Manon Lescaut apre la stagione del Comunale di Bologna Nuovo allestimento che il regista ambienta nel deserto
«A Manon e a Des Grieux brucia la terra sotto i piedi. Perché sono sempre in partenza. Catturati, nelle quattro istantanee di cui si compone il racconto di Giacomo Puccini, sempre sul punto di lasciare un luogo, di fuggire da qualcuno, di imbarcarsi su una nave… di provare a svincolarsi dalla morte e dall’ignoto». E la terra che brucia sotto i piedi dei protagonisti della Manon Lescaut per Leo Muscato «è quella del deserto». Il regista di Martina Franca firma il nuovo allestimento dell’opera di Puccini che il 26 gennaio inaugura la nuova stagione del Teatro Comunale di Bologna al Comunale Nouveau, il padiglione fieristico dove il teatro è ospitato durante i restauri della sede storica di piazza Verdi. Omaggio, nell’anno che ne celebra il centenario della morte, al compositore toscano. «Che mette nella partitura di Manon Lescaut tutto lo sperimentalismo che troverà poi compimento nelle opere della maturità» dice Muscato, che il 7 dicembre firmerà la regia de La forza del destino di Giuseppe Verdi che, con la bacchetta di Riccardo Chailly e le voci di Anna Netrebko e Joans Kaufmann, inaugurerà la prossima stagione del Teatro alla Scala di Milano. «Non è stato ancora annunciato ufficialmente… certo, è come la scoperta dell’acqua calda… le idee ci sono, gli incontri si susseguono. Ma per ora mi concentro su Bologna» taglia corto, però, il regista che ha in mano la partitura pucciniana, datata 1893, che sarà sul leggio del direttore musicale del Comunale, Oksana Lyniv. Protagonisti Erika Grimaldi (Manon), Luciano Ganci (Des Grieux) e Claudio Sgura (Lescaut). «Si muovono – racconta il regista – nel deserto, che è la scenografia fissa che ho chiesto a Federica Parolini».
Perché il deserto, Leo Muscato?
«La struttura del Comunale Nouveau ci costringe a fare i conti con un palco lungo, ma alto solo 3 metri e 80, nemmeno uno schermo in cinemascope, ma uno da cinema di periferia di quando ero ragazzo. Si fa di necessità virtù e si fa lavorare la fantasia, tanto più che io vengo dalla prosa dove si fa teatro anche con una candela. Così ho pensato ad una scena fissa per ambientare tutta la vicenda nel deserto ai confini di New Orleans, quello che Puccini racconta nell’ultimo quadro della sua Manon Lescaut. Siamo sempre lì, i personaggi sono sempre tra le dune di sabbia che, di quadro in quadro si arricchiscono di elementi che servono a connotare i luoghi dell’azione, l’albergo di Amiens, la casa di Geronte, il porto di Le Havre. E quando Manon e Des Grieux restano soli in scena le luci di Alessandro Verrazzi li isolano da tutto e ce li fanno vedere soli nel deserto… dove alla fine moriranno».
Manon Lescuat è un titolo molto popolare e amato di Puccini, anche se non è così presente nei nostri cartelloni diove si moltiplicano Tosche, Bohème e Butterfly
«Eppure la musica è bellissima. Si sente in quest’opera già tutto il genio del compositore. In Manon Lescaut Puccini comincia a sperimentare, pur mantenendo una dipendenza affettiva ed emotiva con Wagner e con la musica che era in voga a quel tempo. Lo sperimentalismo che c’è qui lo ritroveremo nelle grandi opere della maturità, come linguaggio molto più sviluppato e compiuto. Certo la storia zoppica e non poco, si sente che il libretto (lontano dalla maturità e dalla compiutezza di libretti come quello di Bohème, ad esempio) è passato per molte mani e alla fine è stato adattato dallo stesso Puccini. È drammaturgicamente debole, pur raccontando una storia che al tempo era popolarissima, quella del romanzo dell’abate Prévost messo in musica già da Jules Massenet che la racconta bene nei suoi snodi drammaturgici. Puccini sceglie di concentrarsi su quattro quadri di una vicenda molto complicata, quattro istantanee di una storia complessa. Una storia tragica, inquietante e allo stesso tempo moderna, anche nel mettere in scena la sensualità di un personaggio che è modernissimo».
Quale l’attualità di una vicenda come quella di Manon Lescaut?
«La grande modernità sta nel personaggio di Manon, una donna che potrebbe essere nostra contemporanea, con sbalzi di umore repentini tanto che Des Grieux e non riesce a starle dietro. Spesso ci dimentichiamo che questi personaggi avevano 16, 17 anni… adolescenti alle prese con l’amore. Poi c’è la figura torbida del fratello che nella trasposizione pucciniana, forse, non esce in tutta la sua grettezza. Lescaut è un soldato, dovrebbe avere una morale in quanto pubblico ufficiale, ma non esita a vendere la sorella perché la ritiene “merce” dalla quale trarre profitto. Una vicenda ancora più cruda e più dura di quella di Violetta della Traviata di Verdi. Manon è una donna che cerca una libertà che le viene negata. E se oggi in occidente vivere libere è facile sappiamo che nei paesi mediorientali il tema è drammaticamente attuale. In prova spesso ci sono venuti in mente tante donne che vogliono vivere la loro vita, ma alle quali viene negata dagli uomini la libertà».
In scena, però, non vediamo donne di oggi… nessuna attualizzazione.
«Puccini, fedele al romanzo di Prévost, ambienta la vicenda nel Settecento, cento anni prima rispetto all’epoca in cui l’opera va in scena. Ma la musica suonava contemporanea, vicinissima alla sensibilità degli ascoltatori che erano in platea. Ho deciso allora di ambientarla nell’Ottocento, all’epoca della composizione, come dicono i costumi di Silvia Aymonino – ecco perché sul palco ci sono lampadine elettriche e la lezione di ballo diventa un divertimento dei nobili dell’Ottocento che si facevano fotografare in costume. Tutto questo, però, nell’assoluta fedeltà al testo. Quando preparo un’opera faccio l’esercizio di leggere il libretto tralasciando le didascalie, per capire cosa vuol dire davvero… e se si parla di una pistola, la pistola ci deve essere, non può essere altro».
Detta così suona come una presa di distanza da spettacoli che creano una drammaturgia parallela a quella del libretto e della partitura.
«A un certo punto ho fatto pace con me stesso: a vent’anni volevo cambiare il mondo, ora invece voglio raccontare storie di altri ad altri o, come diceva Giorgio Strehler, le mie storie a me stesso. E lo faccio con i mezzi che ho a disposizione, un palco vuoto con solo una sedia, come capita a volte nella prosa, o mezzi tecnologici che consentono venti cambi scena come è capitato alla Scala con Li zite ngalera di Leonardo Vinci. In ogni caso lo faccio non con una drammaturgia parallela, ma affidandomi alle parole e alla musica. E per fare questo occorre fare tre passi indietro perché certe cose vorresti farle, ma il testo non te lo permette e allora devi fermarti. Così lavorando a Manon Lescaut mi sono chiesto come poter rimanere fedele alla storia che Puccini voleva raccontare. E ho pensato all’Ottocento e al deserto».
Quale il ruolo dell’artista oggi, in un mondo attraversato da crisi e guerre?
«Intanto occorre intendersi su chi è un artista. Io mi ritengo un professionista, uno che riesce a vivere mettendo a frutto il proprio talento. Un artista è uno che non può fare a meno di occuparsi di arte, ma che può anche non riuscire a vivere di arte. Pensiamo a Ligabue, incapace di trarre profitto dal suo talento, ma prototipo assoluto dell’artista. Da professionista mi fermo a pensare, mi chiedo, mettendo in scena un testo di prosa o un’opera, se è questa la storia che il mondo ha bisogno di sentire in questo momento. Poi mi dico che questa è la mia professione, il mio compito. E inevitabilmente, come è successo anche provando Manon Lescaut, sono state tante le riflessioni sul nostro mondo che scaturiscono perché chi interpreta si confronta sempre con la sua vita».
Nella foto @Andrea Ranzi Manon Lescaut al Comunale Nouveau
Leo Muscato