Un nuovo allestimento dell’opera scritta per la Scala nel 1819 inaugura l’edizione 2024 del Rossini opera festival di Pesaro Protagonisti Jessica Pratt, Aya Wakizono e Dmitry Korchak Dirige Roberto Abbado, regia deludente di Jean-Loius Grinda
Il lieto fine è solo un sogno. Oggi, 2024 di guerra e dolore, non può essere che così. «A tanto mio contento non presto fede ancor» canta Bianca. Chi ci crede oggi, 2024 di guerra e di dolore, all’«e vissero tutti felici e contenti»? Ce lo impedisce la Storia. «A tanto mio contento non presto fede ancor» canta Bianca, pantaloni grigi, camicia scura… profuga da se stessa e dalla vita. E la sensazione, il sapore di queste parole che arrivano sulla musica – certo vivida e pulsante come sempre nei finali di Rossini, anche se venata (come sempre nei finali di Rossini) di una certa malinconica gravità – il sapore di quella musica che è la stessa del rondò finale di Elena de La donna del lago (e lì come qui ci sono un padre e un mante… e c’è una musica venata di malinconia pur nella felicità che a parole comunica) il sapore, la sensazione è quella di quei sogni che prendono forma nel dormiveglia… veri, concreti, quasi potresti dire di averli vissuti davvero, prima che svaniscano in un attimo… un rumore, una luce improvvisa ti sveglia e ti riporta nel qui ed ora. Un sogno immerso in una penombra grigia che lo colora quasi di incubo. Basta poco. Contareno, Falliero, Capellio – e con loro tutti gli altri, i veneziani che abitano/hanno abitato una Venezia fuori al tempo – hanno lo sguardo fisso nel vuoto. Immobili. Hanno perdonato… ma ora, in questo dormiveglia, in questo sogno che si trasforma in incubo, sembrano riavvolgere il nastro, tornare al tempo della guerra… del no, del «se ancor ti sfugge il nome di Fallier l’amor paterno hai perduto per sempre».
Il lieto fine di Bianca e Falliero (lo vogliono raccontato così Gioachino Rossini e il suo librettista Felice Romani) così come lo legge Jean-Loius Grinda è solo un sogno (o forse un incubo). Pugno nello stomaco – che in zona Cesarini in parte riscatta uno spettacolo che passa via senza lasciare nessun segno forte – che il regista francese assesta come “morale”, tragica certo, al racconto rossiniano. Il lieto fine di Bianca e Falliero oggi resta un sogno. Il sogno della pace impossibile. Utopia che non ha cittadinanza in un mondo, quello di oggi sembra voler dire Grinda, dove guerra chiama guerra, dove la logica della vendetta tiene prigionieri di un incubo il Medioriente e l’Ucraina… il Myanmar e il Venezuela. E dove nessuna storia positiva, di bene, di amore (e che ne sono tante, tutte da raccontare… anche se la cronaca preferisce fare bilanci di morte, elenchi di attacchi sferrati con droni…) sembra avere la forza di innescare una rivoluzione silenziosa e pacifica. Da Romeo e Giulietta in poi – e la storia di Bianca e Falliero è una (delle tante) variazione sul tema – non c’è amore che riesca a fermare (purtroppo, certo, perché a prevalere sono altre logiche) la guerra.
Così anche Bianca dovrà (sempre) sposare Cappellio. E anche Falliero dovrà (sempre) morire. Questa è la realtà. Il resto è solo un sogno. Lo sancisce visivamente Grinda, quando Bianca arriva davanti al Consiglio dei tre per chiedere (e ottenere da Capellio) la grazia per Falliero… impermeabile, cappello, occhiali scuri… cambia l’estetica, Bianca è nel suo sogno… che negli occhi fissi e negli sguardi spiritati di padre, amante e mancato sposo del finale si trasformerà in un incubo. Perché forse Falliero è già morto e lei ha già messo la sua forma sull’atto i matrimonio con Capellio. Morale tragica del Bianca e Falliero che ha aperto l’edizione 2024 del Rossini opera festival di Pesaro. Edizione extra large per Pesaro Capitale italiana della cultura – quattro i titoli d’opera anziché i classici tre “istituzionali” ai quali si aggiunge un doppio Viaggio a Reims, quello dei ragazzi dell’Accademia rossiniana e quello delle stelle rossiniane proposto in chiusura di rassegna in forma di concerto a quarant’anni dalla riscoperta della partitura e dalla messinscena di Claudio Abbado e Luca Ronconi. Edizione che si è aperta nel ritrovato Auditorium Scavolini, palazzetto che (rimesso a nuovo dopo anni) riporta in centro città l’opera rispetto alla periferica Vitifrigo arena (che comunque resta palcoscenico per due dei quattro titoli). Platea (non enorme) gradinate (alla prima con diversi vuoti) ad anfiteatro con seggiole di plastica tipiche dei palazzetti, palco che chiude a metà il palazzetto. Musica che corre. Visibilità buona quasi dappertutto.
Non che lo spettacolo di Grinda la richieda più di tanto. Scena fissa (disegnata come i costumi da Rudy Sabounghi, tutto marrone e ocra, tutto cupo… tutto finto, persino i fori sono fiori finti, plasticosamente finti… per un’estetica ostica e ruvida illuminata sinistramente da Laurent Castaingt) che si scompone e ricompone con finestre e porte che si aprono nelle pareti, pareti che si aprono su una visione della laguna da Morte a Venezia, tribune che escono dai muri, schermi che calano dall’alto rimandando le immagini di un telegiornale che annuncia la marcia degli spagnoli su Venezia, però, prontamente respinta… «Veglia il Leon magnanimo…» canta il coro. Immagini di un ieri indefinito, un Italia del boom economico, penseresti vedendo i costumi… o forse un’Italia in bilico sul venetnnio… Immagini di un oggi raccontato dai droni. Immagini di guerra. Sfondo, come spesso accade nell’opera, di un’altra guerra. Guerra familiare, perché Contareno spinge la figlia Bianca a sposare Capellio, anche se lei è innamorata di Falliero. Guerra interiore, di anime lacerate tra dovere e cuore, tra obbedienza e sentimento. Grinda lo racconta nel più classico dei modi, confezione senza tempo – tra abiti moderni e costumi che rimandano all’epoca del libretto, «La scena è in Venezia. L’azione è del secolo XVII dopo la famosa congiura del Marchese di Badamar» scrive romani – gestualità, rapporti tra i personaggi, movimenti di massa della vista e rivista (anche troppo) tradizione… Spettacolo che non trova una sua identità – chi è quella donna anziana (forse impersonata da un uomo) che per tutto il tempo segue come un’ombra Bianca? la nonna? il fantasma della madre che dissente, cade, soccombe alle regole di un mondo patriarcale? Spettacolo pieno di ingenuità e sovrastrutture inutili quasi non si sapesse cosa far fare al coro (perché il continuo spolverare – e poi perché spolverare stipiti delle porte e tende? – delle cameriere nella sortita di Bianca?) che se racconta la storia non la attualizza, non la porta al di là della quarta parete.
Come fa, come sa fare ancora oggi a più di duecento anni dalla prima del 26 dicembre 1819 al Teatro alla Scala, la musica di Rossini. Sperimentale – ed è un po’ il filo conduttore, questo sperimentalismo rossiniano, di tutti i titoli del Rof 2024… certo, forse Rossini è stato sperimentale (e dunque innovatore) in tutto ciò che ha scritto… Sperimentale la musica di Bianca e Falliero, sin dalla partitura… echi belliniani, donizettiani (precursore, Rossini, di quello che verrà… sino a Verdi e oltre, fino al rap…) poi slanci rossiniani per un racconto musicale che supera le tre ore nell’edizione critica di Gabriele Dotto per la Fondazione Rossini – per dire, un atto di Verdi, diciamo de I due Foscari per restare in tema veneziano, dura come la scena introduttiva di Bianca e Falliero. Supera le tre ore, ma non pesa. Musica bellissima. Restituita con slancio e disciplina da Roberto Abbado sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, l’orchestra di casa da qualche anno al Rof dove ritrova sempre una sua dimensione operistica. Abbado tiene le fila di un racconto musicale serrato, teatrale, grazie anche alla prova del sempre affidabile e preparatissimo coro del Teatro Ventidio Basso di Giovanni Farina. Una lettura, quella del direttore milanese, tutta concentrata sulla partitura, a piombo su tempi e dinamiche rossiniane, mai fine a se stessa, ma sempre a servizio del canto.
Canto che scaturisce naturale del tessuto orchestrale. Sgorga da questo e torna a fondercisi insieme. Nella grande lezione rossiniana che ancora una volta mette in campo Dmitry Korchak, Contareno che lascia il segno (e si prende una valanga di applausi) per la verità del personaggio che il tenore disegna attraverso una fedeltà assoluta alla musica. Non c’è nota, non c’è coloratura, non c’è emissione o salita all’acuto di Korchak che non arrivi naturale, vera, immediata. Facilità che nasce da studio, tecnica e da una grande intelligenza musicale. La stessa che consente a Jessica Pratt di uscire vincitrice dal confronto con la parte di Bianca. E quel piccolo inciampo finale su un sovracuto tenuto quasi all’infinito non getta ombre su una Bianca costruita meticolosamente sulla musica, tutta in crescendo, dolente, ma mai rassegnata nei confronti duri che Rossini le impone con Contareno e Capellio e nemmeno in quelli d’amore Falliero. Che è una sempre più convincente Aya Wakizono, infallibile in acuto (e quasi ti vinee il dubbio che il mezzosoprano giapponese – dizione italiana perfetta – stia evolvendo verso un registro di soprano… sicuramente ideale per i ruoli Falcon), ben timbrata nei centri e nei bassi di una voce sempre omogeneo in ogni registro e sempre capace di avvolgere e (anche scenicamente) tirare dentro il racconto.
Giorgi Manoshvili lascia il segno con un Capellio nobile, che con una voce elegante e musicalissima sa disegnare bene l’evoluzione di un personaggio che si lascia toccare da una pietà umana inaspettata. Puntuale Nicolò Donini come Priuli, ben centrata la Costanza di Carmen Buendía, efficaci nei loro interventi Claudio Zazzaro e Angelo Díaz. Figure che compaiono e scompaiono. Come in un sogno. Perché il lieto fine è solo quello. Bianca dovrà (sempre) sposare Cappellio. E anche Falliero dovrà (sempre) morire. Questa è la realtà. Il resto è solo un sogno. O forse un incubo.
Nelle foto @Amati/Bacciardi Bianca e Falliero al Rof