Nicola Berloffa, io frontaliere della lirica

Il regista apre con Don Carlo la nuova stagione di Sankt Gallen Porto il melodramma di Verdi dalla Spagna del ‘500 a fine ‘800 raccontando la fine delle monarchie e la solitudine del potere In agenda Buenos Aires e Seoul, in Italia solo Andrea Chénier All’estero ci sono più rispetto e più libertà per gli artisti

Sul planisfero immaginario di Nicola Berloffa sono molte le linee tratteggiate che si intrecciano. E che raccontano una storia. Linee di viaggi che sono poi esperienze di vita. E di lavoro. C’è un aereo che ad agosto ha fatto andata e ritorno da Torino a Seoul. Un altro che a fine mese farà rotta verso Tenerife. Una tratta già percorsa ad aprile. E c’è una linea, con sopra un’automobile, che da Cuneo – dove Berloffa è nato nel 1980 – va dritta in Svizzera, a Sankt Gallen. «Sono qui da settembre. Giusto il tempo di disfare la valigia di rientro dalla Corea del Sud e preparare quella per la Svizzera». Frontaliere dell’opera lirica, verrebbe da dire. Sabato 27 ottobre Nicola Berloffa, che di professione fa il regista, inaugura la stagione del Theater di Sankt Gallen con un nuovo allestimento di Don Carlo di Giuseppe Verdi, opera che mancava dalla città svizzera da oltre vent’anni. Eduardo Aladrén è Don Carlo, Alex Penda Elisabetta, Alessandra Volpe Eboli, Tareq Nazmi Filippo II, Nikolay Borchev Rodrigo. Sul podio il direttore stabile Modestas Pitrenas. «Qui la chiamano la big production, titolo di punta del cartellone del teatro, che sarà in scena sino a febbraio».

Sino a febbraio, Nicola Berloffa?

Da qui a febbraio Don Carlo avrà dieci repliche perché quello di Sankt Gallen è un teatro di repertorio che fa 280 alzate di sipario l’anno: ci sono orchestra, coro e corpo di ballo, una compagnia stabile di cantanti e una di attori. Ogni sera si cambia titolo. In una sorta di catena di montaggio della lirica dove la qualità è la parola d’ordine. Risorse importanti. Il tutto per una città da 75mila abitanti nel cuore della Svizzera.

In Italia sarebbe impensabile…

In Italia spesso non c’è progettualità, a prevalere nella programmazione è la necessità di riempire dei buchi. All’estero, dove i teatri non sono certo immuni dalla crisi, c’è invece una progettualità a lungo termine. A Sankt Gallen ho debuttato nel 2013 con Carmen, mi ha chiamato il direttore artistico Peter Heilker dopo aver visto la mia Italiana in Algeri a Marsiglia. Subito è arrivata la proposta per Norma che è andata anche a Nizza e Rennes. L’idea di portare l’eroina di Bellini nel Risorgimento è piaciuta e ha funzionato tanto che Heilker mi ha chiesto di immaginare un Don Carlo sulla stessa linea.

Sarà, allora, un Don Carlo senza la Spagna del XVI secolo di Filippo II?

Quando si pensa a un’opera come Don Carlo sembra quasi impossibile immaginare un allestimento che non sia incarnato nel periodo storico che mette in scena. Il teatro, però, mi aveva chiesto di cercare una nuova prospettiva drammaturgica che potesse illuminare di una luce nuova il testo ispirato a Schiller e la musica di Verdi. Mi sono messo a studiare a fondo la partitura e le fonti e mi sono accorto che Don Carlo è un grande dramma romantico, basato certo su un dato storico sul quale si innesta, però, una vicenda di fantasia. Ho provato allora a cercare di immaginarmi le vicende in un altro contesto, sempre, però, ancorato alla musica di Verdi: nella partitura c’è la linea della parola con il canto, ma anche quella delle note con la musica che in orchestra racconta molto dei caratteri dei protagonisti. Mettendo insieme i due aspetti mi sono trovato di fronte a personaggi quasi inediti, che vivono sì le vicende note del libretto, ma che per la loro modernità potrebbero abitare qualsiasi epoca. Mettendoli uno accanto all’altro, illuminati da questa nuova luce, ne è uscito un grande ritratto di famiglia a tinte scure di una monarchia ai tempi della scrittura di Verdi. Un periodo di grande fulgore che prelude alla fine delle monarchie: in un batter d’occhio arriva la Prima guerra mondiale e c’è il canto del cigno della nobiltà europea.

Perché proprio la fine dell’Ottocento?

Lo trovo il periodo ideale per raccontare la solitudine del potere. In tutti i personaggi c’è sofferenza per una grande mancanza di affetto, in tutti c’è l’impossibilità di esprimere i sentimenti. C’è una solitudine che porta alla morte, vera o presunta che sia: Rodrigo muore ammazzato, Eboli si ritira in un convento come se fosse sepolta viva, Don Carlo sparisce nel nulla inghiottito da una tomba. Personaggi bipolari, che appaiono diversissimi tra le scene di massa, dove rappresentano il potere pubblico, e quelle intime e private dove avviene la resa dei conti in duetti drammatici resi tali dalla violenza orchestrale della musica che arriva scura. In privato tutti sono allo stesso livello, non ci sono più il re e il consigliere, non ci sono più la regina e la dama di compagnia. Filippo lotta per mantenere il potere così come l’inquisitore, Eboli si mostra in tutto essere un personaggio livido, Carlo nella sua isteria. Don Carlo diventa così un dramma claustrofobico che ho voluto collocare tutto in interni.

Re Cristiano IX di Danimarca con la famiglia di Lauritz Regner Tuxen

Come racconta questo dramma la scenografia di Fabio Cherstich ?

Con tre scatole/stanze, una nera, una rossa e una bianca, che si incastrano una nell’altra per dare il senso di oppressione. Siamo partiti da un quadro di Lauritz Regner Tuxen, Re Cristiano IX di Danimarca con la famiglia, un grande ritratto nel quale il pittore danese, ritrattista ufficiale della regina Vittoria e dello zar Nicola II, sembra catturare l’ultimo momento felice di una monarchia. C’è ritratta una nobiltà che poi sparirà con la Prima guerra mondiale. Al dipinto si ispirano anche i costumi di Alessandra Facchinetti.

La stilista che ha lavorato per Gucci e Valentino grazie a te debutta come costumista.

L’ho conosciuta mentre ero a Macerata per Madama Butterfly. Mi hanno colpito la femminilità e il romanticismo che mette nel vestire le donne. E mi è sembrata la persona giusta per Don Carlo dove non volevo una costumista tradizionale, ma una persona che lavorasse sull’idea di costume. Perché quando si fa questo titolo il costume è fondamentale. C’è un colore che accompagna i personaggi nel loro cammino di morte: il marrone, il viola, il nero. Abbiamo ambientato il tutto tra il 1875 e il 1880 facendo un accurato lavoro di ricerca iconografica. Per dare una drammaticità all’azione Alessandra ha creato costumi elaborati che impongono una lentezza e una drammaticità al movimento dei personaggi.

Don Carlo debutta sabato 27. Tempo un giorno e sarai di nuovo su un aereo, destinazione Tenerife. Un teatro d’opera sull’isola più grande delle Canarie?

Sì, dove ho già fatto Flauto Magico e dove ho portato Carmen. Il 20 novembre debutta un nuovo allestimento della Lucia di Lammermoor di Donizetti in coproduzione con il Colon di Buenos Aires e l’Opera di Oviedo. Sarà una Lucia ancora più malinconica del solito. Molto cinematografica. Anche questa tutta in interni. Ho voluto mettere in scena la debolezza della protagonista, che ti fa venire voglia di prenderla per mano ed aiutarla. La regia seguirà Lucia all’interno della sua casa, in un lungo piano sequenza hitchcockiano. La scenografia sarà in continuo movimento con ambienti padronali per le scene di rappresentanza e corali, mentre le altre scene si svolgeranno nelle stanze della servitù, luoghi segreti di una casa abbandonata dove non c’è più nessuno, ma dove si consuma il dramma. I costumi saranno tra la fine degli anni Trenta l’inizio degli anni Quaranta del Novecento. L’immaginario sarà quello di Rebecca la prima moglie di Hitchcock perché Lucia è un dramma romantico della follia.

In Italia tornerai a febbraio per un nuovo Andrea Chénier di Giordano che debutterà a Modena per spostarsi poi in vari teatri dell’Emilia Romagna.

Sarà l’unico impegno in patria. Andrea Chénier è un’opera che non puoi fare fuori dal contesto della Rivoluzione francese. Devi metterti a disposizione della storia. Pui, certo, trovare un’estetica tutta tua, un contenitore diverso, ma quello che devi raccontare è pur sempre la Rivoluzione. Ho scelto la via dell’essenzialità, meno rococò rispetto a come siamo abituati a vedere. Al scenografia sarà un unico luogo, una grande stanza che verrà trasformata a vista con il passare degli atti: dal palazzo dei conti di Coigny si arriverà al patibolo finale con una progressiva spogliazione dell’ambiente da parte dei rivoluzionari.

Come mai così pochi impegni in Italia?

Perché non mi chiamano. Ma la mia carriera è partita subito fuori dall’Italia. Ho fatto studi di violoncello a Cuneo, dopo il liceo, nel 2002, mi sono iscritto al Dams di Torino e ho poi completato il mio percorso alla Paolo Grassi di Milano dove mi sono diplomato. Quando ero ancora allievo ho fatto da assistente a Daniele Abbado e a Luca Ronconi che poi mi ha proposto di continuare a collaborare con lui. Nel 2007 ho vinto un concorso del ministero della Cultura francese per la regia de Il viaggio a Reims di Rossini, una coproduzione tra 18 teatri con due anni di tournee. Da lì mi sono arrivate altre proposte, ma sempre all’estero: Spagna, Francia, Germania e Svizzera.

Cosa trovi all’estero che manca in Italia?

Un grande rispetto per l’artista. Sono reduce dalla Corea del Sud dove ho fatto Così fan tutte di Mozart e dove tornerò per una Cenerentola di Rossini nel 2020: è stata la produzione più grossa che ho fatto a livello di budget e di palcoscenico, difficile, sicuramente, ma positiva perché anche lì c’è un grande rispetto per gli artisti. In Italia se non hai conoscenze e contatti diretti non ti prendono mentre all’estero basta mandare una mail e ti rispondono, anche solo per dire: No, grazie..  E quando ti chiamano ti danno fiducia e una grande libertà di azione che ti consente di lavorare in tutta serenità. Da noi c’è una casualità nella programmazione: non riesco a vedere una linea programmatica nei cartelloni di molti teatri dove si chiamano registi eccezionali, ma si sbagliano i titoli, si chiamano grandi cantanti, ma non si offrono loro le parti giuste. Mi dispiace dirlo, ma dopo alcune esperienze drammatiche mi auguro di non essere più richiamato a lavorare in certi teatri.

Nelle foto le prove di Don Carlo a Sankt Gallen e il regista Nicola Berloffa