Dodici minuti di applausi per il melodramma di Giuseppe Verdi che a Sant’Ambrigio ha inaugurato la stagione del Piermarini Protagonisti Anna Netrebko, Brian Jagde e Ludovic Tézier
Fuori è inverno. L’aria è pesante di freddo. Le gocce di pioggia impregnano una locandina caduta sui binari del tram. Qualcuno ha dimenticato (o forse l’ha lasciata lì volutamente) una bandiera della pace su una transenna che insieme alle altre, ora tutte accatastate, hanno trasformato piazza Scala in zona rossa. Fuori è inverno. Anche se da calendario non è ancora arrivato. Eppure da tanto (da troppo) siamo dentro questo inverno. L’inverno, uno dei tanti (troppi), della storia. L’inverno della guerra. «Che è sempre una sconfitta» non si stanca di ripetere Papa Francesco di fronte alla «terza guerra mondiale a pezzi». Sconfitta e follia. Già. Perché porta dolore. Disperazione. Nessuno vince, nonostante le apparenze. Perché la guerra porta morte. Bombe e macerie. La guerra che quotidianamente vediamo in tv. E che si è vista irrompere sul palco del Teatro alla Scala. Trincee e macerie. Sacchi di plastica che avvolgono cadaveri.
Inverno fuori. Inverno anche dentro. Dentro il Piermarini. Perché ancora una volta la Prima della Scala è specchio del paese. Del mondo. Arte che racconta la vita. Inverno di neve. Inverno di guerra e di morte. Perché Leonora è lì. Morta. Vittima dell’odio. Cadavere tra i cadaveri, tra le braccia di Alvaro. «Morta?» chiede lui. «Salita a Dio» suggerisce, indicando una strada, una luce, il Padre Guardiano. La musica si spegne – colpo di genio di Giuseppe Verdi che chiude la sua opera in diminuendo, accordi che si spengono e chiedono il silenzio, dentro e fuori di noi. Si spengono le luci. Ma un raggio illumina un albero. Scarno. Secco. Tronco svuotato della linfa vitale in uno scenario di macerie e cadaveri. Eppure quell’albero germoglia. Sgrani gli occhi. Sul tronco spuntano piccoli germogli. Verdi. Teneri. Spuntano mentre Leonora è lì, morta. Perché «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Il frutto della pace. Che Leonora ha chiesto, «Pace mio Dio».
Finale potente. Che interroga e scuote. Commovente. Tanto che chiederebbe il silenzio. Finale evangelico. Il finale de La forza del destino di Giuseppe Verdi che la sera del 7 dicembre ha inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala – versione 1869, edizione critica della partitura revisionata per Milano sull’originale del 1862, serata dedicata alla memoria di Renata Tebaldi a vent’anni dalla scomparsa. Lo ha voluto così il finale, evangelico e profetico, il regista Leo Muscato. Sigillo di speranza dopo uno spettacolo che è un lungo reportage di guerra attraverso i secoli, dal Settecento delle baionette al nostro oggi di droni, mine antiuomo e bombe intelligenti (?!). Lo ha sussurrato, preghiera umanissima e vibrante, speranza che ha il sapore della certezza, Riccardo Chailly. Intenso, ispirato il direttore d’orchestra milanese al suo primo incontro con La forza del destino, approdo di un lungo percorso verdiano del direttore musicale scaligero che abbraccia il Verdi giovanile e arriva sino a quello della maturità. Vertice, questa Forza che conferma e che rivela allo stesso tempo, del viaggio musicale di Chailly tra le pagine del compositore delle Roncole.
Lo capisci già dalla Sinfonia. Tesa. Avvolgente. Come sarà tutta la Forza di Chailly, integrale (si inizia alle 18 e si esce da teatro ben oltre le 22), sinfonica e meditata, canto e racconto impastati insieme, passo teatrale e oasi intime e di riflessione a compenetrarsi. Grazie e orchestra e corso scaligeri e aun cast in sintonia perfetta con il popdio. Applauditissima, la Sinfonia e poi tutta la Forza, spesso a scena aperta. Come l’Inno di Mameli. Rito immancabile di ogni Sant’Ambrogio scaligero. Il Capo dello Stato Sergio Mattarella non c’è, è a Parigi dove si riapre Notre Dame. Allora in palco reale ci sono la senatrice a vita Liliana Segre, il presidente del Senato Ignazio La Russa e il ministro della Cultura Alessandro Giuli, insieme al sindaco di Milano Beppe Sala. In platea Raina Kabainvaska, Placido Domingo e José Carreras. Selfie e foto. Anche mentre si canta l’Inno, da postare subito su Instagram e TikTok.
«Dov’è la vittoria?» si chiede il Canto degli italiani. Non c’è vittoria in un mondo in guerra rispondono Chailly e Muscato con la loro Forza potente. Che scorre come un lungo piano sequenza cinematografico grazie al doppio girevole della scenografia, in continuo movimento, in continuo mutamento, capace di far scivolare in dissolvenza una scena nell’altra. Nessun video (finalmente), tutto artigianato, tutto (verosimilmente) reale – impressionante il terzo atto, ambientato in una trincea della Prima guerra mondiale (ci sono filo spinato e sacchi di sabbia, ci sono tende di un ospedale da campo e gallerie di roccia e legno nella neve) raccontata come in un cinegiornale dalle scene di Federica Parolini e dai costumi di Silvia Aymonino e dalle luci di Alessandro Verazzi. Un kolossal, un reportage di guerra dalla parte degli ultimi. Perché La forza del destino è un grande romanzo popolare, il racconto, attraverso gli occhi di chi la subisce, della follia della guerra. Nella Forza non c’è nessun politico, nessun uomo di potere, nessun signore della guerra. Tramano (e come oggi mandano gli altri a morire) dietro le quinte. Verdi e i suoi librettisti Francesco Maria Piave e Antonio Ghislanzoni non li raccontano. Raccontano piuttosto le storie di tanti uomini e donne ai quali la guerra ha cambiato (e ancora oggi continua a farlo drammaticamente) la vita.
Le racconta anche Muscato. In un viaggio nel tempo e nei conflitti. Che parte dal Settecento del libretto. Siamo subito dentro le vicende. In camera di Leonora. Arriva Alvaro per portare via l’innamorata, lei indugia, il padre di lei li scopre. Parte il colpo di pistola fatale che fa deflagrare la forza del destino. E parte la corsa, frenetica. Sul girevole che fa fare ai protagonisti un viaggio nel tempo. Ci catapulta nell’Ottocento delle guerre di indipendenza dove Preziosilla e Trabuco, padre e figlia, campano sulle sventure della guerra (lui toglie gli stivali al cadavere di un militare e lei li lucida per rivenderli). Siamo poi nelle trincee della Grande guerra dove si festeggia il Natale con una grottesca sacra rappresentazione, che fa dire a Melitone: «Tutti eretici!». Quel Melitone che è infermiere degli ospedali da campo: «Venni di Spagna a medicar ferite ed alme a mendicar» canta il frate francescano.
Perché la regia è tutta sul testo, letterario e musicale, un racconto che Muscato imbastisce spazzando via le didascalie e costruendo una sceneggiatura cinematografica fatta di gesti, rapporti, intenzioni. Nuove e rivelatrici. Che si adattano al tempo. Sempre più asciutti – come la scenografia, tutta in esterni, immersa in una natura di rocce e alberi sulla quale si innestano gli elementi di scena (una finestra, un letto, un tavolo, un inginocchiatoio…) quella natura che la guerra e l’uomo violentano e che vediamo progressivamente morire, inaridirsi. Gesti, intenzioni, scenari sempre più moderni. Drammatici nella nostra contemporaneità di macerie di muri di cemento armato, di militari fatti prigionieri, di uomini della Croce rossa che distribuiscono vivere e di sacchi di plastica blu con i cadaveri… e da uno spunta una chioma rossa, quella di Preziosilla, forse, anche lei vittima della follia della guerra.
Così Leonora ed Alavro, Carlo e Preziosilla, Melitone e il Padre Guardiano siamo anche noi. Siamo noi. E sono le molte persone che oggi vivono sotto le bombe. Quelle per le quali, fuori, nell’inverno (anche della storia), i manifestanti chiedono pace. Bloccano la città, espongono striscioni, lanciano fumogeni per dire no alla guerra, a qualsiasi guerra. Per dire Palestina libera, per chiedere che in Ucraina si smetta di combattere, come a Gaza e in Libano e in Siria. Per dire basta ai tanti (troppi) genocidi che si consumano nel mondo. Eppure la denuncia più potente, ancora una volta, è dentro. È la denuncia affidata all’arte. Che non ha tempo. Perché Verdi l’ha messa, potente, in musica nel 1869. «Evviva la guerra, è bella la guerra… Rataplan pim, pum, pam…» canta Preziosilla. Leonora risponde con l’invocazione disperata, ma al tempo stesso piena di quella speranza che solo la fede può dare, «Pace mio Dio!».
Esce dalle macerie quel grido. Che Anna Netrebko – il soprano russo che per alcuni, che manifestano in piazza, sarebbe veicolo della propaganda di Putin e che in teatro scatena risse tra fan a suon di applausi e buu – lancia, lama che affonda nella carne e allo stesso tempo carezza che lenisce il dolore. Dentro c’è tutta la Forza di Verdi. Anelito che percorre tutta l’opera. Restituita magnificamente da Chailly, cangiante di colori, umori e spesso proiettata in avanti, verso l’abisso del Novecento (musicale e della Storia) con affondi e respiri ampi che suonano sinistri e premonitori. Sempre attento al canto, Chailly, sostegno e pungolo per il cast. La Netrebko mette a segno un altro dei suoi ritratti riuscitissimi (e questo è forse il più riuscito di tutti per intensità e partecipazione emotiva) con una Leonora “in pantaloni”, determinata e allo stesso tempo capace di abbandoni (filati poetici, affondi bruniti) che conquistano. Brian Jagde ha squillo bellissimo e lucente, graffio efficace, piglio e sicurezza scenica e disegna un Alvaro modernissimo, nostro contemporaneo nei sensi di colpa che lo inseguono. Come il Don Carlo di un ispirato Ludovic Tézier, voce di velluto per un cattivo suo malgrado, vittima – impressionante vederlo nel finale con il cranio grondante sangue – anche lui della follia della guerra.
Vasilisa Berzhanskaya è una Preziosilla dal canto vertiginoso (vocalità, anche “rossiniana”, ideale quella del mezzosoprano per un ruolo che sale e scende senza tregua), affascinante e ipnotico, il suo Rataplan fa la storia. Intensi, complementari il Padre Guardiano di un misuratissimo e autorevole Alexander Vinogradov e il Melitone (che è modellato sulla tradizione del canto italiano di ieri) di Marco Filippo Romano. Personaggi che si stagliano su una collettività, un popolo che ci rappresenta tutti, al quale offre corpo e voce il coro di Alberto Malazzi, intenso, musicalissimo, avvolgente e dall’inconfondibile colore verdiano.
Un popolo che attraversa l’inverno della storia. Perché fuori è ancora inverno. La bandiera della pace si è impigliata al ramo di un albero. Pronto, dopo l’inverno, a germogliare.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala La forza del destino
Articolo pubblicato su Avvenire dell’8 dicembre 2024