Il cantante nato nel Caucaso e oggi tra le stelle del belcanto racconta la sua passione per la musica e la danza moderna
Nella sua camera nella casa di Mineralny Vody, nel Caucaso settentrionale, i trofei più in vista non sono quelli dei concorso di canto. Che pure sono tanti perché Sergey Romanovsky, uno dei tenori oggi più richiesti, in cartellone al Bolshoi al Marinskij, da Amsterdam alla Scala, voce rossiniana ospite delle ultime edizioni del Rossini opera festival, «bari-tenore con un estensione dal la bemolle al do diesis», nel 2005 ha vinto il Bella voce di Mosca e nel 2007 il Concorso lirico di San Pietroburgo. «Sugli scaffali della casa di famiglia ci sono le coppe conquistate nelle gare di break dance. Le prime in casa, nel Caucaso, poi competizioni internazionali sino ai campionati del mondo» racconta il tenore nato nella Russia meridionale nel 1984. «Frequentavo il liceo musicale, ma il canto per me era qualcosa di secondario, la mia vera passione era la break dance» racconta Romanovsky che di recente sul suo profilo Instagram ha postato una foto di quel periodo.
«Appena tornavo da scuola mangiavo qualcosa in fretta e subito correvo fuori a ballare con i miei amici. Facevamo concorsi e vincevamo premi in giro per il mondo tanto che oggi, molti dei miei amici, sono proprio danzatori di berak dance, anche campioni del mondo. Una passione che non ho mai messo in un cassetto tanto che ancora oggi quando torno a casa mi ritrovo a ballare con gli amici di allora».
La sua casa oggi è a Mosca. Ma il cuore è a Mineralny Vody, nel Caucaso. «Tra le montagne, i boschi e le acque termali dove tutto è iniziato. Vivevamo in campagna e la vita nella Russia degli anni Novanta, subito dopo la fine dell’Unione sovietica con la caduta del comunismo, non era certo facile, tutto era in pezzi. I miei lavoravano in campagna: un giorno il padrone della fattoria si presentò a casa con del cibo perché non aveva più soldi per pagare gli stipendi agli operai. Ma, come si dice, ciò che non uccide fortifica» racconta il tenore che spiega che «solo ora capisco bene i tanti sacrifici che hanno fatto i miei genitori per farmi vivere e per farmi studiare musica. A cinque anni mio nonno ha visto che, giocando, facevo il gesto di suonare il violino. L’ha detto alla mamma che mi ha portato a scuola di musica. Ero portato e ho iniziato lo studio del violino. Dopo otto anni, durante i quali iniziavo a muovere i primi passi di break dance, la domanda: come continuare?». Era indispensabile il violino. «Ma i soldi per acquistarlo non c’erano, tanto più che un incidente d’auto aveva fatto lievitare le spese di famiglia. Mi ero rassegnato».
In casa Romanovsky la musica non è mai mancata. «Dopo pranzo cantavamo le canzoni popolari russe. Io ascoltavo Robertino Loreti, un cantante italiano molto popolare da noi: avevo un disco che mettevo ogni giorno, cantavo e le parole che non capivo le inventavo. Un giorno ho seguito mio fratello a un corso di canto che frequentava dopo aver vinto un concorso per dilettanti, una sorta di talent prima di quelli televisivi. Mi sono fatto coraggio, ho chiesto un microfono e ho intonato una canzone. Mi hanno proposto un’audizione con un insegnante di canto dove mi sono presentato con una base registrata: vuoi studiare? la sua domanda. Ho detto sì». Il liceo musicale e diversi lavori: «Per pagarmi gli studi ho fatto il muratore, l’animatore al casinò. La prima opera che ho cantato è stato Der Schauspeildirektor di Mozart, avevo 17 anni. Poi sono stato Alfredo in Traviata di Verdi nei teatri del Caucaso. A ventidue anni mi sono trasferito a Mosca dove ho studiato al Conservatorio Cajkovskij e all’Accademia delle arti corali con Dmitry Vdovin: ha trovato nella mia voce un colore mediterraneo e insieme su quello abbiamo costruito il mio repertorio».
Il debutto ufficiale a San Sebastian con Aleko di Rachmaninov: «I primi soldi che ho guadagnato. Poi sono arrivati I Capuleti e i Montecchi di Bellini a Mosca e Il viaggioa Reims di Rossini al Teatro alla Scala. Ma a Milano tornerò tra qualche anno: per cantare alla Scala occorre essere nel pieno della maturità e arrivare con quello che è davvero il tuo repertorio ideale». Intanto in agenda Les pêcheurs de perles di Bizet a Zurigo, Rigoletto a Bregenz, il Gala rossiniano per i quarant’anni del Rof a Pesaro dove ad agosto ha cantato Ricciardo e Zoraide. «Rossini mi risulta facile, lo studio velocemente. Prima cantavo i suoi ruoli più leggeri come Almaviva del Barbiere, ora penso ad Otello, ma anche ad Armida ed Ermione. Questa stagione ho anche debuttato il ruolo di Rodrigo ne La donna del lago a Liegi, insieme a Rodolfo ne La bohème di Puccini ad Amsterdam, Giasone in Medea di Cherubini a Wexford e il ruolo del titolo nella versione francese del verdiano Don Carlo a Lione».
Il mondo dell’opera, spiega Romanovsky, «non è certo facile. Occorre sempre essere al meglio, studiare, tenere la voce allenata. I miei modelli? Naturalmente Juan Diego Florez: ho ascoltato il suo Ramiro della Cenerentola al secondo anno del liceo musicale e ne sono rimasto affascinato. Ma mi ispiro anche ai grandi del passato Tito Schipa e Mario Del Monaco, Franco Corelli e Luciano Pavarotti» racconta il tenore sposato con una collega. «Oggi in Russia si vive bene, basta tenersi distanti dalla politica. I miei hanno messo da parte un po’ soldi e la mia mamma è riuscita ad andare finalmente in Kirghizistan, la terra dove è nata e dove non tornava da trent’anni».
Nella foto di apertura (@studio amati Bacciardi) Ricciardo e Zoraide al Rossini opera festival 2018
Articolo pubblicato sul quotidiano Avvenire del 9 gennaio 2019