All’Opera di Colonia ritorna l’allestimento di Thilo Reinhardt che porta l’opera di Puccini nella Seconda guerra mondiale Protagonista il tenore Young Woo Kim. Dirige Giuseppe Finzi
Tosca vive (e muore, con quel volo spettacolare da Castel Sant’Angelo, colpo di scena tra i più riusciti della storia dell’opera) a Roma. Certo, lo sappiamo, perché Giacomo Puccini, fedele al dramma di Victorien Sardou riscritto da Illica e Giacosa per uno dei melodrammi più famosi di sempre, ambienta le vicende nella Roma del 1800. E in un preciso giorno di quell’anno, il 17 giugno. Era un martedì e tre giorni prima, il 14 giugno, che era un sabato, Napoleone aveva trionfato a Marengo. Ma a Roma non lo sapevano ancora, pensavano che a sconfiggere i francesi fosse stato l’esercito austriaco di Melas… infatti organizzano un Te Deum e una «apposita nuova cantata con Floria Tosca». Poi arriva la doccia fredda «Melas è un fuga» dice Sciarrone a Scarpia facendo esplodere la gioia di Cavaradossi «Vittoria! Vittoria!»… in quel tardo pomeriggio del 17 giugno. Giorno in cui Puccini (e Sardou e Illica e Giacosa) ambienta la sua Tosca. Che vive e muore a Roma. Ma questa volta, a Colonia, sul palco dell’Oper Köln, la Roma dove vive e muore Tosca – e dove vivono e muoiono anche Cavaradossi e Scarpaia, nessuno spoiler, tanto sappiamo tutti come va a finire una delle opere più pop e popolari di sempre – non è la Roma papalina del 1800, ma quella occupata dai tedeschi del 1944… gli alleati alle porte, la resistenza militante… È la Roma città aperta raccontata al cinema nel 1945 da Roberto Rossellini, mentre le macerie erano ancora fumanti e grondanti sangue. Roma città aperta, film cult, quello della corsa disperata di Anna Magnani e della sua Pina – scena iconica, impressa nella mente di molti – che grida «Francesco! Francesco!» mentre portano il suo uomo alla fucilazione… ma lei cade a terra, morta, crivellata dai colpi dei mitra tedeschi, sotto gli occhi del figlio.
Vive e muore in questa Roma città aperta la Tosca di Thilo Reinhardt a Colonia. Wiederaufnahme, ripresa di uno spettacolo del 2012, attualissimo, visionario e potente, per la riflessione sulla storia, ma anche sul ruolo dell’artista e dell’arte. La Tosca di Reinhardt inizia prima di quella di Puccini. Le sirene, in lontananza. Poi le bombe. Vicinissime. Cadono dagli aerei alleati che bombardano la città. Hanno già colpito la chiesa, Sant’Andrea della Valle. Che è lì, sul palco senza sipario, mentre il pubblico entra nella Saal 2 dello Staatenhaus, la “casa” dell’Oper Köln mentre è (ancora… e fino a quando?) in ristrutturazione la sede storica di Offenbachplatz. Le macerie sul pavimento, la grande croce sghemba, in bilico sull’altare, le panche scheggiate. Siamo dentro anche noi in quella chiesa a brandelli. Dentro quel rito che si sta celebrando in un clima cupo. Vero – o almeno verosimile. In cielo gli aerei degli alleati. Fuori i tedeschi che assediano la chiesa. Dentro facce da resistenza partigiana. Dentro il rito, il prete davanti all’altare. Abito talare nero. In testa il tricorno, nero. Stessa fisicità. Stessa statura (morale). Stessi gesti di Aldo Fabrizi, il don Pietro di Roma città aperta – alla fine benedirà i condannati a morte prima della fucilazione. Guida il rito. Mentre fuori si sentono sirene e bombe. Un rumore sordo che si mischia alle litanie latine, cantilena che calma, quasi un mantra dell’anima. Preghiere che i fedeli, in ginocchio sulle panche di legno, sgranano. Per scongiurare il peggio. Si sono rifugiati in chiesa, limite (forse) invalicabile, zona (forse) franca. Invocano. Sperano. Anche se intorno è solo nero. Bombe e macerie. Intorno c’è la guerra. La Seconda guerra mondiale. La più terribile di tutte le guerre. Quella che ha piegato l’Italia – e che l’ha profondamente lacerata, ferita che ancora oggi ci portiamo addosso nel riaccendersi delle polemiche, ogni volta che arriva il 25 aprile, su vincitori e vinti.
Entra una donna. Capelli biondi. Cappello e tailleur color nocciola (taglio inconfondibile anni Quaranta, sembra uscito da una foto d’epoca, sbiadita, grigia e rosa). Nasconde una valigia sotto una panca. E una chiave, sotto la statua della Madonna. «Ecco la chiave. Ed ecco la cappella». È l’Attavanti… esclamerà poi Tosca vedendola ritratta come Maddalena dal suo Mario… sacrilegio artistico, alla Caravaggio che dava a santi e dei le sembianze degli uomini che incontrava per strada… in una Roma (un’altra Roma, quella di fine Cinquecento) di poveri e derelitti (un’altra Roma, ma uguale a quella di Tosca e alla Città aperta di Rossellini). Quella donna che nasconde una valigia e la chiave sotto la statua della Madonna (che è la statua della Madonna di Fatima, inconfondibile nella nuvola sulla quale poggia i piedi… icona della Signora che ha consegnato a tre ragazzi tre segreti, uno che profetizzava, appunto, la Seconda guerra mondiale)… quella donna è l’Attavanti. Viene a preparare la fuga del fratello, l’Angelotti – tornerà, poi l’Attavanti, alla fine, per il suo funerale (colpo di teatro di Reinhardt).
Entra. Nasconde chiave e valigia con dentro «vesti, velo, ventaglio…». E inizia la musica. Dal nulla – quasi non ti accorgi quando il direttore, Giuseppe Finzi, sale sul podio e con gesto secco disegna subito l’atmosfera cupa, con l’attacco solenne e da brivido dei fiati, impeccabili, straussiani quelli della Gürzenich-Orchester. La musica di Puccini che evoca, racconta. Racconta la vita di due artisti, Tosca canta, Cavaradossi dipinge. Una vicenda politica. Una vicenda di resistenza quella di Tosca. Perché Cavaradossi lotta contro il potere che opprime. E lo fa da artista. In nome della libertà. Che l’arte, sempre, proclama. E grida, quando è costretta, censurata, manipolata. La Tosca di Reinhardt, calata nella Roma città aperta della Seconda guerra mondiale, è una riflessione sull’arte. Sull’arte che è e deve essere politica. È una riflessione sul coraggio delle proprie idee. Concreta, in quel clima cupo e plumbeo da assedio. Ma anche onirica, visionaria.
Perché tutto il racconto è lì, nella chiesa dove siamo “entrati” anche noi. La disegna Paul Zoller. La illumina Andreas Grüter. Chiesa che è chiesa, come da libretto, nel primo atto. Che diventa il quartier generale di Scarpia nel secondo, dopo che il “dittatore” ha fatto irruzione con i suoi uomini: «Un tal baccano in chiesa!» dice chiedendo di preparare il Te Deum e facendo di Sant’Andrea della Valle il suo quartier generale. Trincea di guerra – la comunicazione della sconfitta di Marengo arriva attraverso una radiotrasmittente – dove torturare i prigionieri. E dove fucilarli. Nel terzo atto – sempre in chiesa, non sulla terrazza di Castel Sant’Angelo perché nessuna alba si vede all’orizzonte. Che inizia con una doppia fucilazione. Prosegue con un funerale, quello di Angelotti (che viene seppellito nella cappella di famiglia…) con l’Attavanti che ricompare e portando un mazzo di fiori intona per il fratello lo stornello romano che Puccini affida al Pastorello… «Io de’ sospiri…». Bella intuizione di Reinhardt cdhe conosce il libretto, lo trasforma, certo, ma senza andargli contro. E non è cosa da poco. Drammaturgia netta, potente. Come alla fine, quando Cavaradossi non è morto, «uccisione simulata» messa davvero in atto, ma viene subito freddato quando arriva la notizia che Scarpia è stato ucciso (forse) con un colpo in testa da Spoletta, sadica figura, caricatura inquieta e inquietante pronto a prendere il posto del “dittatore”.
Sarò davvero così? Mario non è morto per poi essere freddato? O è solo una visione della mente di Tosca? Che poi si spara, perché non può fare altro – nessun volo da Castel Sant’Angelo. Una delle tante visioni di Tosca. Di questa Tosca onirica e visionaria. Tosca sacrificata sull’altare, in una fantasia erotica ai limiti della blasfemia, da Scarpia, sulle note del Te Deum (sempre magnifico il coro di Rustam Samedov) intonato da camereati e piccoli balilla (li veste Ulli Kremer) con bandiere nere e fiaccole. Lui in piedi sull’altare, la gambe aperte, in una mano la pisside con le ostie, nell’altra il calice con il vino, in una comunione sacrilega. Lei che arriva e gli si infila tra le gambe, nella stessa posizione che la vedrà poi “dire” il suo credo, sempre rannicchiata sull’altare, il «Vissi d’arte, vissi d’amore… non feci mai male ad anima viva», preghiera, urlo disperato per chiedere «perché me ne rimuneri così?». Tosca visionaria. Con Cavaradossi torturato, crocifisso con una corona di spine in testa. E con quel finale straniante del secondo atto. Lei uccide Scarpia, come da libretto. Ma poi lui si rialza. Ride. Deride Tosca. Si rialza ed esce- e lì, mentre la musica di Puccini racconta che un raggio di luna entra dalla finestra e spaventa Tosca facendola fuggire, lei spara ancora mentre Scarpia scompare dietro una tenda. Il male non muore. Scarpia forse non muore. Vince comunque.
Lo racconta la musica di Puccini, in quel finale dove il tema d’amore precipita in un baratro, in un vortice nero. E gli ottoni urlano. Straussiani. Magnifici quelli della Gürzenich. Come magnifica è tutta l’orchestra, in questo repertorio italiano strettamente imparentato con la Mitteleuropea del tempo. Finzi – italiano, formazione italiana, lunga militanza nello staff del Teatro alla Scala poi una carriera in giro per il mondo – imprime un bel passo narrativo al racconto che scorre fluido (forse troppo uguale, senza “colpi di scena” che pure nella musica ci sono) e cinematografico, con le arie che diventano primi piani dei personaggi, oasi meditative (date anche dalla solennità che il direttore imprime alle pagine), fermo immagine sull’anima dei personaggi.
Luminosa, luminosissima nella Recondita armonia, screziata dei colori nostalgici del tramonto nell’E lucevan le stelle quella di Carvaradossi, così come la restituisce Young Woo Kim, tenore dell’ensemble dell’Oper Köln (cresciuto all’Opernstudio del teatro) che sta portando il suo Cavaradossi (e il suo squillo generoso e pineo di vita) in giro per la Germania. Appassionato, musicalissimo con una voce che avvolge (e che resta piena e rotonda) in ogni registro (acuti limpidi, centri incisivi), il tenore coreano disegna un Cavaradossi perfetto. Protagonista assoluto. Anche perché Cristiana Oliveira non ha, come si dice, una “voce” da Tosca. Non ha una voce che buca l’orchestra, che svetta senza assottigliarsi, che regge il peso della scrittura pucciniana. Scenicamente il personaggio c’è, incisivo, cinematografico. Ma non basta, Tosca si canta. Canta (e recita molto bene) Jordan Shanahan. Canta con una classe e una musicalità notevoli (le stesse che a inizio stagione ha messo nella Frau ohne Schatten che ha inaugurato il cartellone dell’Oper Köln) che non si sporcano, però, del nero di cui è sporco Scarpia.
Perfetto nei panni del Sacrestano, che Reinhardt trasforma nel prete alter ego del don Pietro di Roma città aperta, Christoph Seidl. William Socolof è un affranto Angelotti, Martin Koch un inquietante (ma la voce non sempre arriva) Spoletta. Centratissima, scenicamente e musicalmente, nei panni dell’Attavanti che riveste di insolita malinconia lo stornello del Pastorello (solitamente affidato a una voce bianca) Tinka Pypker, soprano dell’Opernstudio. Figura che sembra uscita da una foro dell’epoca. O da un fotogramma di Roberto Rossellini. Un fotogramma di quella Roma città aperta dove vive e muore Tosca.
Nelle foto @Bernd Uhlig Tosca all’Oper Köln