A Bologna l’opera ispirata a Bernanos con la regia di Oliver Py diventa una riflessione sul martirio e sulla paura della morte
Il bianco e nero. La tinta dominante dello sguardo di chi osserva la vita con l’angoscia della morte. Con il terrore di una fine incombente che fa sbiancare il volto, prospettiva allontanata dal pensiero, ma buttata in faccia da una quotidianità che imprigiona e dalla quale non si vorrebbe che scappare. Il bianco. E soprattutto il nero di una fede che attraversa il buio del dubbio. Le tinte dei Dialogues des Carmelites di Francis Poulenc nella regia di Olivier Py. Il blu punteggiato di stelle di un cielo aperto sull’Infinito arriva solo alla fine, al termine del percorso che ha portato Blanche a testimoniare con la vita la propria fede.
È la storia di un’anima, un diario come quello di Santa Teresa di Liseux, il melodramma che Poulenc scrive ispirandosi al racconto di Georges Bernanos, sceneggiatura per un film mai girato sulla vicenda delle martiri di Compiégne, le sedici religiose mandate alla ghigliottina nella Parigi del Terrore del 1794 per essersi rifiutate di rinunciare ai propri voti. L’anima, nella partitura del compositore francese, è quella di Blanche de la Force, l’unico personaggio inventato, che racchiude in sé tutti i colori di una vita di fede. Perché Blanche, sconvolta dall’aver assistito alla morte atroce della Priora, davanti alla prospettiva del martirio scappa per lasciarsi alle spalle la sofferenza. Ma poi torna, raggiunge le compagne sulla piazza e, ultima tra le carmelitane, sale al patibolo cantando il Salve Regia.
Martiri senza tempo dice Py raccontando al Teatro Comunale di Bologna (repliche sino a venerdì per il titolo, ideale per la Quaresima, che arriva per la prima volta nel capoluogo emiliano) i Dialogues con una lettura asciutta e scarna: la scena è una grande scatola di legno grigio che imprigiona i personaggi incombendo su di loro come nel finale ad effetto del primo atto dove la stanza della priora è in verticale, come vista dal basso, illuminata da ombre inquietanti. I costumi (disegnati come le scene da Pierre-André Weitz) non hanno tempo. Martiri che sono passati dal dubbio dell’assenza di Dio. Se non della morte di Dio, come il Novecento ha teorizzato a partire dalle grandi tragedie della storia. Martiri che hanno conformato la propria vita a Cristo sino al sacrificio della vita. Così i quadri viventi (segno forte di uno spettacolo che finisce in minore, senza un segno forte nella scena della ghigliottina) durante gli intermezzi orchestrali, scene cristologiche che citano dipinti famosi, dall’Annunciazione all’Ultima Cena di Leonardo sino a una crocifissione, dicono questa conformazione a Cristo, rendono visibile il modello al quale, tra tormenti e dubbi, le carmelitane tendono.
Tormenti e dubbi che sono poi quelli del Novecento di cui la musica di Poulenc è impregnata e che la bacchetta di Jérémie Rhoer, grazie al suono pieno e corposo dell’orchestra del Comunale, restituisce geometricamente perfetta. A volte in modo fin troppo asettico nella sua lucida analisi dei sentimenti. Intense le prove di Hélène Guilmette (Blanche), Sylvie Brunet (Madame de Croissy), Sophie Koch (Mère Marie), Sandrine Piau (Soeur Constance), Stanislas de Barbeyrac (Chevalier de la Force).
Nella foto di Rocco Casaluci Teatro Comunale di Bologna Dialogues des Carmelites
Articolo pubblicato su Avvenire del 15 marzo 2018