L’Oper Köln chiude la stagione 23/24 con la prima mondiale della partitura del compositore ceco tra Orfeo e l’atomica Cantano Hagen Matzeit e Kathrin Zukowski, Adámek sul podio
Siamo tutti a rischio contaminazione. «Achtung!». Perché il livello di Ines è a 5, livello che identifica un Incidente con conseguenze significative. Lo dice la scritta sullo schermo. Stufe 5. Dunque «Achtung!». Siamo dentro un mondo malato. Febbricitante, per il corpo estraneo che lo abita. Invisibile, ma c’è. Lo avverti, presenza sinistra capace di far schizzare in alto lo Stufe. Cinque su sette. Perché sette – o meglio otto, dato che si parte dal grado zero – sono i livelli dell’International nuclear and radiological event rating scale, chiamata confidenzialmente Ines, nome che suggerirebbe la figura di una donna esotica, un po’ spagnoleggiante, in realtà acronimo dal retrogusto asettico e freddo, quello che racconta la Scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici istituita dall’Aiea, l’Agenzia atomica internazionale. Siamo in un mondo malato. Stufe 5. Inquieto e febbricitante. Livello 5, Incidente con conseguenze significative come snocciolano come fosse un mantra gli sprecher, la cui voce ti avvolge quando, in cima alla scala mobile, entri in un mare di plastica, fatta di sacchi tutti uguali. Entri e ti avvolge una voce, polifonia che elenca i livelli di Ines, dal grado zero di Deviazione. Non significativo per la sicurezza al livello 7 Incidente catastrofico, come a Chernobyl nel 1986 e a Fukushima nel 2011. Ines Stufe 7. Katastrophe, Катастрофическая авария, Catastrophic accident, 壊滅的な事故 snocciolano come un mantra in tedesco, russo, inglese e persino giapponese gli sprecher. Perché tutti devono capire. Tutti devono proteggersi. Quasi formula magica, filastrocca scacciapensieri di quelle che si dicevano, giocando, da bambini e che a volte tornano a frullarti nella testa.
«0 Abweichung. 1 Störung. 2 Störfall. 3 Ernster Störfall. 4 Unfall» le parole degli sprecher che ti avvolgono mentre entri in sala. Dove il livello è 5. Stufe 5. Inequivocabilmente. Perché poco fa o forse tanto tempo fa… non è dato saperlo in questo luogo senza tempo, hangar della memoria asettico come una sala operatoria, dove siamo finiti. Noi e O, immobile, seduto su un sacco dei tanti. Tutto è finito. Tutto è compiuto. E è morta. Passato prossimo. Che ancora si sente sulla pelle. Perché il livello è sempre a 5. Stufe 5. Poco fa (o forse tanto tempo fa) c’è stato un incidente. Un incidente nucleare. Incidente con conseguenze significative. «Achtung!» hanno detto con il loro urlo le sirene suonate all’improvviso. C’è un livello alto di Ines. Livello 5. Lo certificano uomini e donne in tuta protettiva. In mano strumenti di rilevazione della radioattività. Là dove c’era l’erba… là dove c’erano prati e animali liberi di correre ora c’è solo una distesa di sacchi bianchi. Cimitero di plastica impenetrabile. Racchiudono, custodiscono brandelli di vita. Non sappiamo di quale vita… non sappiamo di chi… Brandelli di una vita passata. Irrimediabilmente contaminata. Non c’è sacco che non venga ispezionato. Non c’è contenuto che non risulti radioattivo. Così siamo tutti a rischio contaminazione. Ogni cosa è annotata scrupolosamente in una tabella. Numeri. Cifre. Fredde. Come il bagliore di questo obitorio di oggetti morti. Imbalsamati, in un istante di vita passata, come gli animali che stanno dietro le vetrine dei musei. Due sono lì. Tra i sacchi. Forse sfuggiti a quel mondo che li ha cristallizzati per sempre.
Livello 5. Siamo tutti a rischio contaminazione. «Achtung!». Immersi, in questo mare inquieto e inquietante di plastica. Avvolti da una fuga di voci, controcanto scientifico che ti mette in guardia, snocciolando i livelli di Ines. «0 Abweichung. 1 Störung. 2 Störfall…». Inizio folgorante, che potrebbe essere vero, profeticamente e drammaticamente reale. Inizio folgorarne dove la finzione si confonde (perché è la vita che lo suggerisce… ce lo ha fatto capire spesso, prepotentemente, con la cronaca di disastri annunciati) con la realtà. Inizio di Ines, di Ondřej Adámek. Opera lirica che parla di catastrofi nucleari. Potente come il melodramma sa essere. Impregnata di realtà. Come l’opera deve essere, innervata e incarnata nel presente – la Traviata di Verdi raccontava una prostituta di lusso del tempo in cui andò in scena, denuncia sociale come questa Ines (che nel titolo potrebbe benissimo evocare un melodramma di Donizetti…). Opera commissionata al compositore di Praga, classe 1979, dall’Oper Köln e andata in scena, ultimo titolo della stagione 2023/2024, in prima assoluta nello spazio senza tempo dello Staatenhaus di Colonia. Perfetta, la fiera sulle rive del Reno che ospita gli spettacoli dell’Oper Köln mentre un’altra cattedrale di cemento, quella di Offenbachplatz, è (ancora) in ristrutturazione, perfetta la Saal 3 nella sua incompiutezza di cemento per diventare hangar della memoria. Luogo senza tempo dove rievocare. Dove ri-vivere. O dove vivere. Perché, tra cemento e plastica, siamo dentro la storia, in un day after della Storia, dopo un disastro nucleare che ha lasciato solo ombre.
Una storia che Adámek evoca andando alle radici della Storia. Quella dell’opera (che a ben vedere è anche quella del mondo… In principio…) perché Ines racconta il dolore di O (Orpheus) per la perdita di E (Eurydike) – è scritto proprio così in partitura,si evoca Orfeo, quello primordiale di Monteverdi, ma i personaggi sono ridotti a lettere, perché O ed E potremmo essere tutti. Dolore di una perdita che è all’origine di tutto, In principio… la perdita dell’Eden da parte di Adamo ed Eva. Qui il dolore di O per la perdita di E, uccisa da una malattia che nessuno sa spiegarsi. Misteriosa. Oscura. Ma a ben guardare malattia che è conseguenza del desiderio di onnipotenza dell’uomo che manipola la materia come se fosse il creatore. Malattia comparsa dopo che un giorno le sirene rosse si sono accese e hanno iniziato a urlare. «Achtung!». Malattia che condanna E in un regno delle ombre che ha gli stessi contorni della realtà. Le porte del paradiso si chiudono e si è costretti a vagare in un mondo grigio e in perenne attesa di qualcosa… Un mondo dove tempo e spazio si confondono. Si sovrappongono. Mondo irreale con i contorni del reale. Un museo di storia naturale. Una stanza di ospedale. Ecco l’hangar della memoria dove la vita è intrappolata in sacchi di plastica. Dove siamo immersi anche noi, seduti su una lunga gradinata che corre parallela alla scena – con l’azione che può così essere vicinissima o lontana, dove si perde la vista. Luogo/non luogo dove tempo (dei vivi e dei morti) e spazio (dei vivi e dei morti) si confondono. Si sovrappongono. Coabitano e si compenetrano.
Regno delle ombre nel quale O si aggira, perso, cercando tracce della donna che ha amato. Che è morta. Per provare a riportarla in qualche modo in vita. Lei che ora è solo un’ombra. Ombra, come quelle impresse nella pietra e sull’asfalto a Hiroshima, unica traccia rimasta di chi ha sentito bruciare sulla propria pelle Fat man o Little boy. Ombra di una donna. Ombra senza donna… e che vertigine pensare che la stagione dell’Oper Köln si era aperta a settembre con una Frau ohne Schatten, con una donna senz’ombra, quella raccontata da Richard Strauss… filo rosso, cerchio che si chiude. Ombra che E lascia in quella grande teca del museo di storia naturale dove conduce le sue ricerche sull’uomo. Teca dove, quando suonano le sirene, E cerca rifugio. Per mettesi al riparo dal nemico invisibile, provando ad entrare in un universo incontaminato di cristallo che conserva la Storia. Animali ed uccelli imbalsamati da un mondo che vuole tramandarsi, perché sa che c’è la possibilità che non sopravviva. E imprime la sua ombra lì, proprio sotto il pannello che racconta l’evoluzione dell’uomo. «Homo. Hominidae. Homo antecessor. Homo bodensis. Homo neanderthalensis. Homo rudolfensis. Homo erectus. Homo habilis» dice E – musicalissimo nella voce di Kathrin Zukowski il declamato, usato da Adámek insieme ad una tavolozza infinita fatta di suoni, sussurri, soffi… canto – registrando la sua voce su un nastro magnetico.
La ri-vede così O, seduto solo su un sacco. Apparizione nel mare di plastica bianca, immagine di un passato prossimo che brucia ancora sulla pelle tanto da sembrare sembra reale, carnale. Un passato che si sovrappone al presente. Rivive in un presente senza tempo. «Hier». Qui. Dice O con la voce ibrida, tra baritono e controtenore, di Hagen Matzeit, perfetto per un Orfeo piegato dalla vita e dagli anni (non giovane e aitante come l’iconografia ci consegna). Sorride O mentre ri-vede E che registra la sua voce. «Homo. Hominidae. Homo antecessor. Homo bodensis. Homo neanderthalensis. Homo rudolfensis. Homo erectus. Homo habilis… Homo sapiens». Boom. Suonano le sirene. E cerca rifugio in una teca. Stufe 5. Incidente con conseguenze significative. Ironia della sorte, perché il disastro arriva quando si evoca l’homo sapiens, l’uomo moderno che ha inventato l’atomica, facendo diventare strumento di morte una conquista della scienza – manipolare la materia come il creatore In principio.. Ironia della scrittura di Adámek che evoca i disastri nucleari con ritmi jazz e swing e atmosfere da musical, affidati alle Girls of Hiroschima… tre, come Woglinde, Wellgunde e Flosshilde o come le Norne del Ring, tre come gli knaben della Zauberflöte. Fantasmi che guardano con un sorriso beffardo all’Hier, all’Hic et nunc.
Suonano le sirene. E si rifugia in una teca. Il nastro si riavvolge. Il nastro magnetico. Perché la voce di E si moltiplica. Virtuosismo, coloratura nella scrittura che Adámek impone nella prima parte a E e che ora si fa aria, rarefazione. Si moltiplica il suo corpo con tre (tre anche loro come tre sono i Männer in Schutzanzug, gli uomini in tuta protettiva, coro greco che incornicia l’azione, David Howes, George Ziwziwadze, Lasha Ziwziwadze) tre doppelgängerinnen che la doppiano, la replicano, virazioni sul tema in gonna grigia, camicia bianca e golfino rosso. La trasportano in mezzo al mare di plastica, traghettandola in un limbo che ha i contorni di una stanza d’ospedale. Si riavvolge la storia immaginata da Adámek insieme alla regista Katharina Schmitt che ha scritto il libretto di Ines – seconda collaborazione tra la regista, tedesca di Brema, anche lei classe 1979, e il compositore. Siamo ancora all’inizio. O è seduto su un sacco. «Licht. Mehr Licht» dicono i cloni di E. Che sono poi anche le Girls e hanno le voci di Olga Siemieńczuk, Tara Khozein e, svettante sulle altre, Alina König Rannenberg. «Licht». Luce per una nuova creazione. Che si trasforma, però, subito in un Requiem nella musica di Adámek fisica, carnale, capace di raccontare ed evocare – l’incomunicabilità delle avanguardie è lontanissima dalla scrittura del compositore ceco –, capace di farsi polifonia del dolore, canto liturgico dove il sacro è rappresentato dall’uomo e dal suo bisogno di senso. C’è la lezione della Seconda scuola di Vienna (più Berg che Webern) e c’è il recupero della tradizione con citazioni di Vivaldi e un ritorno alle forme monteverdiane. C’è uno studio sulla voce con il canto che diventa specchio non solo del sentimento, ma della fisicità, della carnalità dei personaggi. Nel trascolorare dal virtuosismo al sussurro di E (eccellente la prova di Kathrin Zukowski) sentiamo la progressiva morte della donna, nel processo inverso, dal declamato al canto di O avvertiamo la sua presa di coscienza e la sua ricerca di senso.
Un’altra teca si fa spazio tra i sacchi. Una stanza di ospedale. Un’infermiera inquietante. Un letto asettico sul quale viene deposta E, trasportata nel regno delle ombre dai suoi cloni. Le doppelgängerinnen spogliano e rivestono E. Corpo imprigionato. Sedato. Ma anima che si libera oltre la camicia da notte/camicia di forza che la paziente indossa. Così la vede O, libera sul tetto della stanza, altro brandello di vita che l’uomo rievoca. Le parla, ma non c’è risposta. Lei è sedata. Non c’è dialogo. Ci sono mondi paralleli, che non si incontrano. Frasi spezzate, parole tronche. Incomunicabilità di un presente dice Adámek nella sua partitura per grande orchestra. Che è la sempre affidabile (in ogni repertorio) Gürzenich-Orchester. La dirige con passione e slancio generoso lo stesso compositore che ha preso il timone della sua opera salendo sul podio in corsa, dopo lo stop forzato del previsto François-Xavier Roth, direttore musicale della Città di Colonia, travolto a maggio da uno scandalo dai contorni sessuali tirato fuori dai giornali francesi (dove Roth è direttore dell’orchestra Les Siècles). Partitura complessa, affascinante e vertiginosa nei primi folgoranti venti minuti, quasi musica da camera perché l’orchestra, al centro della scena è scarna, percussioni, fiati, pochissimi archi… che sono invece disseminati per la sala, a contrappuntare le voci (e i suoni amplificati e mixati dal vivo) che arrivano da un aldilà indefinito prima di conquistare, suonando, i loro leggii. Effetto avvolgente di una partitura che si fa poi narrativa e teatrale nel racconto dalla drammaturgia originalissima, perché la scienza e la cronaca si fanno melodramma con gli Stufe di Ines, ma anche l’elenco dei disastri nucleari che si rivestono di musica.
O rievoca il colloquio con il medico (Dalia Schaechter dal declamato sinistro) che chiude ogni spazio alla speranza. E morirà. Quasi certamente. Non va risvegliata, però, va solo lasciata nel suo limbo perché il trauma potrebbe compromettere anche una piccola speranza. O (come Orfeo che si voltò a cercare Euridice) disobbedisce. Vuole riportala in vita. La risveglia. Ma E muore. E lui resta solo, con un mazzo di fiori in mano. Un tempo freschi, ora, in questo eterno presente, secchi. Mentre anime inquiete – i costumi di Patricia Talacko, che firma anche le scene. ce le raccontano vestite di frammenti dei costumi delle doppelgängerinnen e delle Girls of Hiroshima – portano a spalla E mentre risuona un requiem dove data, luogo, Stufe di tutti i disastri atomici si fanno musica, da «Chalk River, Kanada, 1952, Ines Stufe 5» a «Fukushima, Japan, 2011, Ines Stufe 7». Litanie laiche di un mondo contaminato, affidate agli sprecher*innen (coristi e membri dell’Opernstudio) e al coro dell’Oper Köln (lo dirigono, in un andirivieni continuo negli angoli più remoti del set, Rustan Samedov e Alfred Chen) che le sgrana in una mesta processione funebre tra i sacchi bianchi.
Sacchi che poi spariscono. Lo spazio resta vuoto. Spazio che la regista Katharina Schmitt sfrutta al meglio, in tutta la sua grandezza e incompiutezza, per uno spettacolo-installazione. L’azione è evocata, sublimata, trasfigurata. Rarefatta. Quasi svapora di fronte all’irrompere della realtà. Rappresentata dalla coralità, dall’umanità che snocciola elenchi di Stufe, di disastri, di classificazioni scientifiche… di termini medici, bisogno di una società e di un mondo di catalogare, di fare elenchi per provare a capire. Per trovare un senso a una storia che, apparentemente, un senso non ce l’ha. Apparentemente perché alla fine (o all’inizio) O torna (o forse non se ne è mai andato da lì) al museo di storia naturale di E. Si aggira tra le teche insieme ad altri turisti, uomo tra gli uomini. Arriva alla teca degli uomini e dell’ombra. Resta solo. Schiaccia un pulsante, l’audioguida. «Homo rhodesiensis. Homo rudolfensis. Homo antecessor. Homo bodensis. Homo erectus». La voce che E aveva registrato. La voce (emozione assicurata) che riporta in vita E. Nach vorn schauen. Nach hinten schauen. «Guarda avanti. Guarda dietro te» trova la forza di dire O. n un eterno presente che ha il volto e il sorriso di una ragazzina che corre tra le teche del museo. Camicia bianca. Golfino rosso. Gonna grigia. Hier. «Qui». In un mondo che, forse, non è più contaminato. Guarito dall’amore.
Nelle foto @Matthias Jung Ines all’Oper Köln