Il direttore inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala affrontando per la prima volta La forza del destino di Verdi «Musica sublime che eleva e che quasi non si può dirigere»
Che sia una preghiera lo dicono le parole. «La Vergine degli angeli mi copra del suo manto e me protegga vigile di Dio l’angelo santo». Il pizzicato dell’arpa. Una voce, che si staglia sul tremolio dei violini e sul velluto avvolgente di tenori, baritoni e bassi. Il tempo si ferma. «Perché quella che Giuseppe Verdi scrive in questo finale di secondo atto è musica sublime. Che eleva». E le parole escono a fatica. «Perché è musica intensissima, che non si può provare, non la si può concertare perché è troppo alta, al di sopra di noi. Ci eleva. Tanto che qualsiasi intervento razionale di concertazione può solo interferire in modo negativo sulla parabola del viaggio timbrico di questa pagina». Musica che eleva, quella de La vergine degli angeli. Come quella del toccante finale. «Non imprecare, umiliati attacca il Padre Guardiano e la sua voce si intreccia con quelle di Leonora e Alvaro. Verdi in questo terzetto che scrive appositamente per Milano, approda a un finale rarefatto, chiara anticipazione di quello di Aida, perché c’è qualcosa che si spegne, che sta morendo nel senso più tragico e desolato». Riccardo Chailly posa la bacchetta. Il buio avvolge la scena dopo l’ultima prova. «Il 7 dicembre si va in secna».
Il direttore d’orchestra milanese inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala con La forza del destino. Diretta su Rai1 e Radio3, ma anche nei cinema di tutto il mondo e in molti luoghi di Milano. «È il mio sedicesimo titolo verdiano, sedicesimo melodramma che dirigo senza contare le innumerevoli volte che sul leggio ho avuto la Messa da Requiem o i Quattro pezzi sacri. Ma è la prima volta che affronto La forza del destino. Certo, in cinquant’anni di carriera ho diretto la Sinfonia, la più bella di tutte quelle verdiane, molte volte e con tutte le orchestre che ho guidato. Non solo, ho proposto in concerto anche alcune pagine di questa opera straordinaria. Ma mai l’avevo affrontata in scena» racconta il direttore musicale del Piermarini, classe 1953, al suo undicesimo Sant’Ambrogio scaligero – l’anno prossimo toccherà a Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitrij Šostakovič. «E sono contento di affrontare scenicamente La forza del destino con Leo Muscato, un regista sempre con la musica, mai di ostacolo. Una sensazione che ho avuto già la prima volta che abbiamo lavorato insieme, per il rossiniano Barbiere di Siviglia».
Era il settembre 2021 e subito Chailly ha chiesto a Muscato di lavorare insieme su questa Forza. Un tempo lungo, fatto di incontri periodici, di un confronto costante. «Perché è un’opera complessa, una delle più lunghe di Verdi, oltre tre ore. La forza del destino è un melodramma che procede per scene e nel tempo, proprio per questo suo essere fatta di quadri, ha sofferto di continue interruzioni per i cambi di scena. Invece è un’opera che richiede una continuità di esecuzione e di ascolto. Questa la mia prima richiesta a Muscato che con la sua ruota del destino che gira portandoci nei vari luoghi della storia consente la continuità dell’azione e il collegamento musicale tra scena e scena». Sul leggio di Chailly l’edizione critica del 2005 di Philip Gossett e William Holmes «che naturalmente proponiamo in forma integrale. Una sfida per tutti, orchestra, coro, solisti. Perché La forza del destino è una delle opere capitali nel percorso della maturità verdiana e mancava da troppo tempo dal Teatro alla Scala». Nel 2001, per il centenario verdiano, la diresse Valery Gergiev con il Marinskji di San Pietroburgo, proponendo la versione originale del 1862 che Verdi scrisse proprio per la Russia. Nel 1999 l’ultima edizione scaligera con Riccardo Muti sul podio e la regia di Hugo De Ana.
«Ma l’opera manca dal 7 dicembre da cinquantanove anni, era il 1965 e la diresse Gianandrea Gavazzeni con la regia di Margherita Wallmann» ricorda Chailly convinto che «il valore di una composizione e la grandezza di un capolavoro la si deve verificare nell’ascolto dal vivo. La trilogia popolare di Rigoletto, Traviata e Trovatore, i capolavori estremi come Don Carlo, Aida, Otello e Falstaff trovano spazio nei cartelloni dei teatri dove a volte, però, mancano i passaggi intermedi di titoli come Un ballo in maschera e come La forza del destino. Poco frequentata soprattutto quest’ultima. E una delle ragioni sicuramente è il cast che richiede». Alla Scala stasera cantano Anna Netrebko (Leonora), Brian Jagde (Alvaro), Ludovic Tézier (Don Carlo), Vasilisa Berzhanskaya (Preziosilla), Alexander Vinogradov (Padre Guardiano), Marco Filippo Romano (Fra Melitone). «Voci importanti, tutte all’altezza dell’impegno che questi ruoli richiedono. Così come il coro scaligero preparato da Alberto Malazzi, patrimonio dell’umanità come dicono tanti. E in questa opera il ruolo del coro è centrale» spiega Chailly ricordando poi che «La forza del destino è l’opera della riconciliazione di Verdi con la Scala, teatro dal quale il compositore si era allontanato dopo la prima della Giovanna d’Arco. E per questo ritorno, nel 1869, Verdi rimette mano alla partitura scrivendo la Sinfonia, e dopo questa non scriverà più sinfonie per i suoi melodrammi, aggiungendo nel terzo atto la scena della Ronda per il coro maschile, una pagina cupa, notturna, tutta sussurrata, quasi impressionista, e chiudendo l’opera con il terzetto che raggiunge vette spirituali altissime».
Undicesimo 7 dicembre per Chailly. «Non sono scaramantico. Non ho nemmeno riti prima di salire sul podio» dice il direttore sapendo che alcuni non vogliono nemmeno pronunciare il titolo de La forza del destino perché porterebbe sfortuna. «Arrivo a questo Sant’Ambrogio con la serenità di un percorso di prove impegnative, dure, intense, ma fruttuose» racconta Chailly rientrando in camerino. Sul tavolo un libro. «Nella biblioteca di mio padre Luciano ho ritrovato di recente un testo di Gino Roncaglia, L’ascensione creatrice di Giuseppe Verdi, del 1940, che avevo letto da ragazzo. Scrive l’autore: “Il libretto de La forza del destino può essere considerato uno zibaldone. C’è di tutto: colpi di pistola, fughe, inseguimenti, folle eterogenee, osteria, pellegrini, travestimenti, vestizione sacra di un penitente, accampamento, merciaiuoli, vivandiere, zingare, una battaglia, segreti traditi, scodellamento di minestra ai poveri, duelli, fratricidi, taverna, convento, vita del campo”. E questa somma di situazioni è in un certo senso manzoniana. Spaventa l’idea di come sia possibile governare tutto questo in scena, ma Verdi ha saputo gestirlo». In un grande affresco dove tragico e comico convivono. «Qualcosa che aveva già sperimentato in Un ballo in maschera. Vi danno voce personaggi come Preziosilla e Melitone che non sono affatto minori perché Verdi sosteneva che “quelle parti sono importantissime e sotto un certo rapporto le prime dell’opera”. Tanto che l’intreccio tra il Padre Guardiano e gli interventi sarcastici di Melitone è modernissimo».
Come moderna, attuale, purtroppo, è la guerra che fa da cornice a questa Forza. Che anzi diventa protagonista del racconto di Chailly e di Muscato. E ancora una volta Verdi, con il grido che affida a Leonora, «Pace mio Dio», diventa nostro contemporaneo.
Articolo pubblicato su Avvenire del 7 dicembre 2024
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Riccardo Chailly e una scena dell’opera