Davide Tramontano, io compositore di 24 anni debutto con la mia prima opera lirica, Mother

Il 21 giugno al Teatro Municipale di Piacenza il debutto lirico del musicista nato nel 2000 proprio nella città dell’Emilia «Vorrei che la musica parlasse a tutti, specie ai miei coetanei»

«L’opera, come momento di riflessione collettiva. Su temi etici, di attualità. Raccontando storie del nostro presente». Con una musica che, dunque, «parli a tutti. Altrimenti, forse, meglio non scriverla». Ventiquattro anni compiuti a gennaio, Davide Tramontano racconta così la sua idea di opera. Compositore, forse uno dei più giovani compositori italiani, il 21 giugno – che è anche la Festa della musica – debutta con la sua prima opera lirica nella sua città, Piacenza. Al Teatro Municipale, nell’ambito del festival MusicMediale, va in scena in prima assoluta Mother, opera commissionata a Tramontano dal Municipale e dal Conservatorio Nicolini. «Una gioia, ma anche una grande responsabilità» racconta Davide Tramontano, vincitore del Premio Bruno Bettinelli e il del secondo premio alla XXIX edizione del Concorso internazionale di composizione 2 Agosto di Bologna, che ha scritto il libretto tratto dal dramma Riders to the Sea di John Millington Synge. Sul podio dell’Ensemble contemporaneo del Conservatorio Nicolini Daniele Balleello, protagonista Caterina Meldolesi con Corina Baranovschi, Liu Ziyu e Jing Mingyu. Regia di Roberto Recchia, elettronica di Francesco Altilio, costumi di Michele Giannini. «Un lungo lavoro, meticoloso e appassionato – racconta il compositore pubblicato dalla Universal edition di Vienna – che oggi vivrà finalmente in palcoscenico».

Come è nata, Davide Tramontano, l’idea di quest’opera?

«Le prime idee per Mother nacquero tempo fa, quando ereditai un’immensa biblioteca ricca di volumi antichi in lingua tedesca e inglese. Durante la lettura di un’antologia di teatro inglese trovai il testo Riders to the Sea di John Millington Synge del 1904. Mi colpì enormemente e lo trovai geniale, adatto ad essere messo in musica. L’occasione per poterne ideare un progetto musicale, però, è arrivata tempo dopo, quando la direttrice artistica del Teatro Municipale di Piacenza, Cristina Ferrari, alla quale sarò sempre infinitamente grato, mi ha chiamato per commissionarmi la composizione di un’opera. Ho pensato subito a Riders to the Sea perché ritengo che questa vicenda possa davvero rendere giustizia a una richiesta così importante come la commissione di una nuova opera, sopratutto da parte di un teatro così pieno di storia come il Municipale, da sempre frequentato dai più grandi artisti».

Che cosa racconta Mother? Come ha lavorato sul libretto?

«Mother è la storia di una donna, Maurya, la cui unica “colpa” è quella di amare i suoi figli. La vicenda inizia nella sua casa, sulla costa irlandese nelle isole Aran, dove Nora e Cathleen, le sue figlie, ricevono la notizia del ritrovamento di un corpo sulle rive di Donegal. Le ragazze si interrogano sull’identità dell’uomo, potrebbe essere loro fratello Michael, ormai disperso in mare da giorni. Bartley, il più piccolo dei figli di Maurya, si prepara a partire per la fiera di Galway per vendere cavalli, ignorando le preoccupazioni della madre riguardo ai pericolosi venti che soffiano sul mare. Un furibondo litigio familiare scoppia Quando Maurya supplica Bartley di rimanere, temendo per la sua incolumità, scoppia una lite in famiglia e la donna, presa da un impeto di collera, caccia Bartley da casa. Si innescano così una serie di eventi che porteranno Maurya ad affrontare alcune delle realtà più dure e dolorose per una madre. La stesura del libretto è partita dal testo teatrale di John Millington Synge. La prima cosa è stata un lavoro di snellimento e alleggerimento del testo anche perché i ritmi della prosa sono ben diversi da quelli dell’opera. Un lavoro fatto, però, cercando di rimanere il più fedele possibile al testo originale. Ho deciso successivamente di focalizzare la vicenda non solo sull’aspetto dei legami familiari e delle premonizioni, ma anche sul tema del dolore e dell’impotenza davanti alla morte e alle leggi della natura. Questo mi ha poi spinto a trovare un nuovo titolo per l’opera, diverso rispetto al testo teatrale, un titolo che fosse in grado di evidenziare la vera vittime di tutta la storia, Maurya, la madre. Ed ecco Mother».

E la musica? Come è nata. E come si è sviluppata? Cosa ascolteremo?

«La musica per quest’opera è stata una grande sfida perché l’obiettivo era quello di trovare il giusto connubio tra l’eredità del Secolo Breve e la grande tradizione del melodramma. Nei miei lavori, e ancor di più in Mother, ho sempre cercato di rendere la musica accessibile a tutti, capace di comunicare universalmente, raccogliendo e reinterpretando l’eredità delle avanguardie musicali in modo sicuramente più inclusivo, ma senza semplificazioni anacronistiche che tradiscono la complessità del linguaggio musicale. L’opera è strutturata in sei scene e due interludi. Il discorso musicale fa leva sull’impiego di leitmotiv, che rivestono qui un ruolo fondamentale poiché pervadono non solo l’aspetto motivico, ma anche quello ritmico e quello armonico. La loro funzione però non è intesa in senso wagneriano, ma si avvicina di più all’approccio del Wozzeck di Alban Berg: se nei drammi di Richard Wagner i leitmotiv sono “simboli” distinti che rappresentano chiaramente concetti, personaggi ed emozioni, in Mother questi si distinguono per la loro sottigliezza e frammentarietà, emergendo e svanendo con una fluidità imprevedibile come fossero premonizioni e rappresentazioni sonore dei tratti psicologici dei personaggi. Nel corso dell’opera questi affreschi musicali intessono una trama sonora di grande complessità, ricca di allusioni e variazioni incessanti, che si susseguono in un continuo flusso di coscienza in costante metamorfosi, consentendo una narrazione musicale densa di ambiguità e stratificazioni, in cui la riproposizione dei temi ne svela sempre nuovi significati».

Arriva prima la parola o la musica? Sono le note che rivestono la parola o le parole che si fondono con la musica?

«Questo è forse l’incubo peggiore di ogni compositore, una delle questioni musicali più vecchie al mondo. Ho pensato lungamente a questa questione durante la composizione di Mother. Non credo vi sia prevaricazione di una sull’altra, proprio perché la parola è di per sé musicale, poiché dalla stessa pronuncia possiamo desumerne la rappresentazione sonora. Sono piuttosto convinto che vi sia un rapporto simbiotico tra parola e note: più volte nella storia della musica troviamo grandi capolavori musicali a fronte di libretti non particolarmente ispirati e viceversa. Credo piuttosto che la buona resa di un’opera dipenda dalla sensibilità del compositore e dalla conoscenza non solo del grande repertorio lirico, ma anche di quello cameristico: senza i Lieder di Robert Schumann non avremmo avuto Franz Schreker e senza Giovanni Pierluigi da Palestrina sicuramente Giuseppe Verdi non sarebbe stato lo stesso. La musica nasce contestualmente alla parola e viceversa. Lo stesso Giacomo Puccini chiese ai suoi librettisti di modificare i libretti contestualmente alla composizione della musica».

Classe 2000, giovanissimo, come nasce la sua passione per la musica? Musicisti in famiglia?

«Fiero figlio di una merciaia e di un camionista, sono cresciuto in una semplice realtà familiare “allargata”, in cui tutti hanno fatto enormi sacrifici per potermi permettere di realizzare i miei sogni. Alla mia famiglia (nel senso già largo del termine) devo molto e ogni conquista cerco sempre di condividerla. Nessun musicista classico in famiglia. L’unico contatto con l’opera è il mio nonno paterno con la sua sterminata conoscenza del repertorio e l’invidiabile collezione di incisioni: da Claudio Monteverdi ad Arrigo Boito passando naturalmente per Verdi, dall’opera francese alla grande letteratura russa, senza dimenticare Wagner, Richard Strauss e Berg. La passione per la musica è nata per caso. Ricordo un concerto trasmesso in televisione in cui Georges Pretre dirigeva l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai nella suite de L’Oiseau de feu di Igor Stravinsky. Rimasi folgorato e da lì iniziò una passione sfociata poi negli studi di pianoforte e di composizione in Conservatorio a Piacenza». 

Come si è evoluta questa passione? E come è nata la vocazione ad essere compositore?

«Ho iniziato gli studi di pianoforte. Il mio sogno era quello di eseguire il Concerto per pianoforte e orchestra n.1 in mi bemolle maggiore di Franz Liszt e il Concerto per pianoforte e orchestra n.24 in do minore K491 di Wolfgang Amadeus Mozart. Ma poi a causa di un problema fisico al braccio sinistro decisi di fermarmi con lo studio dello strumento. Il braccio si riprese, ma notai che l’articolazione non era più quella di prima e decisi di dedicarmi solo allo studio della composizione, anticipando così i piani di molti anni – perché l’idea di diventare compositore c’è sempre stata. Mi sono sempre posto obiettivi molto alti e non potevo accettare di concludere un percorso di studi pianistici che non mi avrebbe mai soddisfatto appieno per i limiti fisici. Allora ho concentrato tutte le mie energie nello studio della composizione, affrontando prima l’armonia e il contrappunto, poi l’orchestrazione, la fuga e così via, acquisendo in questo modo tutti gli strumenti tecnici necessari per poter comporre al meglio».

Chi sono i suoi modelli di riferimento?

«Ad esser sinceri i modelli sono infiniti. Studiando il repertorio ho compreso che c’è sempre da imparare da ogni partitura. I primi nomi che mi vengono in mente sono Johann Sebastian Bach e Johannes Brahms per il contrappunto, per non parlare dell’economia del materiale di Beethoven e Mozart o delle imponenti architetture di Wagner, Strauss, Anton Bruckner, Gustav Mahler, la cura del colore orchestrale di Claude Debussy e Maurice Ravel o l’impiego del ritmo in Stravinsky e Dmitry Shostakovich fino al lirismo di Schumann e Berg e alla sapiente teatralità di Verdi. Potrei continuare all’infinito. Venendo alla contemporaneità ho imparato tantissimo dai lavori di Bruno Bettinelli, Ivan Fedele, Toru Takemitsu e Toshio Hosokawa, senza dimenticare Michael Jarrell, Unsuk Chin e Kaajia Saariaho. C’è da imparare da tutti».

Perché scegliere di comunicare in musica? Quale l’urgenza che avverte? E con la sua musica vuole raccontare storie contemporanee, concrete o miti eterni… i due poli lungo i quali l’opera si muove da sempre?

«Comunicare in musica perché la musica è un linguaggio universale, che prescinde le limitazioni causate dalle diversità. Mentre nelle varie realtà linguistiche alcune barriere non possono essere superate, la musica, nonostante le intrinseche diversità tra compositori (va da sé che Monteverdi è ben diverso da Catalani, per esempio), è diretta, immediata, poiché tocca direttamente l’animo umano nella sua sfera più intima. L’urgenza che sentivo e sento è proprio quella di trovare una via di comunicazione che possa prescindere dalle difficoltà del linguaggio non solo come mezzo, ma anche come contenuto: la parola, che è di per sé musicale, ma ha comunque dei limiti espressivi intrinsechi, che vengono superati dalla musica. L’obiettivo che mi sono posto è infatti quello di comporre musica che possa comunicare a tutti attraverso una rilettura dell’eredità delle avanguardie in una nuova chiave espressiva. Proprio per questa ragione ho deciso di raccontare storie di uomini e donne comuni perché credo che il modo più diretto per toccare l’intimità umana sia proprio affrontare tematiche che siano il più vicino possibile all’umanità stessa».

E nel campo sinfonico? Quale il suo percorso? Un corpus sinfonico, se lo immagina, lo progetta?

«Il mio percorso nel campo sinfonico ha raggiunto tappe significative, soprattutto lo scorso anno. Ho avuto il privilegio di vedere due brani per orchestra in prima esecuzione – Schatten con l’Orchestra del Conservatorio Nicolini di Piacenza e Broken Streams con l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, trasmesso in diretta Rai il 2 agosto, nella serata finale del Concorso 2 agosto. Un’esperienza che ha confermato il mio amore per il repertorio orchestrale. Per arrivare a questi risultati, però, è stato necessario un lungo percorso lungo, pieno di studi severi. Prima di dedicarmi alla scrittura per orchestra ho passato anni ad approfondire la musica da camera che mi ha permesso di capire come ogni strumento possa dialogare e contribuire all’insieme musicale. Ho studiato a fondo l’orchestrazione, scoprendo come impiegare al meglio le varie combinazioni timbriche e dinamiche, alla luce delle tecniche stesse. A questo vanno aggiunti gli studi di direzione d’orchestra grazie ai quali sono riuscito a comprendere l’orchestra da un nuovo punto di vista. Questo percorso mi ha veramente aiutato ad affinare la mia tecnica compositiva e il mio linguaggio musicale. Le esecuzioni di Schatten e Broken Streams hanno rappresentato per me non un punto di arrivo, bensì un punto di partenza: lavorare con l’orchestra mi ha offerto infatti una nuova prospettiva, che mi ha spronato a continuare l’esplorazione di nuove idee sonore. È l’inizio di un viaggio che mi entusiasma e mi ispira profondamente: guardo infatti con grande curiosità ai progetti futuri, poiché ogni nuova composizione è un’occasione per sperimentare e approfondire il mio linguaggio musicale». 

Come avvicinare la musica contemporanea ai suoi coetanei? Come essere comunicativi con una musica che, con le avanguardie, ha perso il contatto con il pubblico (a volte non lo contemplava nemmeno)?

«In realtà credo, che, paradossalmente, il repertorio contemporaneo possa essere vicino al pubblico giovane più di quello tradizionale, proprio per le vicende narrate nelle opere. Un esempio è la mia esperienza al Festival di Aix-En Provence, in occasione della prima assoluta di Picture a day like this di George Benjamin: un teatro sold out, pieno di giovani che per tutti i 70 minuti dello spettacolo sono rimasti in assoluto e rigoroso silenzio, profondamente partecipi della vicenda, e hanno poi decretato un vivo successo per quest’opera che, non a caso, si replica in molti teatri europei, da Londra a Colonia. Questa credo sia la prova per cui il linguaggio contemporaneo ha ormai fatto i conti con le avanguardie, assimilandone l’eredità artistica, ma volgendola a pieghe espressive più inclusive per il pubblico. Una volta Michael Jarrell mi disse “che senso ha scrivere musica, che non vuole essere comunicativa?”. Credo che qui, stia il nocciolo del discorso».

Cosa significa per un compositore ricevere una commissione? Nel suo caso anche dal teatro della sua città.

«Ricevere una commissione è sempre un grande onore e insieme una responsabilità enorme perché fondamentalmente è un atto di fiducia che un direttore artistico compie nei confronti di un compositore. Non dimenticherò mai quella fredda tarda mattinata di autunno inoltrato di qualche anno fa durante la quale Cristina Ferrari mi commissionò l’opera. Debuttare poi nella propria città, nel teatro che mi ha letteralmente visto crescere, che mi ha fatto conoscere l’opera e il sinfonismo, è un’emozione indescrivibile. Abbiamo avuto due incontri di presentazione di Mother con il pubblico e ho riscontrato anche un profondo senso di sostegno da parte della mia città, del pubblico, degli abbonati storici, delle associazioni liriche del territorio e dai membri del cda della fondazione Teatri di Piacenza. Un aspetto che, certo, mi inorgoglisce, ma mi sprona a non arrendermi mai e ad andare sempre avanti».

Compositore o direttore? Come si vede nel futuro?

«Compositore senza dubbio alcuno. La direzione e la composizione sono due campi veramente interconnessi, ma allo stesso tempo talmente specialistici che sono convinto che alla fine un musicista debba decidere da che parte stare. Il fine è lo stesso, ma i punti di partenza sono agli antipodi: se in una partitura il compositore parte dalle fondamenta per ergere la sua cattedrale nei minimi dettagli, un direttore parte dalla cima per arrivare alle basi più profonde di un brano ed entrambe le operazioni, per essere compiute nel miglior modo possibile, richiedono un enorme sforzo intellettuale e fisico». 

Dopo Mother che progetti ha?

«Con la mia musica vorrei parlare di persone comuni, di temi sociali rilevanti, non solo come mezzo di denuncia, quanto piuttosto come momento di riflessione collettivo. Vorrei scrivere un balletto la cui trama sia ispirata a una storia vera – e un plot potrebbe già esserci, sul tema dell’infibulazione in Africa. Sul fronte cameristico e sinfonico un nuovo quartetto d’archi, un ciclo di lieder per soprano ed ensemble, un nuovo concerto per solista e orchestra dopo che ho appena terminato quello per violoncello. E, perché no, una nuova opera… l’idea per un libretto potrebbe esserci già. Guardo al futuro certamente non senza preoccupazioni, ma consapevole che il lavoro, la voglia stessa di lavorare, l’amore per la musica, per il teatro e il coraggio non mancheranno di certo».

Davide Tramontano al Teatro Municipale di Piacenza