadeus Mozart in scena al Teatro alla Scala, Matthias Hartmann, è nato a Osnabrück, in Bassa Sassonia. Anzi, forse lo è. Questione di anagrafe. Questione di dna. Che, aldilà di insensati e insensibili sovranismi e sovranisti, ha una sua motivazione, una sua spiegazione. Ha sue radici in una certa cultura.
Un gusto tedesco, si dice spesso parlando di regie dei teatri oltreconfine. Non è, certo, questo il caso. Perché nell’Idomeneo re di Creta scaligero cose astruse, facili provocazioni, inutili drammaturgie parallele al libretto non ci sono. C’è, però, un “gusto” che, inevitabilmente non è quello italiano. Semplice osservazione questa, intendiamoci, non un giudizio o un’accusa all’Europa a traino tedesco alla vigilia delle elezioni europee. Un dato di fatto che il Teatro alla Scala si sia aperto (da qualche anno, ormai) a un gusto diverso da quello estetizzante e realistico dei vari Visconti e Strehler di ieri. Ogni sovrintendente/direttore artistico porta il suo stile, la sua cifra, il suo gusto. Quello di Alexander Pereira sembra essere questo (altro era quello di Stéphane Lissner che ora ha traslocato all’Opera di Parigi dove i nomi in cartellone oggi sono quelli che c’erano ieri a Milano). Lo si capisce dal disegno delle stagioni e dagli artisti scritturati: le opere affidate a Frederic Wake-Walker, quelle firmate da David Pountney, ora gli allestimenti di Hartmann che dopo uno sconclusionato Franco cacciatore della scorsa stagione realizza un Idomeneo quantomeno innocuo in attesa del Pelleas et Melisande che la prossima stagione riporterà sul podio scaligero per un’opera Daniele Gatti.
Un relitto di una nave. La testa del minotauro. Una struttura metallica sulla quale sono montati fari potenti, da concerto rock (luci di Mathias Märker), che si accendono e accecano il pubblico nel finale quando una voce (il deus ex machina della tragedia greca) rimette le cose a posto. Le scene di Volker Hintermeier ruotano in continuazione insieme al girevole sul quale è disegnato il labirinto. Evocano spazi. Suggeriscono i luoghi del libretto in una lettura antinaturalistica del dramma di Mozart contrappuntato dalla danza: un passo a due sull’ouverture (con Mick Zeni e Antonella Albano) e coreografie di Reginaldo Oliveira con i ballerini a evocare i flutti del mare o ad animare le danze finali per le nozze di Ilia e Idamante. Idomeneo, storia di padri e di figli, di rapporti generazionali, di passaggi di testimone che non sono mai indolore. Quelli del potere, ma soprattutto quelli della vita. Lo aveva raccontato magnificamente Damiano Michieletto nella sua lettura viennese (poi approdata a Pistoia) dell’opera su libretto di Giambattista Varesco. Lo dice anche Hartmann nelle sue intenzioni registiche. Concentra l’attenzione su Idomeneo e Idamante, padre e figlio. Respingenti come calamite orientate nel senso sbagliato all’inizio dell’opera, quando Idomeneo incontra quella che, stando al suo voto, dovrà essere la vittima da sacrificare a Nettuno per averlo salvato dalla furia del mare. Attratti da una forza (sovr)umana alla fine, nel gesto di tenerezza che chiude l’opera quando Idomeneo, ormai non più re e folle per tutto ciò che ha vissuto, viene accarezzato da Idamante che, intuiamo, si prenderà cura amorevolmente di lui e della sua mente sconvolta.
Gesti. Che restano, però, lampi in una regia quasi inesistente che nella genericità di ambienti e costumi (disegnati da Malte Lübben) sembra non voler scavare su chi sia oggi Idomeneo. Belle immagini come il finale della prima parte quando il mostro che si abbatte su Creta perché Idomeneo non adempie al suo voto è una presenza fuori scena che però si avverte. Regia che, però, si limita per lo più a collocare sul girevole i personaggi. A farli muovere secondo un disegno che dalla platea (dove non si scorge il pavimento del palcoscenico) si comprende poco, ma che forse, visto dall’alto, racconta il brancolare nel labirinto (di Creta che diventa poi quello della vita) dei protagonisti. Ilia, anche lei figlia: il padre era Priamo, re di Troia. Elettra, figlia di Agamennone, re d’argo. Padri che incombono sul racconto e che aleggiano sulla musica.
Musica affidata a Diego Fasolis, specialista del repertorio barocco che applica a Mozart (e agli strumenti moderni dell’orchestra della Scala) la sua abituale prassi filologica. Esperimento che riesce e anche bene, nell’asciuttezza del suono e nella fissità (che comunque affascina) di certo canto. Il passo è teatrale. Spesso sperimentale con il rischio di perdere qualcuno per strada (il coro nel primo attacco), ma l’impressione è che il tempo delle prove non sia bastato e che la pratica del palcoscenico metterà a posto tutto. Il racconto arriva nei recitativi, il sentimento nelle arie in una lettura che lo stesso Fasolis definisce «verso un’Idomeneo integrale». Perché il direttore d’orchestra svizzero è subentrato nel progetto mozartiano prendendo il posto sul podio di Christoph von Dohnányi ed ereditando i molti tagli alla partitura concordati con Hartmann. Alcuni sono stati riaperti, altri sono rimasti. Peccato perché Idomeneo è un fiume in piena di musica sublime, un concentrato del meglio di Mozart che non si smetterebbe mai di ascoltare. Per fortuna quello che c’era era di qualità. Anche grazie alle voci – forse non memorabili, ma incisive, educate, puntuali – dei protagonisti. Idomeneo è un (a volte smemorato tanto che il suggeritore deve sgolarsi) Bernard Richter dalla voce piena e corposa (a volte le agilità ne risentono) e dal fisico adatto a un re decadente. Michèle Losier canta un Idamante tormentato. Julia Kleiter una Ilia più decisionista che fragile. Federica Lombardi è a suo agio nel ruolo di Elettra e grazie a voce temperamento è quella che fa salire più in alto l’applausometro finale. Positivo per tutti. Regista compreso.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Idomeneo