Il balletto di Cajkovskij apre la stagione di danza della Scala nella versione pensata per New York nel 1954 dal coreografo Sul palco i danzatori scaligeri e i ragazzi della Scuola di ballo
Molto più E. T. A. Hoffmann, quello dei Racconti, che Petr Il’Ic Cajkovskij. O forse, a ben vedere, molto Cajkovskij proprio perché ancorato a doppio filo alla fonte ispiratrice di Hoffmann. Che nei suoi racconti, dietro la confezione favolistica, mette sempre una vena malinconica e una (a volte spietata e a tratti inquietante) analisi psicologica della vita e di chi è chiamato a viverla.
Lo schiaccianoci di George Balanchine, coreografia datata 1954, arriva per la prima volta al Teatro alla Scala, inaugurazione della nuova stagione di danza. Coreografia che, fedele a Hoffmann, ha la confezione della favola, ma che in alcune pieghe nasconde quella malinconia che ti lavora dentro quando (ri)pensi all’infanzia. Perché è un racconto per bambini, certo. Ma anche per adulti che dovrebbero tornare a guardare il mondo con gli occhi dei più piccoli, occhi che luccicano davanti a una vetrina di dolci, per il giocattolo nuovo. Grati per un dono ricevuto.
Cajkovskij questa malinconia e questa prospettiva dalla quale guardare la vita ce l’ha dentro. Sempre. In particolare in questa partitura. Perché tra il 1891 e il 1892 scrive la musica per un balletto che è sì una favola, ma lo fa provando a raccontare il sogno dove uno schiaccianoci a forma di soldatino prende vita e si trasforma in un principe come un passaggio (necessario) dall’infanzia all’adolescenza. Che è poi un laboratorio dell’età adulta dove si sperimenta, amplificata nei sentimenti, la vita. Lo senti nella musica questo romanzo di formazione, questa maturità che arriva, desiderata, ma comunque inattesa. Sorprendente. Dura da conquistare (e forse per questo ancora più bella) combattendo con un esercito di fantasmi ai quali Hoffmann nel suo racconto dà la forma di topi – il racconto di Hoffmann non a casa si intitola Lo schiaccianoci e il Re dei topi. Rudolf Nureyev ne aveva fatto il cuore della sua versione (insuperata e ancora oggi modernissima, psicanalitica nell’interpretazione del sogno). Balanchine mette questo in trasparenza nel suo racconto all’apparenza leggero, ma contrappuntato da riferimenti alla vita e al tempo che passa.
Una coreografia ideata nel 1954 per il New York City Ballet (e come si sentono/si vedono Brodway e il musical) che va alle radici della fonte letteraria, ma anche di quella coreografica, ridisegnando i passi sull’originale di Petipa e Ivanov andato in scena a San Pietroburgo nel 1892. Un allestimento, quello del coreografo russo trasferitosi poi negli States, dove i bambini fanno i bambini e gli adulti gli adulti. Così il racconto, seppur nella dimensione onirica, appare veritiero, specie nel primo atto con la festa di Natale in casa Stahlbaum.
Marie (Giulia Consumi), Fritz (Amos Halilovic) e il nipote di Drosselmeier che nel sogno è lo schiaccianoci che diventa un principe (un elegantissimo Leonardo Baghin) sono allievi della Scuola di ballo del Teatro alla Scala così come i tanti bambini in scena: allievi dei primi quattro corsi, concentratissimi e divertiti nei giochi e nelle danze che Balanchine riveste del suo stile neoclassico. Rigore e lucentezza delle linee, marchio di fabbrica inconfondibile del coreografo, che il Corpo di ballo di Frederic Olivieri esalta nelle danze di carattere, nel Valzer dei fiori, nel passo a due tra la Fata Confetto e il suo Cavaliere. Puro stile Balanchine, con qualche concessione al kitsch americano come gli angioletti che danzano sulla promenade che apre il secondo atto.
Racconto, quello del viaggio nel mondo dei dolci, che Margherita Palli (a lei la Scala ha chiesto nuove scene e nuovi costumi nel solco della tradizione degli allestimenti per un balletto) colloca in una golosa pasticceria. Dove la Fata è Nicoletta Manni, il Cavaliere Timofej Andrijashenko. Reinventati i personaggi delle danze del divertissement: Goccia di rugiada (che danza il valzer con i fiori) è Martina Arduino, la cioccolata (la danza spagnola) Francesca Podini e Massimo Garon, il Caffè (la danza araba) Maria Celeste Losa, il Tè (la danza cinese) Andrea Crescenzi, il Bastoncino di zucchero (la danza russa) Nicola Del Freo, Mamma Zenzero un divertente Samuele Berbenni (anche Re dei topi). Nel realistico primo atto Mick Zeni è Drosselmeier, Beatrice Carbone e Alessandro Grillo i signori Stahlbaum, i giocattoli che si animano sono Paola Giovenzana e Vittoria Valerio (Arlecchino e Colombina) e Valerio Lunadei (il Soldatino). Danzano tutti davanti a Marie e al suo principe, seduti a un tavolino della pasticceria a far merenda. E poi sulla slitta di Babbo Natale che vola in cielo trainata dalle renne. Quadro finale che strappa un applauso che dura dieci minuti e saluta tutti gli interpreti e Michail Jurovski che ha affrontato con piglio e slancio le pagine di Cajkovskij sul podio dell’orchestra e delle voci bianche della Scala.
Articolo pubblicato in gran parte su Avvenire del 19 dicembre 2018
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Lo schiaccianoci