Colonia, nel labirinto della mente di Elektra

Secondo titolo inaugurale della nuova stagione dell’Oper Köln Felix Bender dirige l’opera di Strauss, regia di Roland Schwab Protagoniste Allison Oakes, Astrid Kessler e Lioba Braun

Una cosa doveva fare. Solo una cosa. Dare al fratello Orest l’ascia che aveva custodito gelosamente per uccidere la madre assassina. Klytämnestra, l’assassina di «A-ga-mem-non» scandito così, nella musica tellurica che apre Elektra, l’Elektra di Richard Strauss. Vertiginosa, la musica – un big bang che ti coglie di sorpresa come è stato In principio, Im Anfange – vertiginosa la musica che deflagra sulla soglia dell’opera ispirata a Sofocle, in quegli accordi che evocano l’ombra del padre. E che tornano continuamente nell’ora e cinquanta serrata, senza respiro dell’atto unico del 1909 – la prima alla Semperoper di Dresda. Inesorabile monito che non lascia scampo, «A-ga-mem-non» chiede vendetta. In parole e in musica, in quegli accordi iniziali che tornano lungo tutto il corso dell’opera, Tragödie in einem Aufzug – evidenti, ben sottolineati, oppure nascosti tra le pieghe di un canto che ha una potenza che sconvolge ogni volta. Cupi, scuri sebbene svettanti… illuminati, forse, da una luce (che è comunque sinistra, perché è una luce livida di morte) nel finale, in quell’«O-rest» che Chrysothemis lancia… dovrebbe farlo battendo alla porta del palazzo (che è sempre la scenografia della tragedia greca, un palazzo, tre porte chiuse che si aprono solo quando la tragedia è compiuta e nello spettatore deve compiersi la catarsi), qui invece quell’«O-rest» è un grido disperato, di resa, perché Orest si è ucciso. Ma questa è (quasi) un’altra storia.

Una cosa doveva fare Elektra. Solo una cosa. Dare al fratello Orest l’ascia che aveva custodito gelosamente per uccidere la madre assassina. E non l’ha fatta. Freud avrebbe qualcosa da dire – ma non è questione di psicologia femminile, non sarebbe corretto dirlo o anche solo pensarlo… Anche perché Elektra si accorge che non ha fatto l’unica cosa che doveva fare, l’unica cosa che la teneva in vita in quell’angolo dove viveva come una bestia, pronta a ringhiare contro chi le si avvicinava. Un angolo che nella Saal 1 dello Staatenhaus, la “casa” dell’Oper Köln (ma ancora per quanto? qui secondo i piani dovrebbe arrivare il musical, quel Moulin Rouge che adesso va in scena accanto alla stazione ferroviaria a due passi dal Duomo, nel tendone dove fino a qualche anno fa c’era l’opera), un angolo che è uno scantinato. Un sotterraneo, fatto di colonne portanti, che, immagini, sorreggono il palazzo di Agamemnon. Uno scantinato, un sotterraneo buio. Nero squarciato a tratti da fasci di luce taglienti (le luci sono di Andreas Grüter). Il ventre della terra. Il ventre del teatro – Strauss e Hugo von Hofmannsthal vanno alle origini del teatro, alla tragedia greca, rappresentazione potente, la più potente di tutte, dell’uomo. Ventre opprimente. Senti il peso di questa struttura (di questo mondo, il mondo di Elektra, ma anche il nostro) nella scenografia in cinemascope di Piero Vinciguerra. Una distesa di colonne, squadrate, cemento armato in (bella e ipnotica) fuga prospettica.

Elektra si dispera, perché non ha fatto l’unica cosa che doveva fare. Percuote il terreno con quell’ascia, in preda al rimorso nonostante abbia visto compiersi la sua vendetta. Folle. Invasata. Inebriata – lei dalla vendetta, noi dalla musica di Strauss, una danza folle e tragica, un valzer sul baratro. Sparge benzina. E incendia, dalle fondamenta, il palazzo. Catarsi finale dell’Elektra del regista Roland Schwab. Secondo titolo, quello di Richard Strauss, della doppia inaugurazione della stagione dell’Oper Köln, presentato in abbinata, una sera dopo l’altra in modalità festival, con Die Schöpfung (in forma scenica) di Franz Joseph Haydn. Progetto pensato per il rientro nella sede storica di Offenbachplatz (erano pronte a riprenderlo anche le telecamere della tv). Ma Die Schöpfung ed Elektra sono in scena (ancora) allo Staatenhaus, la struttura fieristica affacciata sul Reno che ospita l’Opera (dopo gli anni passati nel tendone a ridosso dell’Hauptbahnhof dove adesso va in scena il musical Moulin Rouge). Perché è ancora un groviglio di impalcature e container la sede storica (storica nella ricostruzione del Secondo dopoguerra, tutta cemento e piastrelline color cotto tutelate dalla sovrintendenza) di Offenbachplatz, da tanto, troppo tempo – 12 anni almeno – in ristrutturazione. Cantiere infinito, pachidermico nel suo incedere lento e quasi impercettibile (e che sta scaldando la politica locale).

Inaugurazione ancora allo Staatenhaus, dunque. Con una doppia “creazione”. Quella dichiarata nel titolo di Schöpfung, racconto modellato su quello biblico della Creazione del mondo. E quella che sembra evocare la musica di Strauss, nell’inizio folgorante di Elektra, big bang che non si organizza, però, in un mondo ordinato. Ma resta caos. Il caos dei sentimenti. Il caos della vendetta. Il caos della guerra. Che, ancora una volta nella storia del teatro e dell’opera, è la guerra di Troia. Agamemnon è tornato dalla guerra e ha trovato ad attenderlo la moglie assassina Klytämnestra che, sepolto il marito, si è messa accanto, sul trono di Micene, l’amante Aegisth. Che naturalmente le figlie di lei, Elektra e Chrysothemis mal sopportano. Stupido e frivolo – ma gli piaceranno davvero le donne? ogni volta te lo chiedi, perché non c’è regista che (ispirato, certo, dalla musica di Strauss) racconti Aegisth come maschio alfa… Racconto attualissimo, di tante famiglie disgregate di oggi (certo, senza che si arrivi all’omicidio, basta il divorzio a sancire una “morte”, quella dell’amore…), racconto contemporaneo come pochi (come la guerra, certo) che però Schwab non cavalca. Nessuna attualizzazione nell’Elektra del regista bavarese. Scansione classica, da tragedia greca (la drammaturgia è di Stephan Steinmetz), ma estetica caricaturale, dark, eccessiva. Un po’ Tim Burton (vedi come esce agghindata Klytämnestra, rosa shocking, un lungo strascico – e qui fedeltà assoluta al libretto che prevede una Schleppträgerin, l’Ancella dello struscio) e un po’ Walt Disney – la corsa di Chrysothemis attraverso le colonne dopo che Elektra l’ha sconvolta chiedendole di uccidere insieme la madre (Oreste non è ancora comparso) sembra quella di Cenerentola dopo che la carrozza è tornata zucca… Un cabaret tragico – Klytämnestra sembra una vecchia stella della rivista in disarmo. Un incubo popolato di fantasmi e mostri. Siamo, forse, nella mente di Elektra. Quel labirinto di colonne, quelle apparizioni di uomini in catene, coperti di fango e sangue (contrappuntano tutto il dialogo, cuore dell’opera, tra Elektra e Klytämnestra), quei morti viventi insanguinati (le Mägde, i servi, le ancelle…) che avanzano e si contorcono (tutti uccisi da Orest?) mentre Elektra incendia il palazzo e mentre Orest non può far altro che uccidersi, un taglio netto alla gola. «O-rest» grida Chrysothemis, l’unica vestita di bianco (i costumi sono di Gabriele Rupprecht) in un mondo nero e grigio.

Grigio e nero. Anche nella musica. Il nero dell’inizio, del big bang squarciato dagli accordi inziali. «A-ga-mem-non». Auspicio, seppur nel nero della tragedia, di quella che avrebbe dovuto essere una ripartenza – nella sede storica di Offenbachplatz. Ma che diventa, nel qui ed ora della storia contingente dell’Oper Köln, auspicio di una “nuova” creazione. Nelle intenzioni sicuramente. In quelle musicali anche. Perché sul podio di Elektra (ma anche di Die Schöpfung) avrebbe dovuto esserci François-Xavier Roth, sino alla scorsa primavera Generalmusikdirektor della Città di Colonia, che vuol dire dell’Oper Köln e della Gürzenich Orchester (che non suona solo all’Opera, ma anche, in autonomia, alla Philharmonie). Poi il patatrac. Le accuse di molestie, di aver inviato foto non richieste a musiciste e musicisti de Les Siécles rilanciate dai giornali. L’ammissione da parte del direttore d’orchestra francese cinquantunenne e l’addio alla sua orchestra parigina. Al quale è seguita la conclusione, in anticipo di un anno, del mandato a Colonia. Niente François-Xavier Roth sul podio per Elektra, ma Felix Bender, sassone Generalmusikdirektor a Ulm. Garanzia, dunque, della conoscenza del repertorio. Non solo, però. Braccio saldo, idee, musicalità, testa sempre sulla partitura, ma in perenne dialogo con il palcoscenico. Capacità di far fluire la musica di Strauss in un racconto serrato, ammiccante – anche qui, come in altre opere del compositore, da Salome al Rosenkavalier, la danza, i ritmi di valzer assumono una valenza drammaturgica – intenso. Lo “strumento” della Gürzenich Orchester è ottimo – nell’insieme e nei soli, sempre – ma Bender lo usa al meglio, raccontando, in un’unica arcata, tesa, avvincente, il dramma di Elektra.

Dramma della solitudine. «Allein!». Sola. La prima parola che pronuncia Elektra – entra in scena quando la musica è iniziata da cinque minuti, da quegli accordi, da quel «Wo bleibt Elektra?», dov’è Elektra, e ci resta sino alla fine. «Allein!». Sola. Ripete quando Chrysothemis si sfila dal progetto omicida. «Allein!». Sola. Resterà così, alla fine, perché Wer glücklich ist wie wir, dem ziemt nur eins: schweigen und tanzen!, «chi come noi è felice deve solo tacere e danzare». E solo lei è felice. Legata a due corde di fronte a una distesa di morti. Folle. Così la rende, benissimo, dal suo apparire in scena, Allison Oakes. Voce torrenziale, accenti sempre drammatici – meglio, tragici – il soprano tedesco disegna un Elektra dissociata, con la mente (popolata da fantasmi e incubi) altrove… d’altra parte una cosa doveva fare, solo una cosa, e non l’ha fatta. Un cane sciolto. Istinto puro e scarti di umore repentini l’Elektra musicalissima e svettante in acuto della Oakes. Che debutta nel ruolo. Come Astrid Kessler, Chrysothemis fragile, in balia degli eventi, donna che è estranea al mondo in cui vive. Un ritratto che il soprano austriaco disegna con una voce di cristallo, affilata e d’argento per restituire un personaggio sempre in bilico sulla follia – in alcune repliche, applauditissima, è arrivata Magdalena Hinterdobler. Più nobile che sfatta, più composta che passionale, più regina che amante voluttuosa la Klytämnestra di Lioba Braun, interprete a cui bastano pochi gesti e accenti sempre misurati per lasciare il segno.

Opera tutta al femminile Elektra. Che si apre sulla scena, drammaturgicamente e musicalmente perfetta delle Mägde, le serve che si chiedono «Wo bleibt Elektra?», dov’è Elektra. Preparando, in un crescendo di tensione, l’entrata della protagonista. A dare corpo alle cinque serve Adriana Bastidas-Gamboa, Regina Richter, Tina Drole, Maria Koroleva e Emily Hindrichs, anfibi e gonne nere, unica con i tacchi la Aufseherin, la sorvegliante, di Claudia Rohrbach. Donne anche la Schleppträgerin, l’Ancella dello struscio di Tinka Pypker e la Vertaute, la confidente di Maike Raschke. E poi ci sono gli uomini. Qualcuno non ci fa bella figura, come l’Aegisth cui Martin Koch conferisce un ironico e azzeccato distacco. Ci sono i servi, uno giovane e uno anziano, di John Heuzenroeder e Christoph Seidl. C’è il Precettore di Oreste cui Lucas Singer conferisce una bella e inaspettata umanità. E poi c’è Orest. Che ha la voce pastosa e morbida, avvolgente di Insik Choi. Sempre una garanzia, sempre musicale e sul testo. Arriva in scena come una visione, dal buio. Cappottone, tuta militare e zaino in spalla. Freddo nel suo confronto con Elektra – e forse quello che noi vediamo è l’idea che la sorella si è fatta di lui nel tempo. Lo sentiamo “dire” le sue ragioni, il motivo del suo ritorno. E lo vediamo uccidersi. Visione, forse, di Elektra. Costruzione della mente di una donna che una cosa doveva fare, solo una cosa. E non l’ha fatta.

Nelle foto @Matthias Jung Elektra all’Oper Köln