Diario verdiano. 5
Il racconto in parole e immagini dell’opera di Giuseppe Verdi vista sul palco del Teatro Regio al fianco di cantanti e tecnici
Dietro le quinte lo spettacolo inizia prima. Almeno due ore. L’orario segnato in locandina per la recita di Attila al Festival Verdi di Parma è le 17. Ma già alle 15 fuori dall’ingresso artisti del Teatro Regio di Parma c’è traffico. Biciclette e motorini. Perché in città si gira più agevolmente. Chi parcheggia. Chi chiude la catena. Pantaloni nei con i tasconi, gilet, sempre nero e sempre con tante tasche, i tecnici fumano una sigaretta. Tra dieci minuti devono essere in palco. Giro di ricognizione dei monitor che collegano la buca dell’orchestra al dietro le quinte.
I coristi, invece, hanno appuntamento in sala trucco, ricavata sotto il palco. Dove ci sono già i figuranti. Donne e bambini. Perché il regista Andrea De Rosa racconta Attila come un re sanguinario. Che, però, non si sporca le mani. Fa uccidere dai suoi scagnozzi donne e bambini. Tanto che le immagini volute dal regista napoletano sembrano uscite da un reportage da una zona di guerra, un angolo di Medioriente dove i cristiani muoiono martiri. I figuranti indossano già i costumi. I parrucchieri sistemano i capelli delle donne. Un truccatore, invece, pensa ai bambini. «Vieni che ti metto il borotalco». Il talco bianco sui capelli e sulle spalle, a simulare la polvere delle macerie. Perché in scena, sulle note finali della sinfonia, crollerà un muro: il covo è stato scoperto e gli uomini di Attila compiono la strage. Moriranno tutti. Torneranno poi come fantasmi, morti viventi che perseguitano il re. Sotto il palco ci saranno i truccatori pronti a sporcarli di sangue. Che è poi una tintura rossa che una ragazza già prepara diluendo il colore con l’acqua. Più semplice il trucco per gli artisti del coro. Un tocco ai capelli, specie per le donne. Il trucco c’è chi se lo fa da solo.
In portineria, che è accanto alla sala trucco, ci sono già i pompieri. Hanno fatto il giro del teatro per verificare che tutto sia a norma. Firmano i documenti necessari per l’agibilità E aspettano. Vigileranno poi perché in scena ci sarà anche il fuoco. Gli orchestrali della Filarmonica Toscanini arrivano alla spicciolata, hanno già il vestito scuro: manca solo di fare il nodo alla cravatta. Firmano il foglio presenze. Poi qualcuno va direttamente in buca a provare. Attila, ma anche le partiture che l’orchestra suonerà prossimamente. Il timpanista sistema le pelli. L’arpista prova e riprova le sue battute.
Un’altra melodia arriva dalla tromba delle scale. Ti porta già dentro l’opera. «Ella in poter del barbaro, tra le sue schiave avvinta» canta una voce. È quella di Francesco Demuro, che in scena veste i panni di Foresto. La sua voce squillante arriva da dietro la porta del camerino dove il tenore si riscalda. La porta si apre. «Buongiorno. Andiamo al trucco». Due rampe di scale ed ecco la stanza trucco e parrucco per i cantanti. Piena di parrucche di precedenti allestimenti. Tutte su teste di polistirolo con scritto il nome del cantante che le ha indossate. Davanti a uno specchio c’è già Maria José Siri. La stanno pettinando mentre lei risponde ai messaggi di In bocca al lupo! sul cellulare. Accanto a lei si siede Demuro. Prima di una pettinata gli posizionano un microfono tra i capelli. Perché la recita sarà ripresa da Radio Tre che la trasmetterà poi in differita. Cambio. Sulla poltrona di Demuro si siede Riccardo Zanellato, il basso che veste i panni dell’Attila del titolo. Anche per lui il trucco è rapido. In attesa ci sono già Vladimir Stoyanov e Saverio Fiore, Ezio e Uldino.
L’orologio segna le 16. Maria José Siri, che è Odabella, tornata in camerino intona il «Santo di patria» la sua aria d’esordio. Si accompagna al pianoforte. Sul palco i tecnici sistemano la scena che hanno costruito la mattina. Si prepara il fuoco. Effetto speciale che grazie ad un telecomando vedrà uno scrigno riempirsi di fiamme. Un ultima prova luci. «Buongiorno a tutti. Manca mezz’ora all’inizio dello spettacolo». La voce del direttore di scena grazie agli altoparlanti arriva in tutti gli angoli del teatro. Si abbassa il sipario nero. Il pubblico sta per entrare in sala. Una comparsa fa stretching sul materasso che servirà nel primo atto per il giaciglio di Attila. Due coristi ne approfittano per farsi una foto con il cellulare sulla scena vuota. Il tempo sembra fermo. Il tempo dell’attesa. Chi scalda la voce. Chi manda messaggi sul cellulare. Qualcuno gioca. «Cinque minuti all’inizio dello spettacolo». Arriva il «Chi è di scena». Il coro si prepara dietro le quinte. Gli uomini scelgono il loro zaino verde militare. Il costumista Alessandro Lai li vuole simili a soldati senza tempo e luogo. Le comparse si preparano in quinta. Arrivano i bambini. Ciascuno è seguito da una ragazza. «Sei pronto anche oggi per recitare? Poi ti facciamo un bell’applauso» scherzano mentre li accompagnano sul palco.
Mezze luci in sala. Parte l’annuncio registrato che «è vietata qualsiasi ripresa dello spettacolo» e con la richiesta «di verificare il completo spegnimento dei telefoni cellulari». Fa un certo effetto sentirlo dall’altra parte del sipario. Un figurante passa tra i coristi «Merda a tutti!» il classico saluto che evoca quando si sperava in tanto sterco dei cavalli che trainavano le carrozze sulla piazza, cosa che significava avere in sala tanto pubblico. «Buio» chiede il direttore di scena Beatrice Robuffo dall’aquario, la cabina sul lato sinistro del palco da dove partono tutti i comandi per lo spettacolo. L’orchestra accorda gli strumenti. Le quinte piombano nell’oscurità, rischiarata solo dalla luce di monitor sui quali compare il direttore d’orchestra: Gianluigi Gelmetti sta entrando in buca, il pubblico lo saluta con un applauso che arriva sul palco amplificato grazie ai microfoni d’ambiente. Che rimandano le note del preludio. «Pronti con il crollo del muro» dice nel microfono Beatrice Robuffo che davanti ha la partitura con tutto annotato: post-it colorati per ricordare quando è ora di chiamare in scena cantanti e figuranti.
Dietro il palco i tecnici, collegati in cuffia con l’aquario, si preparano a far cadere le pietre (di polistirolo) che simulano un muro. Fumo spinto da un ventilatore per la polvere. «Vediamo come viene il crollo» dice un tecnico proprio accanto al proscenio buttando un occhio al monitor che, sistemato a fianco di quello con le immagini del direttore, inquadra fisso la scena. «Tutto ok».
La curiosità di vedere uno spettacolo dietro le quinte è tanta. Non si riesce a stare fermi in un punto. In proscenio succede qualcosa. Ma già dietro si sente un rumore. Si apre un portellone. Dai camerini arriva la Siri. Vestita di nero. Sorride alle coriste già pronte per l’ingresso. Nessun gesto scaramantico. Il via del direttore di scena arriva a uno dei maestri collaboratori di palcoscenico che fa entrare sul palco le donne. Sono le donne italiane che accompagnano Odabella. Lei attacca il suo «Santo di patria», quello che aveva provato in camerino. Dietro le quinte si tiene il fiato. La tensione si scioglie con l’applauso del pubblico. Il primo scoglio è andato. «Mimi prepararsi per la sepoltura» ripete due volte il direttore di scena e l’ordine arriva dall’altra parte del palco in cuffia a uno dei maestri collaboratori. «Signori del coro prepararsi nel retropalco» l’ordine successivo. Un canto fuori scena prepara l’arrivo di Forseto. Francesco Demuro è già dietro le quinte, saluta i coisti, batte il cinque con alcuni. «Come va? La voce?» gli chiedono. «Meglio, grazie. Con Verdi bisogna darci dentro. Forseto assomiglia un po’ a Manrico» commenta con un piede già sulle scale che consentono l’accesso ai praticabili della scena, una distesa di pietre nere. Esce la Siri, entra Demuro. Lei corre in camerino. Due note al pianoforte per tenere la voce calda. Prova l’aria del «Mmurmure» mentre una sarta le cambia il costume. Pronta a tornare in scena. Passa tra i coristi che si sono assiepati intorno al boccione d’acqua. Quasi uno slalom.
Cambio scena. I tecnici corrono in palco. Portano un grande materasso nero, il letto di Attila. Dall’alto cala un velo, anche lui nero, la tenda del condottiero davanti alla quale si svolge la scena del primo atto. «Mezzeluci. Sala buia». Ma il direttore non parte. Una violinista ha detto che non vede il segnale verde. In buca ci sono due luci, per comunicare dal palco con il direttore: la rossa dice che sul palco si sta effettuando ancora il cambio scena, la verde che la musica può ripartire. Un tecnico corre in buca. Alza il pollice. La musica riparte. «Era solo una luce troppo intensa che non permetteva a Gelmetti di vedere bene quella verde. D’altra parte l’abbiamo provata proprio oggi…». Il bello della diretta.
La seconda aria di Odabella va. « Oh! Nel fuggente nuvolo, non sei tu, padre, impresso?». Va anche il duetto con Forseto. Tutto in proscenio. «Prepararsi bambini e donne. Papa Leone e i due chierichetti». Il coro è nel retropalco. Un monitor mostra Gelemetti in buca d’orchestra, così il maestro del coro, in sincro con la buca d’orchestra, può dare l’attacco alle voci dei pellegrini. In sala arrivano come un’eco lontana. Qui sul palco le avverti nette. Immerso nella musica inarrivabile di Verdi.
Papa Leone è dietro il velo nero. Appare come un’ombra. Gioco facile, un faretto amplifica i contorni di Paolo Battaglia, il cantante che interpreta il Pontefice che ferma la marcia di Attila, sul velario nero. Il telo cade mentre parte il concertato. Ecco lo spettro che Attila aveva visto in sogno. E i morti viventi che De Rosa ha voluto in tutto lo spettacolo, ossessioni, immagini inquietanti che tormentano il protagonista. Il coro dal fondo della scena avanza verso il proscenio. Un occhio in quinta dove ci sono altri schermi che rimandano l’immagine del direttore. «Prostrasi il re… degli Unni il re… s’arretra il re». Un concertato e si chiude il sipario.
Fine primo atto. Intervallo. Sul palco si spengono i riflettori e si accendono le luci di servizio. Il coro esce. I solisti vanno in camerino. Cambio d’abito. Una risistemata al trucco. E poi ancora vocalizzi per tenere in esercizio la voce. Il pubblico va al bar, esce in strada a prendere una boccata d’aria. Ma sul palco il lavoro è ancora più frenetico. Il cronometro è partito: meno venti minuti. Una squadra di tecnici piomba in scena. Si smontano le scale che permettevano di accedere alla pedana dei praticabili della scenografia. Sale un fondale grigio e ne scende un altro. Un telo nero. Ai lati della piattaforma si posizionano sei pali sopra i quali ci sono le torce che si accenderanno per la festa, ma che poi il vento, come in un prodigio, spegnerà. La parete di fondo, quella del muro crollato viene completamente smontata. Si risistemano le luci, nuovi puntamenti dei fari per realizzare i tagli ideati da Pasquale Mari. Intanto due signore puliscono il palco. Scopa. paletta e straccio. In buca rientrano gli orchestrali. Provano per la seconda parte.
«Cinque minuti. Chi è di scena». In platea rientra il pubblico. Buio. Nuovo applauso per il direttore. Inizia il secondo atto. Ci sono le sei torce accese. Fuoco vero. In quinta i pompieri non perdono d’occhio il palco. Sta finendo il duetto tra Foresto ed Ezio. Dietro le quinte si accendono altri fuochi, due grandi candelabri. Alcuni figuranti prendono un lungo tavolo. Tocca alla scena del banchetto. Mentre la musica racconta una festa, sebbene con toni un po’ lugubri, si cambia a vista la scena. La poltrona che era sul fondo viene messa in proscenio. Al centro il tavolo. Una tovaglia. Ed entrano i candelabri. La musica festosa viene interrotta da un tuono. Il vento spegne le fiaccole: una corda collegata a un coperchio permette di soffocare il fuoco. E il gioco è fatto. Gioco che si svela dietro le quinte. Una grancassa e la machina del vento, un foglio su un rullo che simula il fischio dell’aria, evocano i rumori di una tempesta, la furia degli elementi si scatena. Ci sono i microfoni per amplificare i rumori e rimandarli in sala. Una pioggia di cenere copre la scena, sono coriandoli di carta neri che volano in scena grazie ad un grande ventilatore: si accende la macchina, si prende una manciata di coriandoli e li si lascia volare. Stupore di semplicità. Senti l’aria. Senti il vibrare della gran cassa quasi ti battesse vicino al cuore. A un tratto silenzio. Il vento finisce. E già un tecnico smonta i microfoni che amplificavano la tempesta.
Finisce anche il secondo atto. Il cambio di scena è rapido. Fuori il tavolo e la poltrona. Si riapre la voragine al centro della scena. Dall’alto cala un telo bianco, una striscia trasparente. Le sarte recuperano i veli che avevano in testa le coriste. Prendono un ascensore che dal palco porta direttamente in camerino: lì li ripiegheranno, pronti per la prossima recita. Il coro intanto torna nel retropalco. L’ultimo intervento, le voci della festa di nozze di Attila e Odabella che arrivano dalla tenda. Intanto in scena Foresto canta la sua aria. «Perché fai pari agli angeli chi sì malvagio ha il sen» e i tenori del coro “doppiano” Demuro, cantano a bassa voce le parole di Francesco Maria Piave e le note di Verdi: qualcuno ha quest’aria in repertorio per le audizioni. In scena la vendetta di Odabella sta per compiersi. Siamo sul luogo del delitto. Dentro l’azione, basta allungare la mano e quasi potresti fermare il colpo mortale. Ma la musica di Verdi deve raccontare la tragedia. Attila scopre la congiura e la donna lo pugnala. Il regista vuole la scena nella voragine, dietro il telo bianco. Che appena il colpo viene sferrato cade: un pulsante in quinta fa sì che si sgancino le mollette che reggono il telo, lasciandolo così cadere nel vuoto.
Buio. E partono li applausi. Cala il telo nero che fa da sipario. Il coro entra in scena. Si rialza il telo. Ad uno ad uno entrano i protagonisti. «Tutto bene. Andata anche oggi» dietro le quinte si fa un primo bilancio. Beatrice chiude la sua partitura. E dirige le chiamate in proscenio. «Avanti tutti» suggerisce. «Ora solo i cantanti». Gelemtti intano è salito in palco. La Siri va in quinta e lo porta in scena. Finito l’applauso del pubblico parte quello dietro le quinte. Saluto liberatorio di rito. Il coro è già scappato in camerino. Intanto i macchinisti iniziano a smontare la scena. I cantanti si stringono la mano. Poi una foto tutti insieme da postare sui social. Intanto il teatro si svuota. Resta sul palco un silenzio quasi irreale. La magia del teatro. «Potenza della lirica dove ogni dramma è un falso» cantava Lucio Dalla in Caruso. Lo tocchi con mano. Il pugnale di plastica. Il sangue fatto di tempera rossa. La cenere che altro non è che carta soffiata da un ventilatore. L’emozione dei cantanti, quella è vera. La porti a casa. Impressa negli occhi accecati dai fari con le loro luci di taglio.
Anche l’edizione 2018 del Festival Verdi finisce. Va in archivio con già stampato il programma del prossimo anno. Si parte il 26 settembre 2019 al Teatro Regio con I due Foscari, il 27 tocca a Luisa Miller in un insolito spazio monumentale nel centro di Parma, il 28 settembre Aida a Busseto nella la versione mignon ideata nel 2001 da Franco Zeffirelli, il 29 si torna al Regio per Nabucco con la regia della coppia Ricci/Forte, provenienti da un certo teatro di ricerca e misuratisi per la prima volta con la lirica con la pucciniana Turandot a Macerata nell’estate 2017.