Applausi, ma anche dubbi sull’interpretazione del cantante che ancora una volta fa a modo suo un ruolo da baritono Angel Blue è la prima Violetta di colore al Piermarini
L’applauso, carico di affetto, che è partito sull’ultima nota del Di Provenza il mar, il suol (e moltiplicatosi poi alle uscite finali) è un applauso a ciò che Placido Domingo è stato, il grande tenore che ha segnato la storia della lirica del secondo Novecento: la sua data di nascita (ufficiale) è il 1941. Non (non può oggettivamente esserlo) un applauso a ciò che Placido Domingo è oggi, un tenore (perché questo è il registro dove la sua voce si colloca naturalmente e magnificamente) che canta (quasi compulsivamente, volando da una parte all’altra del mondo) ruoli da baritono. Perché vuole stabilire un record? Perché non riesce proprio a stare lontano dal palcoscenico? Domanda che resta senza risposta.
Resta, però, un: Perché? Quello che ti frulla in testa sentendolo (ancora una volta) interpretare un ruolo da baritono. Perché sporcare un mito, il ricordo di un grandissimo tenore e delle sue interpretazioni? Cosa che vale per tutti i grandi vecchi della scena lirica ancora in palcoscenico, non solo per Domingo. Che questa volta canta Giorgio Germont, il padre padrone della Traviata di Giuseppe Verdi, ruolo che il cantante spagnolo ha già ricoperto dal Metropolitan al Covent Garden, ma che in questi giorni affronta per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano.
Applauditissimo in una prova che se in locandina non ci fosse scritto il nome di Domingo il pubblico avrebbe forse accolto freddamente (e che magari qualche melomane avrebbe contestato). Prova carismatica, indubbiamente, perché Domingo sa come stare in scena, come calamitare su di sé l’attenzione: gli basta un gesto, un inchino, uno sguardo, l’incedere incerto con il quale entra in scena. Classe d’altri tempi che sta benissimo nella Traviata datata 1990 di Liliana Cavani, sontuosa e opulenta, tradizionale al punto da essere facilmente “abitata” quasi senza prove dalla Violetta o dal Germont di turno.
E se il personaggio di Germont scenicamente c’è tutto, vocalmente, però, l’effetto è quello della Traviata dei due tenori (non tre come nel famoso concerto per i mondiali di Italia 90 a Caracalla), Francesco Meli, che veste ancora una volta con la sua classe i panni di Alfredo, e, appunto Domingo. La cui voce ha la bellezza di sempre, lo squillo che è il suo marchio di fabbrica (questa volta è meno a corto di fiato del solito e solo una volta dimentica le parole del libretto). Comunque viene in mente uno slogan pubblicitario di qualche anno fa: Ti piace vincere facile? diceva. Ed è l’impressione che ti porti a casa sentendo un tenore che canta un ruolo da baritono. Applauditissimo e osannato. Come il soprano.
Il forfait di Sonya Yoncheva – che proprio martedì, giorno della prima di questa ripresa dell’opera, ha annunciato via social di aspettare un bimbo – ha portato sul palco Angel Blue, prima Violetta di colore al Piermarini. Applauditissima, appunto, la cantante americana sin dal primo atto: guardinga e sulla difensiva negli acuti e nelle agilità della prima parte (il mi bemolle alla fine del Sempre libera lanciato con facilità ha sciolto la tensione), ha offerto un’interpretazione in crescendo, culminata in un intenso terzo atto. A dirigere il traffico (con prove ridottissime, quasi da teatro di repertorio) la bacchetta di Marco Armiliato che in questa ripresa ha sostituito sul podio Myumg-Whung Chung, bravo, ma al di sotto delle (altissime) aspettative nelle recite di gennaio e febbraio con la Violetta di Marina Rebeka. Ieri come oggi partitura tagliatissima (ed è un vero peccato perché ne risente la drammaturgia): senza il da capo dell’A forse è lui, senza la cabaletta del baritono (ieri era Leo Nucci, oggi Domingo) No, non udrai rimproveri, sforbiciate abbondanti qua e la.
Articolo pubblicato su Avvenire del 14 marzo 2019
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala La traviata