Sgura, il baritono con un passato da infermiere

Il musicista di Ostuni prima di diventare un cantante lirico lavorava nei reparti di psichiatria  e rianimazione pediatrica Scoperto dal parroco, la prima opera vista i Foscari con Bruson Inaugura il Comunale di Bologna con La fanciulla del west

«Infermieri lo si è per sempre». Oggi canta sui palcoscenici lirici di tutto il mondo. Baritono pucciniano – ma non solo, di recente è stato Boccanegra, titolo verdiano, all’Opera di Roma. «La mia agenda nel 2024, anno pucciniano, appunto, è stata pienissima. E anche quest’anno il compositore toscano se la gioca con Verdi». Oggi canta sui palcoscenici lirici di tutto il mondo, ma Claudio Sgura è «infermiere per vocazione. E non smetterò mai di esserlo». Il baritono di Ostuni, classe 1974, inaugura la stagione 2025 del Teatro Comunale di Bologna tornano a vestire i panni dello sceriffo Jack Rance ne La fanciulla del west di Giacomo Puccini. Sul podio Riccardo Frizza. Regia «super tradizionale e va benissimo così» di Paul Curran. «Un personaggio complesso quello di Rance, consumato dalla gelosia. Ma non è cattivo, è disilluso e pensa di poter conquistare tutto con il potere il denaro» racconta Sgura, due metri e un centimetro di altezza. Il baritono pugliese prima di “scoprire” la lirica, lavorava come inferiore, «in psichiatria e in rianimazione pediatrica. Esperienza che mi ha segnato indelebilmente. Per fare l’infermiere ci vuole soprattutto molto cuore. A me lavorare in corsia ha cambiato la vita, il modo di rapportarmi con le persone… Perché tu sei la prima persona che un malato incontra, è solo in stanza, ha tante incertezze sul suo futuro, qualsiasi sia la sua malattia. E tu sei lì con lui, devi rassicurarlo. Sarò infermiere sempre…».

E come è passato dagli ospedali ai palcoscenici lirici, Claudio Sgura?

A casa mia non cantava nessuno, non c’era la cultura della musica. Papà operaio, mamma casalinga, persone semplici. Io suonavo la batteria con un amico. Ma mi piaceva anche cantare. Cantavo in chiesa, a Ostuni. Il parroco, don Cosimo, mi disse che avevo una bella voce e che avrei dovuto studiare canto. Mi fece conoscere la signora Maria Mazzotta, la mia prima insegnante, che ancora oggi per me è un punto di riferimento. Generosissima, non volle mai nulla. Era il 1997. Nel 2004 il debutto a Osimo con Il signor Bruschino di Rossini. Intanto continuavo a fare l’infermiere. E in corsia cantavo. A Milano alla Clinica pediatrica De Marchi, con i miei colleghi cantavamo la ninna nanna ai bimbi ricoverati. In psichiatria  e in otorino facevo cantare ai pazienti le canzoni napoletane. Poi arrivò mia moglie…».

… Floriana Longo, anche lei cantante lirica.

«Era corista al Teatro Lirico di Cagliari. Volevo lasciar perdere lo studio del canto, ma è stata lei a convincermi a continuare. Ho lasciato il lavoro di infermiere e mi sono dedicato completamente al canto. I primi tempi sono stati davvero difficili, ma abbiamo tenuto duro. Oggi Floriana è la mia insegnante di canto, un grandissimo sostegno. La vita di un cantante è bellissima, canti, viaggi. Ma inevitabilmente l’arte qualcosa regala e qualcosa toglie, mi manca la mia città, mi mancano gli affetti con i quali sono cresciuto».

Seconda inaugurazione pucciniana a Bologna, nel 2024 Manon Lescaut, e lei era Lescaut. Quest’anno La fanciulla del west, un titolo tra quelli pucciniani che non si ascolta così spesso.

Fanciulla è un’opera difficile dal punto di vista musicale e interpretativo, il cast prevede tanti ruoli, in scena siamo diciotto solisti più il coro maschile e oggi i teatri devono fare i conti con i bilanci. E i tre protagonisti, Minnie, Dick Johnson e Jack Rance hanno parti davvero impegnative. L’allestimento di Paul Curran è tradizionale, racconta questo western lirico con fedeltà alla storia. Finalmente, dico io, che amo queste produzioni fedeli al libretto. Approcci di questo genere mi consentono di entrare bene nel personaggio cosa che trovo più difficile quando in scena ci sono trasposizioni contemporanee.

 

Nella foto @Andrea Ranzi Caludio Sgura ne La fanciulla del west al Comunale di Bologna

Rance è un personaggio che ha cantato in molti teatri, Scala compresa.

Penso che lo sceriffo sia il personaggio chiave dell’opera. Un contraltare dello Scarpia della Tosca, anche lui vuole una donna, Minnie, e cerca di ottenerla con il denaro e con il potere. E le sue maniere sono quasi più eleganti di quelle rozze e tutte istintive di Scarpia. Qui non ci scappa il morto, Rance resta vivo e anzi, si fa da parte per far trionfare l’amore di Minnie e Dick.

Questa Fanciulla di Bologna è quasi un’appendice alle già ricche celebrazioni pucciniane del 2024.

Puccini è un grandissimo compositore e le celebrazioni per i cento anni della sua morte sono state un modo per dire grazie per quello che ci hai regalato con la sua musica. Canto ruoli pucciniani dal 2008, fu l’anno di Tosca prima a Macerata e poi a Genova con Daniela Dessì che mi ha insegnato tanto, anche sul mio personaggio. Quello Scarpia che canto ancora oggi e che ho modellato vedendo e rivedendo l’interpretazione di Tito Gobbi nella storica Tosca a Londra con Mara Callas. Ho iniziato la mia carriera con Rossini, poi ruoli verdiani. Ma da quando è arrivato Puccini non ho dubbi che sia lui l’autore che preferisco. Certo c’è il rischio che quando ti etichettano come cantante verista poi fatichi a scrollarti di dosso questa fama, ma per fortuna la mia vocalità è duttile.

Quali personaggi che ama?

Fino a che non ho cantato Simone nel Boccanegra verdiano erano Scarpia e Jack Rance. Poi mi sono innamorato del doge verdiano, ricco, profondo, pieno di umanità. Mi piacerebbe cantarlo nuovamente. Cosi come vorrei tornare a interpretare Francesco Foscari. Il ruolo che mi ha fatto innamorare della lirica, quando da ragazzo a Lecce lo sentii interpretare da Renato Bruson, un nome che a me che non frequentavo la musica non diceva nulla. Ricordo ancora di aver pianto. E poi ho scoperto un mondo. Che ora è il mio.

Le manca il lavoro in corsia?

Moltissimo. Anche se spesso mi affezionavo troppo ai miei pazienti e spesso soffrivo vedendoli andare via. Durante il periodo del Covid, che ha costretto noi artisti a fermarci, ho pensato spesso ai miei colleghi infermieri, molti di loro hanno anche perso la vita. Erano eroi, mentre spesso oggi sono oggetti di aggressioni. Ho vissuto anch’io queste situazioni quando ero in corsia, ho visto familiari di pazienti aggredire medici. Ma non mi sono mai arreso. Quello dell’infermiere più che un lavoro è una vocazione: aiutare fa sempre bene all’anima.

Nella foto @Ricci Caludio Sgura

Intrevista pubblicata sul quotidiano Avvenire del 26 gennaio 2025