Noi, interpreti verdiani della generazione Y e Z

Diego Ceretta sul podio del Regio per La battaglia di Legnano Daniele Menghini regista di Un ballo in maschera a Busseto Intervista doppia al direttore milanese e al regista di Foligno

Generazione Y e generazione Z. Daniele Menghini, classe 1990. Millennial. Diego Ceretta, classe 1996, direttore d’orchestra. Centennial. Protagonisti dell’edizione 2024 del Festival Verdi. Protagonisti a Parma e a Busseto. Ceretta sul podio de La battaglia di Legnano al Regio – regia di Valentina Carrasco, cantano Antonio Poli, Marina Rebeka, Vladimir Stoyanov. Menghini sulla piccola ribalta del Teatro Verdi di Busseto con Un ballo in maschera con la bacchetta di Fabio Biondi. Giovani. Con uno sguardo giovane per Verdi. Che non vuol die, però, dicono il direttore d’orchestra milanese e il regista di Foligno, giovanilistico. Ma significa sguardo moderno, modellato sul proprio tempo. Formazione milanese per entrambi, Ceretta al Conservatorio Verdi, Menghini alla Civica scuola di teatro Paolo Grassi. Una Cenerentola per i bambini con AsLiCo, la collaborazione con Grahm Vick e Jacopo Spirei, poi, il debutto nella regia lirica a Macerata con Il barbiere di Siviglia per Menghini. La “scuola” sul campo di Daniele Gatti (al Teatro dell’Opera di Roma per la verdiana Giovanna d’arco e per il Julius Casar di Giorgio Battistelli) e la nomina a direttore principale dell’Orchestra regionale della Toscana per Ceretta. A confronto, regista e direttore, in questa intervista oppia su Giuseppe Verdi.

Ci racconta il suo approccio a Verdi e al Verdi che porta in scena a Parma?

Ceretta «Il mio approccio al Verdi de La battaglia di Legnano non è diverso dall’approccio che ho ogni volta che apro una partitura, popolare o meno nota che sia. Come è capitato lo scorso anno quando a Wexford ho diretto Zoraida di Granata pagina di raro ascolto di Gaetano Donizetti. Quando apro una partitura che non conosco ho sempre la curiosità di scoprire piano piano una musica nuova. Studiando prima e dirigendo poi La battaglia di Legnano, pagina del 1849, è stato bello trovare tutti i germogli della Trilogia popolare di Rigoletto, Trovatore e Traviata che sarebbero arrivati di lì a poco. Nella Battaglia c’è un coro maschile che tornerà pressoché identico in Rigoletto, nell’aria del baritono c’è un abbozzo del Di Provenza della Traviata, c’è poi Lida che canta una sorta di Amami Alfredo».

Menghini «Questo è il mio primo Verdi. Prima di tutto non devi pensare che stai debuttando al Festival che porta il suo nome e per giunta a Busseto, proprio nel “natio borgo selvaggio”. Il primo passo necessario è stato mettere da parte la reverenza, altrimenti ti paralizzi: rispetto sì, sempre, ma la reverenza ti schiaccia. Ho cercato di aprire lo spartito senza pregiudizi, senza pigrizie, cercando di leggere davvero ciò che c’è scritto, come se indagassi per la prima volta un materiale sconosciuto. Per farlo sono voluto partire dalla fine, dalle danze della festa del terzo atto. Da quel “ballo” del titolo, appunto. Un minuetto annoiato che comincia a deformarsi con l’avvicinarsi della morte. Cosa c’è di più geniale? La spensieratezza di una festa che viene avvelenata dalla minaccia della fine. Quello di Un ballo in maschera, pera del 1859, è un Verdi che sperimenta la contaminazione, la varietà, la mescolanza di generi, tinte, atmosfere. La libertà con cui accosta il frivolo al tragico, il prezioso all’orrorifico non poteva che diventare anche la grammatica della scena, dello spettacolo. E così è stato».

Quale attualità in una partitura scritta in pieno Ottocento? E quale, in generale, l’attualità di un autore come Verdi?

Ceretta «Tutti dicono che Battaglia sia il titolo più risorgimentale di Verdi. E visto il soggetto e l’epoca in cui va in scena, in quella Roma del 1849, ci sta. Ma per me il punto non è tanto che Verdi con quest’opera volesse scaldare gli animi degli italiani di allora. Penso che Verdi in tutte le sue opere considerate “patriottiche” dica il diritto etico di un popolo di costruirsi la propria identità con le sue tradizioni. Ed è un diritto etico, non politico. Un aspetto che oggi, in un’epoca di popoli che subiscono invasioni, è attualissimo. In Verdi, in quello della Battaglia e più in generale in tutta la sua produzione, sono molti i temi che ci parlano del nostro oggi: Rigoletto accende una luce sul rapporto genitori-figli, Traviata sul ruolo sociale della donna, Macbeth sulla responsabilità del potere… e l’elenco potrebbe proseguire perché Verdi, come tutti i grandi classici ha saputo mettere in scena e raccontare temi universali, senza tempo».

Menghini «Trovo che Verdi prima ancora di essere un grande musicista sia stato un grande uomo di Teatro. Forse il più grande del suo secolo, almeno in Italia. Non ha fatto musica con la musica, opera con l’opera: ha rubato a piene mani dalla vita per plasmare il suo Teatro. In modo radicale, non convenzionale, pericoloso. E come tutti i grandi, con la sua arte, con il suo artigianato teatrale, ha intercettato le contraddizioni del suo tempo, che per certi versi sono anche le nostre. Forse quella che più di tutte ci parla ancora oggi è proprio la lotta eterna tra volontà dell’individuo e aspettative della società, tra desideri e doveri. Conflitto che troviamo non solo nel Ballo, ma in tante sue opere. Il tema della fuga è sicuramente quello che più mi affascina. Tanti suoi personaggi sono in fuga: dalla routine, dalla solitudine, dalla morte, dalla noia, spesso da sé stessi. E spesso fuggono a passo di danza, che sia minuetto, mazurca o valzer. Quanto possiamo riconoscere delle nostre nevrosi contemporanee, delle nostre fughe, virtuali o meno, che ci danno l’illusione di allontanarci per un attimo dai nostri fantasmi? Mi piace pensare che se Verdi fosse vissuto oggi avrebbe fatto cinema e sono certo che sarebbe stato un grande regista. Come Dante. Come Caravaggio».

Chi sono i personaggi che Verdi mette in scena nell’opera che dirige? Quali i sentimenti che ce li rendono vicini?

Ceretta «Nonostante il titolo, La battaglia di Legnano che dice un preciso fatto storio, Barbarossa, unico personaggio storico del ibretto, più che un personaggio è un simbolo, tanto che compare solo in una scena. Arrigo, Lida e Rolando sono tre personaggi di fantasia, umanissimi. Arrigo è un giovane che torna a casa dalla guerra con la speranza di ritrovare la donna che ha amato, ma scopre che lei si è sposata e ha avuto un figlio dal suo migliore amico. Così lui, pur di non tradire l’amicizia, decide di immolarsi per la patria. Amore e amicizia sono indubbiamente i temi che percorrono la vicenda. Lida è una donna che durante tutta l’opera è vittima, lo dice ripetutamente e arriva quasi alla bestemmia affermando che è dio che “mi ha voluta rea”. Ed è proprio qui, nella scena del terzo atto della lettera che lei manda ad Arrigo, che Verdi scrive il omento più psicologico di tutta l’opera. Esce il tormento della donna che ama e che arriva alla bestemmia. Poi Lida torna in sé e cos’è la prima cosa che fa, all’inizio del quarto atto? prega. Rolando è il personaggio più complesso e più nobile, con un centro etico molto forte, perché mette veramente l’amore sempre al primo posto, l’amore per la moglie, per il figlio e l’amore per Arrigo, anche quando scopre il presunto “tradimento” della moglie che era promessa all’amico. Rolando non ha il coraggio di ucciderlo, ma fa una cosa che è forse ancora più terribile, lo imprigiona per non permettergli di andare a combattere per la patria. E alla fine, quando ha la prova della fedeltà della moglie, si riconcilia con l’amico morente».

Menghini «Sono tutti dei fuggiaschi. Riccardo, attanagliato dalla solitudine, fugge dai suoi doveri e dai suoi fantasmi alla continua ricerca dell’eccesso, della trasgressione. Renato fugge dai suoi sentimenti più intimi e li soffoca con la violenza. Amelia scappa dalla gabbia della moglie e madre e cerca di riappropriarsi della donna che non è più, desiderando un amore clandestino del tutto virtuale e impalpabile. È tutto molto shakespeariano e non è un caso che Verdi amasse così tanto il Bardo, il drammaturgo più libero e anarchico di tutti i tempi. L’ironia affilata con cui Verdi ribalta la tragedia in commedia (se non è shakespeariano questo…) proprio attraverso il pettegolezzo (conosceva bene il “baccano” che proprio i bussetani facevano intorno alla sua relazione con la Strepponi) fa di quest’opera una delle più taglienti del suo repertorio. I protagonisti del Ballo sono tutti umanissimi nelle loro ipocrisie, scappano da sé stessi per tornare tragicamente, come in un contrappasso dantesco, a fissare negli occhi i propri demoni. Cosa c’è di più vicino alle nostre fragilità?».

C’è un personaggio dell’opera al quale si sente particolarmente vicino? Perché? E c’è qualche personaggio dal quale si sente particolarmente distante?

Ceretta «Per la sua nobiltà diciamo che sento particolarmente vicino Rolando. Se devo fare una battuta direi che mi sento lontano da Barabarossa, perché da buon milanese dico che deve sempre vincere Milano. Sicuramente un personaggio negativo, viscido, doppio dal quale distanziarsi è Marcovaldo, quello che fa nascere le trame di sospetti e gelosie che scatenano la tragedia».

Menghini «Mi strazia sempre il conflitto dilaniante che Amelia ha con sé stessa, splendida la sua fragilità, così umana, così reale. Cogliere o non cogliere quell’erba magica? Soffocare o non soffocare quell’amore proibito, così sbagliato, ma così necessario? Ancora Shakespeare se ci pensiamo: to be or not to be. Forse abbiamo bisogno del tormento per sentirci vivi? Renato è un uomo che ha smesso di sognare. Un impiegato della vita che non sa accogliere i suoi desideri e li soffoca con la violenza. La sua fuga è quella di un codardo. Bisogna accogliere le proprie paure e prendersene cura».

Quale la “novità” musicale del titolo che affronta a Parma?

Ceretta «Sicuramente la sintesi. Nella Battaglia di Legnano non c’è nulla di più di ciò che serve, il quarto atto, tre numeri in tutto, dura una manciata di minuti. Un processo, quello della ricerca della sintesi, che arriverà a compimento con Rigoletto, ma che qui Verdi già sperimenta in modo efficace. Ne La battaglia di Legnano la prima vera scena classicamente costruita è quella di Lida perché le sortite di Arrigo e di Rolando sono più introduzioni che scene. Verdi qui inizia a rendere libera la forma. L’orchestrazione poi è molto raffinata e addirittura Verdi in questa partitura sperimenta effetti che poi non userà più. Nella partitura c’è la ricerca di un colore particolare, di una tinta adatta a questo racconto che fa capire come Verdi sia in una fase sperimentale. Agli archi, ad esempio, scrive: Suonare quasi come con la sordina».

Menghini «Amo molto il Verdi sperimentatore, il Verdi sound designer, il Verdi regista. La sua musica non è mai contemplazione, è sempre azione. Non solo la sua parola è “scenica”, ma anche e soprattutto la sua musica lo è: crea relazioni, conflitti, desideri. Se togliessimo il testo e ci affidassimo solo alla musica saremmo in grado di fare comunque uno splendido viaggio. Pensiamo al vortice scoppiettante offenbachiano con cui Riccardo invita la corte da Ulrica, alle tinte notturne e fosche dell’antro della maga, allo sprezzo acido e irriverente, quasi da kabarett, con cui il Conte sbeffeggia la morte in È scherzo od è follia. Per non parlare della maestria con cui spazializza e trasforma la musica diegetica della festa. In tante sue feste (mi vengono in mente Rigoletto e Traviata) le danze si allontanano, riesplodono, si deformano per diventare qualcos’altro. Questo minuetto è un capolavoro assoluto. Quando i passi di Renato, che arriva per uccidere Riccardo alla fine del ballo, si insinuano nella musica deformandola, Verdi ci ricorda non solo di essere un grande compositore, ma anche, e soprattutto, un fine drammaturgo. Una meraviglia».

Quale l’opera verdiana che sente più vicina? E perché? Quale, invece, quella più lontana? E quale quella che le piacerebbe interpretare e non ha ancora affrontato?

Ceretta «Per ora, oltre a questa Battaglia, ho diretto Macbeth, opera che insieme a Rigoletto sento molto vicine per lo scavo psicologico e per la forte connessione tra musica e drammaturgia che presentano. Un’opera che per ora non riesco ad amare sono I vespri siciliani. Chissà che un giorno ci riesca. Sicuramente mi piacerebbe dirigere, ma tra un po’ di tempo, Don Carlo e Falstaff».

Menghini «Quella che sento più vicina? Traviata. C’è molto pericolo dentro, purtroppo spesso anestetizzato dalla pigrizia della tradizione o dalla ricerca a tutti i costi dello scandalo. È un Verdi radicale, quello di “una puttana è una puttana”, senza sconti e mezzi termini. Qui il conflitto tra individuo e collettività esplode, ma paradossalmente anche quello con sé stessi. È un corpo a corpo estenuante e continuo: Violetta contro Alfredo, Violetta contro Germont padre, Violetta contro la società, Violetta contro Violetta. Se ci pensiamo anche lei fugge, passando da Ah, fors’è lui a Sempre libera con il ritmo spasmodico della fuga, appunto. Da cosa scappa? Da qualcosa di troppo profondo e intimo che non può guardare in faccia. Tutti conosciamo quel ritmo. È un testo che andrebbe indagato teatralmente con più cura, con più coraggio e meno routine. Mi piacerebbe aprire un cantiere Traviata con cantanti giovani debuttanti (unica eccezione per Germont padre, che serve d’età ed esperienza). Forse è il Verdi patriottico quello che sento, invece, più lontano. Cos’è oggi il tricolore? Che rappresenta? Come tradurre quel desiderio di patria, appartenenza, identità, oggi? Difficile. Ciò che ieri univa oggi sembra dividere. Come uscirne? Il Verdi politico va letto politicamente, ma alla luce delle ipocrisie del nostro tempo. Altrimenti diventa sterile illustrazione. E mi chiedo: ne abbiamo bisogno?».

Chi è Verdi, per lei, artista e giovane del 2024?

Ceretta «Forse è scontato dire che è un gigante, ma è così. Non è, però, un gigante lontano, che pone una distanza tra lui e chi ascolta la sua musica. Se penso a Bruckner, un autore che amo molto, trovo che sia un gigante che, però, mette una certa distanza, non ti prende alla pancia come fa Verdi. Verdi ti prende per mano e ti guida dentro un racconto teatrale perfetto, costruito musicalmente e drammaturgicamente in modo impeccabile».

Menghini «Un visionario. Un provocatore. Un uomo che non ha inteso l’arte come celebrazione sterile del passato, ma come concreta ideazione del futuro, attraverso l’indagine attiva del presente. Dovremmo raccogliere questa lezione. Se l’Arte (e con lei la Cultura, il Teatro, l’Opera) si riduce a celebrare ciò che siamo stati e non a plasmare ciò che saremo, la sua missione è destinata al fallimento. Verdi ha sempre guardato in avanti, con coraggio. Il suo sguardo ha scolpito il futuro, così come ha fatto la sua musica, il suo teatro».

C’è una visione “giovane” nel proporre un’opera? Oppure l’arte e l’interpretazione vanno al di là dell’età?

Ceretta «Direi che non c’è una visone “giovane”, ma parlerei di una visione moderna che rispecchia il modo di interpretare del proprio tempo. Per preparare l’opera ho ascoltato le incisioni storiche e ho avvertito perfettamente che sono nello stile del tempo in cui sono state registrate… con incrostazioni che noi oggi toglieremmo. E per fare questo, per disincrostare dalla patina del tempo, non è necessario un musicista giovane, ma un artista che sappia interpretare il proprio tempo».

Menghini «Uno sguardo può essere vecchio anche a vent’anni, non è una questione anagrafica, credo sia più un fatto di pigrizia. Esistono sguardi curiosi e sguardi pigri. E questo riguarda sia chi l’opera la fa che chi ne fa esperienza da spettatore. Tutto dipende dal tipo di dialogo che si vuole aprire con il materiale e dal tipo di esperienza che si vuol fare. Vuoi che sia la conferma rassicurante di ciò che già conosci o la scoperta destabilizzante di una prospettiva che ignoravi? Quanto siamo disposti a stupirci? Ecco credo che il ruolo del regista sia questo: riattivare il pericolo e lo stupore. E questo non ha età».

Il Festival Verdi propone prove aperte e percorsi per i ragazzi e gli studenti. Come avvicinare i giovani alla musica lirica?

Ceretta «Penso che l’importante sia fare capire che teatri e sale da concerto non sono luoghi che respingono, ma che sono spazi che sono parte della città, della società che accolgono e che vogliono accompagnare il pubblico, specie quello dei giovani, attraverso la musica».

Menghini «Bisognerebbe tornare a vivere lo spazio teatro come luogo di socialità, di incontro, di condivisione. Porre l’attenzione sull’esperienza totale e non solo sullo spettacolo. Allargare gli orizzonti. Nell’epoca del virtuale, riassaporare il gusto di ritrovarsi vivi tra i vivi, attraverso un’esperienza attiva e interattiva. Riappropriarsi dello spazio della condivisione, tornare a mangiare, ballare, vivere in teatro. Ben vengano i DJ set. Quando i giovani sentiranno lo spazio teatro un loro luogo, allora entreranno con naturalezza anche in sala, sarà una naturale conseguenza. Non è questione di educazione o “evangelizzazione” teatrale. Tutti possiamo accogliere la bellezza dell’opera. Ad ogni età. Penso al progetto rivoluzionario Opera Domani di AsLiCo (da cui tra l’altro sono partito con una Cenerentola che porto nel cuore) in cui bambini di dieci anni cantavano Rossini come fossero a un rave, il pubblico migliore in assoluto che si possa trovare. Penso al cantiere Scrivere d’opera promosso dal Regio di Parma, in cui i liceali vengono messi al centro dell’evento operistico, seguendo passo passo

una produzione dal concepimento allo spettacolo, fino a scriverne una recensione. Penso alle proposte anarchiche – e per questo vivissime – del Verdi Off che porta l’opera fuori dal teatro, scendendo in strada per incontrare tutte e tutti, indistintamente. Insomma, il Teatro, non è lo spettacolo in sé. È come diventiamo uomini e donne migliori intorno allo spettacolo, mentre ne facciamo esperienza viva».

Se dovesse convincere un suo coetaneo, un suo amico a venire all’opera che argomenti userebbe? Magari lo ha già fatto con amici che sono venuti a vedere un suo spettacolo. Cosa hanno detto?

Ceretta «A Palermo ho invitato a un mio concerto alcuni amici che non erano mai stati ad ascoltare un’orchestra sinfonica, si sono lasciati coinvolgere e alla fine mi hanno detto di voler tornare. Questa estate dopo un concerto della Ort una signora di una certa età mi si è avvicinata per farmi i complimenti per l’esperienza vissuta al concerto e io l’ho invitata a tornare a sentirmi con i nipoti. Penso che nella musica la cosa più bella e più efficace per coinvolgere nuovi spettatori sia quella di condividere un’esperienza».

Menghini «Non credo che la chiave sia convincere. Credo che la chiave sia proporre. Proponiamo teatro vivo, esperienze vive. E rendiamolo accessibile. Anche economicamente. Arriveranno. Ne sono certo».

Ci sarà ancora Verdi nei suoi programmi futuri?

Ceretta «Dirigerò Attila in forma di concerto a Napoli. Ancora il primo Verdi, per ora non mi schiodo da lì».

Menghini «Lo spero. Non vedo l’ora».

 

Diego Ceretta @Roberto Testi

Daniele Menghini @Mirko Baccaille