Il direttore al Festival di Pasqua di Salisburgo con Santa Cecilia dirige La Gioconda di Ponchielli e la Messa da Requiem di Verdi
Sul palco del Großes Festspielhaus di Salisburgo c’è uno squarcio di Venezia. Quella che affonda nell’acqua. Ma i personaggi che si muovono tra la bellezza decadente e senza tempo della città lagunare sono vestiti come noi oggi. «Raccontano una vita di sofferenza, di abusi. Una vita difficile da vivere per chi campa cantando per la strada». Un microfono attaccato ad una cassa. Un cappello per raccogliere le monetine. «Tu canti agli angeli le tue orazioni, io canto agli uomini le mie canzoni» canta Gioconda. Per le strade di Venezia, dove si balla come in discoteca. Accanto a lei la madre, cieca, con il suo bastone per non vedenti – e un vestito dorato, appariscente, magari comprato all’outlet. La Cieca, si legge in locandina. Non ha nome. La figlia, invece, è La Gioconda, quella che dà il titolo all’opera di Amilcare Ponchielli che ha inaugurato l’edizione 2024 del Festival di Pasqua di Salisburgo. Storica rassegna passata dai Berliner di Herbert von Karajan e Claudio Abbado alla Staatskepelle di Dresda di Christian Thielemann. «E ora, per il nuovo corso del festival che vuole instaurare rapporti con musicisti alla guida delle principali istituzioni musicali europee, mi hanno chiamato. E io ho pensato subito all’Accademia di Santa Cecilia, che ho guidato sino a settembre e di cui ora sono direttore emerito» racconta dalla città di Mozart Antonio Pappano. Anna Netrebko, protagonista con Jonas Kaufmann e Luca Salsi dello spettacolo con la regia di Oliver Mears (corpoduzione con il Covent Garden di Londra, repliche sino al 1 aprile). E poi Boccherini, Berio, De Sabata, Respighi e «il Verdi della Messa da Requiem che risuona nel cuore della Settimana Santa per un progetto tutto italiano».
Come lo ha immaginato, maestro Pappano?
«Un titolo italiano di quelli che si fanno poco perché, come si dice, non ci sono più i cantanti di una volta. Ma è vero, negli anni Cinquanta c’erano dieci tenori che potevano cantare la parte di Enzo, oggi sono uno o due. Dunque Gioconda di Ponchielli, autore che è stato un poter tra il primo Verdi e il Verdi della maturità di Otello e Falstaff, opere che hanno come librettista Arrigo Boito, autore anche del testo, a tratti astruso, ma a suo modo in grado di reggere, della Gioconda. Opera con tutte le convenzioni del melodramma italiano, ma che guarda al grand-opéra francese, balletto compreso con la famosa Danza delle ore. Opera dalla quale Giacomo Puccini ha imparato molto. Partitura dal respiro epico».
Un’opera a tinte forti, omicidi, vendette, una strana commistione tra ultimi della società e nobili, come raccontano tante vicende della cronaca di oggi…
«La Gioconda non è ancora verismo, ma si vede e si sente che sta per nascere e sbocciare trent’anni più tardi. I semi del verismo sono proprio qui, in una scrittura melodica molto ispirata. Quello che mi interessa sono i leitmotiv, quell’idea wagneriana che identifica con una melodia personaggi, situazioni e sentimenti. C’è il ritmo puntato, peraltro difficilissimo da eseguire, che identifica subito Barnaba, il cattivo. Anche se quello che mi piace del libretto di Boito, con una drammaturgia che tiene anche se abbastanza assurda, è l’idea che anche un cattivo può avere momenti di leggerezza, di tenerezza, cosa che mette ancora di più in luce la sua cattiveria: penso a Barnaba, ad Alvise, all’eleganza “musicale” con la quale tratta la moglie mentre la convince a bere un veleno…».
«Suicidio» la celebre aria del quarto atto, gesto che la protagonista poi compie, tanto che La Gioconda sembra essere un lungo Requiem, un precipitare lento, ma inesorabile verso la morte.
«Ponchielli e Boito raccontano la difficoltà di sopravvivere degli ultimi e ci fanno commuovere. Il regista Oliver Mears ha voluto trasportare la vicenda ai nostri giorni per raccontare, anche attraverso flash back che ci riportano all’infanzia della cantatrice, una vita di abusi subiti da una donna che alla fine si sacrifica per amore. Una cosa rarissima da vedere oggi».
Tra una recita e l’altra di Gioconda, incastona due esecuzioni della verdiana Messa da Requiem, pagina di cui il 22 maggio ricorreranno i centocinquant’anni dalla prima esecuzione nella basilica milanese di San Marco.
«Una grande meditazione sul dolore e sulla morte. Ma una partitura che parla anche dell’ammirazione di Verdi per un grande artista come Alessandro Manzoni. Lo sappiamo, il rapporto del compositore emiliano con la religione organizzata è stato molto tortuoso. Ma qui Verdi ha usato le parole drammatiche e quasi violente della liturgia, visione che fa impaurire nella maestosità della lingua latina, per raccontarci come affacciarci al momento supremo, che arriva per tutti: la dolcezza del Recordare, il clima pastorale dell’Ingemisco il terrore del Confutatis, la gioia del Sanctus raccontano una comunità che vive e riflette. Ci raccontano».
La musica può aiutare a comprendere il mistero della morte?
«È una domanda alla quale non esiste una risposta certa. Da musicista dovrei dire di sì. Ma come uomo i dubbi sono molti. Anche perché il tema della morte è stato declinato in mille modi nella storia della musica. Penso che ciascuno debba mettersi in ascolto del messaggio presente in ogni partitura cercando di prendere quell’aspetto che in quel momento più lo colpisce, farlo proprio e meditarlo».
Nella Pasqua c’è la speranza, la certezza che la vita trionfa sulla morte.
«La Pasqua per me è sempre stato il periodo preferito dell’anno. Vivo la gioia della Resurrezione. E questa certezza della fede, questa gioia la trovo nella musica che eseguo. Una dimensione spirituale che mi piace vivere in modo intimo, anche quando faccio musica con una grande orchestra».
L’ombra della guerra, della violenza, anche quest’anno si allunga sulla Pasqua.
«Sono molto preoccupato per la situazione che il mondo sta vivendo. Dall’Ucraina al Medioriente sembra che stia scomparendo il rispetto per il prossimo. Le guerre e i conflitti che non si risolvono sconcertano. Razzismo e sospetti aumentano, ogni giorno e dappertutto. Le violenze, la tortura fanno paura perché il mondo non impara dal passato. E questo è pericoloso per la sopravvivenza della nostra società».
Ha ancora speranza?
«Sono profondamente credente. Per educazione familiare. Ma anche perché nella mia vita ho seguito un percorso che mi ha portato ad avere la certezza che come uomo ho bisogno di credere. Sono convinto che la componente spirituale dell’uomo vada continuamente alimentata. E sono convinto che in quanto credenti il nostro compito sia quello di rendere attuale il grande insegnamento di Cristo, di farlo rivivere nel nostro cammino di uomini».
Nella foto @Musacchio, Pasqualini & Fucilla Antonio Pappano
Intervista pubblicata su Avvenire del 26 marzo 2024