Il 29enne musicista belga-statunitense con bisnonni siciliani debutta con l’Orchestra Rai di Torino nel Concerto di Carnevale Tanta opera come Kapellemeister alla Deutsche Oper Berlino gli impegni a Dresda, Colonia e Nancy tra podio e pianoforte
La sensazione è quella di un ritorno a casa. «Un ritrovare le mie radici. Perché i miei bisnonni erano siciliani. Non li ho mai conosciuti, ma il nome che porto è inconfondibilmente italiano». Giulio Cilona ha origini belga-statunitensi. «Ma antenati italiani, appunto». Così il debutto sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai di Torino «è un grande onore, una gioia, ma anche una responsabilità» racconta, in un italiano perfetto (ma parla con una facilità impressionante inglese, tedesco e, naturalmente, francese) il direttore d’orchestra che domenica 2 marzo sale sul podio dell’Auditorium Toscanini per il Concerto di Carnevale dell’Orchestra Rai affiancato dal violinista Stefan Milenkovich. «Un programma leggero, come l’occasione richiede, con Rossini, i valzer di Strauss, Offenbach, ma anche con pagine “serie” come l’ouverture Ruslan e Ljudmila di Glinka e La danza delle ore dalla Gioconda di Ponchielli, pagine che consentono all’orchestra di mettere in luce il suo virtuosismo». Pianista, compositore e, soprattutto, direttore d’orchestra Cilona. Classe 1995. Non ha ancora trent’anni, li compirà a dicembre. Nella sua biografia (intelligentemente) non si definisce, come fanno tanti, «uno dei direttori più interessanti della sua generazione». Eppure lo è. E non solo della sua generazione. Kapellmeister alla Deutsche Oper di Berlino, ospite regolare a Nancy e alla Semperoper di Dresda sul podio della Staatskapelle, festeggiatissimo a Colonia con la Gürzenich e con la Bergen Philhaqrmonic. «Fare musica con nuove orchestre, che non sono quella che regolarmente frequento, è sempre molto interessante per capire i diversi meccanismi di lavoro, ma soprattutto per indagare l’aspetto umano del fare musica, per vedere come si intrecciano i rapporti tra direttore e musicisti nelle prove e in concerto – racconta Cilona –. È successo anche questa volta, a Torino, per la mia prima volta con l’Orchestra Rai. A Torino. In Italia. Dove, e non è forse una coincidenza, è nata la mia passione per la musica».
Dove, in Italia, Giulio Cilona? Come è nata? E come è cresciuta questa passione?
«Avevo cinque anni quando i miei genitori si sono sposati in una chiesa a Roma. Le musiche che accompagnavano la cerimonia erano state affidate a un trombettista. Sono rimasto affascinato. E tornando a casa ho detto: voglio fare il musicista. Non vengo da una famiglia di musicisti anche se papà da giovane suonava il sassofono e mamma qualche anno fa ha iniziato a studiare violino. I miei genitori non mi hanno mai spinto verso la musica, mi hanno sempre sostenuto, accompagnandomi a lezione, alle prime audizioni. Penso che un musicista sia motivato a fare meglio quando guarda in alto, quando ascolta chi è più bravo di lui perché così è spinta migliorare. Per questo appena posto di vado ad ascoltare i colleghi perché da loro imparo molto».
Quando ha capito che la passione per la musica avrebbe potuto trasformarsi in una professione?
«Mi è stato chiaro sin da subito che avrei voluto fare della musica la mia vita. Certo la domanda che tutti si pongono è se si può vivere di musica. Io non mi sono posto questi interrogativi. Ho fatto quello che mi piaceva. Da bambino componevo. Ho studiato poi la tromba, il violino, il pianoforte. Poi mi sono avvicinato alla direzione. Ma senza un progetto preciso. Le idee si sono chiarite quando sono andato al Mozarteum di Salisburgo per i corsi da maestro collaboratore con Wolfgang Niessner. Studiavo due opere la settimana, le suonavo e le cantavo al pianoforte. Abbiamo iniziato con partiture relativamente facili Puccini e Verdi, poi siamo passati a Wagner e Berg. È stato Niessner a tracciarmi la strada. A un certo punto mi ha detto: basta, passiamo alla direzione. Mi ha subito consigliato di cercare un teatro tedesco, perché in Germania ci si fa davvero le ossa dirigendo senza prove e frequentando un vasto repertorio. Ho iniziato con audizioni in piccoli teatri poi è arrivata la chiamata di Hannover a settembre del 2019. Dopo tre mesi come maestro collaboratore mi hanno fatto dirigere una recita senza prove di Hansel e Gretel di Humperdink. Subito il primo violino è andato dalla direzione e ha chiesto che diventassi Kapellmeister. Così è stato».
Detta così sembra facile, ma ha mai avuto momenti di sconforto?
«Più che momenti di sconforto mi piace parlare di sfide perché quando un giovane musicista entra nel mondo tedesco e devi dirigere Trittico di Puccini, Gioconda di Ponchielli senza prove sicuramente davanti ha una grande sfida e si fa i muscoli per la vita. Avendo superato queste prove non hai più paura di nulla. Certo devi essere in grado di trasmettere stabilità e sicurezza a i musicisti. E loro rispondono».
Ha dovuto fare delle rinunce?
«Ho dovuto rinunciare innanzitutto a qualcosa della musica perché ho iniziato suonando la tromba poi si sono aggiunti il violino, il pianoforte, il clavicembalo, la composizione e la direzione d’orchestra. A un certo punto i miei maestri mi hanno chiesto cosa volevo fare e allora ho iniziato a sfrondare concentrandomi sulla direzione d’orchestra. Se guardo all’infanzia e all’adolescenza non vedo grandi rinunce. A scuola i miei compagni giocavano a calcio e io ero nel mio angolo e facevo musica. Ma mi piaceva. Ero nel mio mondo e mi consideravo quasi un extraterrestre. Poi quando sono entrato in Conservatorio sono stato felice di trovare altri pazzi come me».
Pianista, compositore…
«Da bambino ho composto di tutto. Ho avuto una frase in cui volevo diventare compositore di musica da film, ma poi ho abbandonato l’idea perché oggi non si registra più nei grandi studi americani con l’orchestra. Ho studiato molto come pianista e negli ultimi anni mi è mancato sedermi al pianoforte, anche se quando dirigo le opere di Rossini di Mozart sono io che suono i recitativi al clavicembalo. Ma prossimamente tornerò alla tastiera proponendo, come solista e direttore, concerti per pianoforte e orchestra a iniziare dall’Imperatore di Ludwig van Beethoven».
E poi direttore. Soprattutto direttore.
«La direzione mi affascina perché mi piace studiare la partitura, analizzarla nel profondo. E mi affascina salire sul podio e avere la possibilità di comunicare con ottanta persone senza parlare, ma solo con un gesto per convincere tutti i musicisti ad andare nella stessa direzione. Se questa intesa si crea lo percepisci subito, dopo cinque minuti di prova. Capisci chi collaborerà e chi dovrai conquistare con più fatica. Ricordo a Dresda dopo la prima recita senza prove del Flauto magico di Mozart ho appoggiato la bacchetta e la sensazione è stata quella di aver diretto una recita arrivando dopo settimane di prove perché i musicisti leggevano i miei pensieri. Quando mi siedo al pianoforte e suono c’è inevitabilmente più tensione. Sul podio invece mi sento a casa. È successo da subito. Ricordo la prima opera che ho diretto nel 2017 al Mozarteum di Salisburgo. Era Alcina di Händel: sono salito sul podio senza prove, tutto ha funzionato e non ero per nulla agitato. Tanto che alla fine mi sono stupito anch’io».
Chi sono i suoi modelli?
«Per il repertorio tedesco di Wagner e Strauss sicuramente Christian Thielemann, lui è un riferimento assoluto, ha una conoscenza incredibile della musica, prova senza partitura, si connette con l’orchestra a livello di comunicazione del suono a livelli pazzeschi. L’ho sperimentato dirigendo la Staatskapelle di Dresda che lui ha forgiato. Un riferimento è anche il direttore della Deutsche Oper di Berlino, Donald Runnicles. Ascolto poi i grandi direttori del passato, Herbert von Karajan e Leonard Bernstein e Carlos Kleiber del quale mi colpisce la gestualità».
Ma direttori si nasce o si diventa?
«Penso che direttori si nasca. Non è un mestiere che si può imparare. L’ho capito dirigendo le grandi orchestre che ho incontrato in questi anni. Quello che faccio al 98% è frutto di istinto o di cose che ho imparato dirigendo, solo il 2% della tecnica viene dallo studio. I grandi direttori hanno carisma che non s’impara a scuola».
Lirica o sinfonica?
«Domanda ostica. Tanto più che dirigere un’opera o una sinfonia sono quasi due mestieri diversi. Pochissimi direttori hanno combinato allo stesso livello lirica e sinfonica. Ma è una sfida che voglio raccogliere, la più importante della mia carriera».
Quali gli autori che ama di più?
«Ho un grande feeling con Wolfgang Amadeus Mozart. A livello interpretativo ho una visione molto chiara e mi piace lavorare per proporlo su strumenti originali, una linea che seguirò sempre più in futuro. Ho studiato la tradizione belcantistiche e mi sento mio agio in questo repertorio. E poi direi Verdi Puccini, di recente a Berlino ho diretto la mia prima Traviata senza prove e mi sono subito sentito a casa perché è un mondo che sento molto mio. Il repertorio tedesco mi affascina molto perché la mia crescita è avvenuta in Germania, apprezzo anche la musica francese perché è quella che parla la mia lingua nativa. Sul fronte classico sicuramente amo il classicismo e tutto il repertorio romantico tedesco».
E c’è qualche autore che invece non ama particolarmente?
«C’è sicuramente qualche pagina che a un primo impatto non mi conquista. Ma quando poi inizio a studiarla scopro sempre qualcosa e va a finire che mi piace e che arrivo a cantarla sotto la doccia ogni mattina».
E nella vita di tutti i giorni che musica ascolta?
«Mi piace molto il jazz e lo suono anche volentieri al pianoforte. Ma dato che per me la musica non è un mestiere, ma è la vita e non stacco quando esco dal teatro chiudendo un capitolo, capita che ascolti la musica che st studiando o dirigendo, mi fa bene. E quando sono triste ascolto la musica barocca che mi comunica una gioia di vivere che fa passare i brutti pensieri».
La musica classica è una musica per vecchi?
«Non direi. Sicuramente è una musica intellettuale. Certi musicisti seducono dal primo ascolto, altri invece hanno bisogno di essere analizzati per capirne il genio penso alle pagine di Pierre Boulez e di Arnold Schönberg, ma anche a Johann Sebastian Bach che certo ti colpisce al primo ascolto, però se lo guardi da vicino in profondità scopri la sua grandezza senza pari».
Cosa dicono i suoi amici? Li invita ai suoi concerti?
«Certo. E vado anch’io ad ascoltare i miei amici musicisti perché la musica è scambio. Nei secoli scorsi andare a teatro era un fatto sociale. Oggi le condizioni sono diverse e sicuramente può spaventare l’idea di sedersi in platea per ascoltare cinque ore di Meistersinger di Wagner. Dobbiamo lavorare per alimentare il pubblico di oggi, avvicinando i giovani. Tanto più che il pubblico è fondamentale per noi artisti perché lo sentiamo presente. Se applaude subito dopo la Sinfonia di un’opera ci trasmette energia ed entusiasmo incredibili».
È difficile emergere? C’è meritocrazia in questo mondo?
«Penso che lo spazio per la meritocrazia ci sia. Anche se conta essere nel posto giusto al momento giusto. Per fare questo, però bisogna essere sempre pronti. E c’è spazio anche per i giovani. Certo, forse per un giovane come me imporre la propria visione a chi è più vecchio e magari ha suonato i pezzi che dirigo quando non ero ancora nato sembra un azzardo, in realtà è una sfida che mi piace sempre raccogliere».
Come si vedi tra vent’anni?
«Magari direttore musicale di qualche teatro importante, avendo fatto magari registrazioni importanti. Ma soprattutto vorrei lavorare con orchestre che mi danno la gioia di fare musica».
Cos’è per lei la musica?
«Mi sveglio, mi addormento, sogno la musica. È tutta la mia vita».
Nelle foto @Barbara Rigon Giulio Cilona