Diario rossiniano. 5
Al Rossini opera festival di Pesaro in scena il popolare titolo con la regia di Pier Luigi Pizzi e la direzione misurata di Abel Convincenti protagonisti Davide Luciano e Maxim Mironov
Un Barbiere di Siviglia queer. Perfetto per i salotti tv di Barbara D’Urso e Caterina Balivo o per una puntata di Come ti vesti? su Real Time. E, perché no, per un Pride… volendo fare i culturali che fa molto chic.
Perché queer? Perché pieno di ammiccamenti dal palcoscenico ai codici di certo mondo omosessuale che, si sa, ama visceralmente l’opera lirica. E compra i biglietti. E fa turismo culturale, a Pesaro come a Salisburgo. E crea indotto. Fetta di pubblico che, se non fossimo nella patria di Gioachino Rossini e al Rof, tempio musicale dove dal 1979 si rispetta filologicamente come sacro il dettato del compositore, penseresti che qualche regista navigato voglia conquistare con due pettorali esibiti piuttosto che con un’idea moderna e rivoluzionaria, e insieme rispettosa della musica, del racconto. Cioè con un allestimento che risponda (o almeno provi con onestà intellettuale a farlo) alla domanda su cosa dica agli ascoltatori di oggi Il barbiere di Siviglia o qualsiasi opera del genio marchigiano. Tra l’altro nel laboratorio del Rossini opera festival ne manca solo una, Edoardo e Cristina, partitura alla cui edizione critica sta lavorando la Fondazione Rossini e che dovrebbe essere pronta per il 2021.
Quest’anno al Rof, dopo un Ricciardo e Zoraide in versione grand operà ottocentesco – anche qui pettorali esibiti e ballerini in calzamaglia attillata – e dopo un’Adina pop e colorata, è toccato all’opera più opera di Rossini, al Barbiere di Siviglia, appunto, titolo di punta dell’edizione 2018, la numero trentanove che celebra i centocinquant’anni della morte del compositore.
Barbiere affidato all’ottantottenne Pier Luigi Pizzi che, come sempre, firma regia, scene e costumi. E che come sempre è uguale a se stesso nel fare ogni volta lo stesso spettacolo, l’azione immersa nel bianco abbagliante di scene neoclassiche (esteticamente perfette) abitate da macchie di colore marcato che accendono i costumi (eleganti, formalmente impeccabili) in bianco e nero, la recitazione lasciata all’estro degli interpreti, la lettura estetica, ma non capace di andare nel profondo del racconto musicale.
«Niente farsa, Barbiere è una commedia e si deve tornare al testo di Beaumarchais che ispirò Rossini» ha detto il regista veneziano. Ma poi, alla prova dei fatti, lo spettacolo funziona solo quando asseconda la farsa, all’inizio del secondo atto, con il pubblico che ride sonoramente per le gag del Conte Almaviva travestito da Don Alonso.
Il resto è il solito Pizzi, quasi in formato musical, con l’aggravante di alcune cadute di stile. Alcune irritano. L’ingresso di Figaro che improvvisa uno spogliarello e un bagno nella fontana della piazza (ecco uno degli ammiccamenti non troppo velati, con l’azione portata in primo piano sulla passerella che corre intorno all’orchestra) fa venire in mente il voyerismo delle commedie anni Ottanta con Edwige Fenech spiata dal buco della serratura mentre si fa la doccia. O le mossette da danza hip hop (finto giovanilismo) chieste ai cantanti durante il concertato che chiude il primo atto.
Altre mettono tristezza. Costringere Don Bartolo, durante l’aria della Calunnia, ad affettare un salame e a darne una fetta a Don Bartolo quasi gli stesse facendo la comunione non è un gesto blasfemo o di rottura (sarebbe dare troppa importanza alla cosa), ma solo di superficiale leggerezza e, forse, di ignoranza. E dispiace perché viene da un artista come Pizzi che ha lasciato il segno nel mondo del teatro del secolo scorso. Ma che con il Barbiere del centenario non graffia. Non legge, se non in superficie, appunto, vizi e virtù come l’attaccamento al denaro e la maldicenza, la fedeltà e l’onestà, che Rossini riveste di una musica assoluta, compiuta nella sua perfezione, capace di raccontare una storia (l’edizione integrale con tutti i recitativi e con il Cessa di più resistere svela sempre particolari imprescindibili) e di evocare immagini, al di la di quello che avviene in scena.
Fedeltà alla partitura da podio per Yves Abel che alla guida dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, rischia forse una certa monotonia nel racconto musicale, ma non va mai sopra le righe, tenendo le redini della squadra vocale, con i personaggi che, una volta tanto, hanno l’età (o quantomeno la dimostrano senza troppi artifici) chiesta dal libretto. Figaro è Davide Luciano, artista a tutto tondo (suon anche la chitarra accompagnando il Conte nella serenata), impeccabile vocalmente, credibile e prestante scenicamente. Nobile nella figura e nel timbro, Maxim Mironov è il Conte d’Almaviva, irresistibile nella caricatura di Don Alonso, ammaliante nella resa musicale (a volte, però, la voce si perde nella vasta platea dell’Adriatic arena) e fedele alla virgola alla scrittura rossiniana. Aya Wakizono è una Rosina che brilla più scenicamente che vocalmente per freschezza e spigliatezza che offre al personaggio. Pietro Spagnoli (Bartolo) e Michele Pertusi (Basilio) – ai quali Pizzi chiede un eccesso di tic, la erre moscia per uno, la balbuzie per l’altro – sono una garanzia di sorriso sempre accordato alla musica. Cameo per Elena Zilio che fa una Berta parente delle casalinghe disperate attaccate alla bottiglia.
Trionfo (queer) per tutti, in passerella a raccogliere gli applausi ritmati. Che, una volta spenti, lasciano spazio alla riflessione. A come raccogliere la sfida lanciata dal sovrintendente Ernesto Palacio di «raccontare e interpretare Rossini ai nostri giorni». Nel 2019, per l’edizione numero quaranta del Rof, ci proveranno Michele Mariotti e Graham Vick, direttore e regista di una nuova Semiramide, Carlo Rizzi e Moshe Leiser e Patrice Caurier impegnati con L’equivoco stravagante, Paolo Arrivabeni e Davide Livermore con Demetrio e Polibio. Sulla carta un’edizione imperdibile.
Nelle foto Studio Amati Bacciardi Il barbiere di Siviglia al Rossini opera festival