Santa Cecilia, Tosca inaugura l’era Harding

L’opera di Puccini apre la stagione dell’Accademia a Roma segnando l’avvio della direzione musicale di Daniel Harding Grande protagonista Eleonora Buratto con Tetelmann e Tèzier Appalusi per una Tosca che guarda a Wagner, Strauss e Mahler

Bastano tre accordi, quelli che da subito, ad “apertura di sipario”, allungano l’ombra sinistra di Scarpia sulla storia. Un taglio di luce cinematografico che Giacomo Puccini, sulla soglia del Novecento, mette nella sua Tosca – l’opera debutta a Roma il 14 gennaio del 1900 e inaugura, già intrisa delle sue inquietudini, il nuovo secolo. Meccanismo wagneriano del leitmotiv, ma drammaturgico e teatrale, non solo intellettuale come nelle opere del compositore tedesco. Espediente cinematografico che arriva nella musica mentre il cinema è agli albori. Ma si diceva, bastano tre accordi, quell’ombra che in un attimo avvolge e rende fredda, di un freddo dell’anima, Sant’Andrea della Valle, a farti capire che a Santa Cecilia la musica è cambiata.

Si inaugura l’era di Daniel Harding. Nuovo direttore musicale dell’istituzione romana, un mandato di cinque anni (durante il quale ci sarà un altro cambio ai vertici, quello che vedrà la nomina di un nuovo presidente/sovrintendente al posto di Michele Dall’Ongaro). Un altro britannico alla guida dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, dopo diciotto anni di regno di Antonio Pappano. Ma si volta pagina. Perché bastano tre accordi per accorgersi che la musica è cambiata. Cupi e allo stesso tempo lucenti di una luce fredda, dei cieli del nord. Spigolosi, ma anche avvolgenti, una lana grezza, ruvida, che scalda, ma lascia un fastidio sulla pelle. La musica disegna l’ambiente. Fisico, certo – tanto più che l’opera è in forma di concerto e la storia è tutta affidata alla capacità evocativa che la musica, quella di Puccini, dettagliatissima, ha dentro. Ambiente fisco, ma anche dell’anima. Trappola che imprigiona e schiaccia. Inesorabilmente. Lo dicono quei primi tre accordi.

Inizio folgorante per Tosca, l’opera scelta da Harding – scelta quasi obbligata nel centenario pucciniano che corre (senza in realtà aver lasciato troppo il segno) verso la conclusione – Tosca scelta da Harding per inaugurare la sua direzione musicale a Roma. Tosca bellissima e rivelatrice, più mitteleuropea che mediterranea quella che al Parco della musica – condiviso in queste giornate di fine ottobre con la Festa del cinema – ha inaugurato la nuova stagione dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia – trasmessa da Radio3 e Rai5 è ancora su RaiPlay, mentre si replica al Parco della musica ancora il 24 e il 26 ottobre. Bellissima. Perché ha dentro tutta la bellezza della musica di Puccini, restituita magnificamente dall’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia (la trascina il primo violino di Andrea Obiso). E si avverte da subito la perfetta sintonia tra Harding e la “sua” orchestra, respirano insieme, si capiscono con un gesto – e tra l’altro quello del direttore non è mai plateale, anzi, ridotto all’essenziale.

Rivelatrice. Perché dice che Puccini può essere altro dai puccinismi cui siamo abituati. Dice che dentro c’è un contrappunto raffinatissimo, che la scrittura orchestrale è millimetrica, soppesata, sinfonica e allo stesso tempo sempre al servizio del canto. Certo, lo sappiamo, ce lo hanno detto i grandi del podio che ce lo hanno mostrato sotto una luce diversa da quella del sentimentalismo. Nulla di nuovo, forse – perché una certa lettura mahleriana come quella che Harding a tratti ha voluto dare della sua Tosca un po’ spiazza e sorprende. Ma fa bene ridirlo, riascoltarlo, specie in questo anno pucciniano che, appunto, poco ha detto sull’interpretazione, oggi, a cento anni dalla morte, dell’autore di Turandot. Una Tosca che guarda a Wagner (Harding nelle prossime stagioni affronterà il Ring), Strauss e Mahler. Poco mediterranea. Mitteleuropea, appunto. Quadrata, fredda potrebbe dire qualcuno, ma modernissima nella sua asciuttezza. Niente è ridondante nella lettura di Harding, non c’è nulla di superfluo. Ogni nota è teatro, racconto – un giallo psicologico, un andare a fondo dell’animo umano. Ed è allo stesso tempo musica pura. Ogni passo è pensato e realizzato a servizio del canto. Ma anche della bellezza della musica. Tempi sempre drammaturgici, volumi soppesati con scarti – a volte ben evidenti, altre quasi impercettibili – per far innestare (e fondere e amalgamarsi) il canto sul tessuto sinfonico.

Teatro. Come quando sul Vissi d’arte si spengono i riflettori sull’orchestra. Restano accese solo le lucine sui leggii. E scontornata nel fascio luminoso di uno spot Eleonora Buratto, un vestito rossofuoco che brilla di paillettes, canta la sua “preghiera” davanti a un microfono – perché le recite sono riprese da Deutsche grammophon (che ha fornito l’audio alla Rai per le dirette) per farne poi un cd. Puro straniamento brechtiano. Con l’interprete che esce dal personaggio, lo guarda dall’esterno, restituisce l’aria più famosa (forse di tutte quelle della lirica, insieme al Figaro qua Figaro la del Barbiere, tanto da essere diventata proverbiale… Vissi d’arte…) come un numero di cabaret. Oppure fa suo il personaggio, nella realtà – d’altra parte Tosca è una cantante. Momento intensissimo – non arriva l’applauso perché Harding, giustamente, non interrompe il flusso della musica, anzi sceglie la versione con Scarpia che contrappunta il canto di Tosca: «Risolvi!… Mi vuoi supplice ai tuoi piedi!». Momento al quale la Buratto conferisce una verità che inquieta. E non solo qui, perché la sua è una Tosca che lascia il segno per la modernità dell’interpretazione. Voce sontuosa, capace di seguire la lettura sinfonica di Harding e allo stesso tempo di restituire il ritratto di un’adolescente di oggi – adolescente sì, basta sentire la freschezza del canto del primo atto – in balia dei cambi repentini di umore e sentimento, costretta (dalla vita) a crescere in fretta, sino a scegliere di uccidere (nell’ultimo «Muori» che dice a Scarpia senti il coltello che affonda nella carne, quello che poi svetta nella famosa «Lama» affilatissima del terzo atto) e di uccidersi – tutto capita in un attimo, «Mario… morto? Finire così… Povera Floria tua…» e poi quel lancinate «O Scarpia,, avanti a Dio!» detto con il fiato corto perché la morte incombe e chiama. Ascolti la Tosca della Buratto – tante le sfumature, tanti gli accenti – e pensi a una ragazza di oggi, magari una che si presenta ad un talent. Che si innamora dell’artista famoso. E che magari è travolta da trame politiche più grandi di lei… quante le storie, con tante variazioni sul tema, che oggi la cronaca ci racconta.

Pensieri sparsi. Davanti a una Tosca in forma di concerto che sa, comunque, raccontare. Nel canto  spiegato del Cavaradossi di Jonathan Tetelmann – certo, non sempre a posto perché parte con difficoltà di intonazione e di gestione del volume, ma nel terzo atto trova begli accenti, nel commovente E lucean le stelle che Harding (che alla fine va a dare la mano a Stefano Novelli, primo clarinetto e fa alzare i violoncelli guidati da Patrizio Serino) quasi sussurra, sfuma, colora di notte e morte. In quello scolpito, insinuante, canto di conversazione in un declamato che è pura perfidia, dello Scarpia di Ludovic Tèzier. Giacca e cravatta, camicia grigia per il baritono francese (gli altri sono tutti in frac) che marca il suo canto, accenta di continuo le parole arrivando a “sporrcare” la sua voce, a graffiarla per restituire tutta la ruvidezza (e il fastidio) del personaggio.

Giorgi Manoschvili è un Angelotti cupo e tormentato, il Sacrestano è Davide Giangregorio che spazza via dal personaggio ogni aspetto caricaturale per farne un tipo umano (potrebbe essere uno dei personaggi resi immortali da Alberto Sordi) piccolo piccolo. E non è una caricatura nemmeno lo Spoletta di Matteo Macchioni, tenore che sa far trasparire un carattere pur non “facendo” con la voce (che resta bella e sempre a posto) il carattere. Nicolò Ceriani è un agitato Sciarrone, Costantino Finucci un efficace carceriere. «Io de’ sospiri…», una volta tanto con il giusto accento romanesco, è restituito dalla voce intonatissima e lucente di Alice Fiorelli. Lo stornello romano che Puccini mette nella sua alba su Roma, l’affresco sonoro che apre il terzo atto. Le campane delle chiese, il sole che colora il cielo. Che resta livido nella lettura di Harding. Nordico e sferzato da un vento freddo. Non c’è il rosso dell’alba. C’è piuttosto un bagliore grigio, he preannuncia la tragedia. C’è quasi l’ombra di Scarpia nell’alba su Roma. Lo stesso raccontato all’inizio da quei tre accordi. Che dicono, senza dubbio, che a Santa Cecilia la musica è cambiata.

Nelle foto Accademia di Santa Cecilia/Musa Tosca al Parco della musica