Il Teatro alla Scala inaugura la nuova stagione di danza con la versione del coreografo russo del balletto di Delibes
Tutto sa di fiaba. Apparentemente, almeno. L’ambientazione in un paesino dell’Est, raccontato (dipinto) con i tratti tipici del folklore senza tempo di costumi tradizionali, di locali dove ritrovarsi, di casette con i fiori al davanzale della finestra. Un giovanotto (un po’ stupidotto) che si innamora (senza accorgersene) di una bambola messa in bella mostra sul balcone dal suo creatore. La fidanzata (e promessa sposa) di lui che decide di dargli una lezione (sempre con il sorriso). E l’immancabile lieto fine con il perdono e una bella risata, la festa di nozze alla quale partecipa tutto il villaggio e il «E vissero tutti felici e contenti…», anche se a scapito di un inventore pazzo (il creatore della bambola) che viene cacciato dalla comunità. Eppure…
Eppure Coppélia a ben guardare è «felice e contenta» solo in apparenza. Perché a dispetto del lieto fine il titolo non è Swanilda o Franz… ma è il nome della bambola che si inceppa e si rompe rivelando la sua natura di automa, Coppelia, appunto, creatura del pazzo (e inquietante) Coppélius di cui porta il nome. Perché a dispetto della festa che riconcilia tutti – e del perdono che Swanilda concede al suo Franz – Coppélius viene allontanato dalla comunità, emarginato, cacciato… per il suo essere portatore di una diversità (gli automi, le bambole…) che oggi forse chiameremmo Ai, intelligenza artificiale. Perché, a dispetto dell’ambientazione da favola, la vicenda si svolge in un paesino dell’Ucraina… e sappiamo il carico di dolore e di violenza che oggi il nome di questa nazione si porta dietro ogni volta che viene pronunciato… Nome, quello dell’Ucraina, qui evocato, in scena nel folklore da cartolina. Anche se forse quel paesino al confine con la Galizia (quella dell’Est Europa, non della Spagna…) non esiste più, raso al suolo da droni e missili.
Ce ne sarebbe già abbastanza per fare della favola della bambola che fa innamorare Franz una favola inquieta e sghemba. E d’altra parte è pur sempre un racconto di E. T. Hoffman, quello dello Schiaccianoci, quello dei Contes che hanno ispirato Jacques Offenbach – cosa c’è di più inquietante di una cantante che se canta muore? Antonia… o di una bambola che fa innamorare, perché la storia di Coppelia c’è anche nei Racconti di Offenbach dove la Creatura di Spallanzani e Coppélius si chiama Olympia. Ce ne sarebbe abbastanza per una favola inquieta e sghemba, ma non basta. Perché qui c’è qualcosa che trasforma questa favola inquieta e sghemba in una favola inquietante e nera. Perché nel cuore del balletto, il secondo atto, c’è qualcosa che ti gela, quel soffio che Coppélius “ruba” a Franz, intontito, ubriacato, forse drogato dopo essere stato sorpreso nel suo laboratorio dall’inventore pazzo. Soffio, alito di vita, che Coppelius ruba a Franz per trasfonderlo a Coppélia, per dare vita alla bambola. Desiderio dell’uomo di essere come dio, atto creatore come quello del Dio della Genesi che trasfonde lo spirito, il soffio di vita in una creatura tratta dal fango. Raccontato spesso (vogliamo parlare di Geppetto e Pinocchio?), ma che visto qui, nella nuova Coppélia firmata per il Teatro alla Scala (titolo inaugurale della nuova stagione di balletto) da Alexey Ratmansky, assume contorni inquieti e inquietanti. Ratmansky, nato a Leningrado quando non si chiamava ancora San Pietroburgo e quando la Russia era ancora l’Urss dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Nato in Urss, ma cresciuto a Kiev, in Ucraina. Oggi piombata nell’incubo della guerra – Ratmansky subito dopo l’inizio della guerra ha lasciato la Russia cancellando prime di suoi lavori e all’Aja con i ballerini ucraini rifugiati dellUnited Ukrainian ballet ha allestito Giselle e Wartime Elegy.
E potrebbe essere un incubo quel secondo atto. Immerso nel nero dello studio di Coppélius. Con le bambole, gli autonomi che sembrano i manichini di De Chirico, con tavole scientifiche che ritraggono creature inquietanti. Con la bambola che prende vita. Che è, certo, Swanilda, che si sostituisce all’automa per beffare Coppélius. Che, però, ci crede, crede di essere riuscito a dare concretezza alla sua onnipotenza creatrice. Una Coppélia di luci e ombre, dunque, quella di Ratmansky. Con un’idea drammaturgica che prova ad andare oltre la favola – lo faceva già Rudolf Nureyev (pensiamo al suo Schiaccianoci psicanalitico) senza chiamarla drammaturgia come nella locandina scaligera di Coppélia che riporta il nome del drammaturgo Guillaume Gallienne. E Ratmansky, nella sua rilettura dei classici, in questa Coppélia in particolare, ha lo stesso respiro, la stessa attenzione, la stessa capacità di modernizzare un testo senza tempo di Nureyev. Un linguaggio classico, che guarda alla tradizione, ma che è capace di “sporcarsi” di modernità (senza far apparire questa contaminazione forzata o appiccicaticcia). Antico e moderno si fondono alla perfezione, danno vita ad una nuova scrittura coreografica, che ha i segni inconfondibili di Ratmansky e dei suoi lavori (molti passati anche dalla Scala).
Un racconto serrato, narrativo nel suo flusso ininterrotto di danza. In perfetto appiombo con la musica di Léo Delibes (alcune pagine sono riconoscibilissime… anche per via di pubblicità tv… e c’è un bellissimo Adagio della spiga di grano… il grano ucraino, diventato merce di ricatto durante la guerra, bloccato nei porti lasciando alla fame i paesi poveri). Musica diretta con gusto quasi “viennese” da Paul Connelly. Si balla (e tanto) nella Coppélia di Ratmansky che ha le scene e i costumi di Jérôme Kaplan e le luci di Marco Filibeck. Balla (benissimo) Martina Arduino, Swanilda carismatica scenicamente, precisissima tecnicamente (non ne sbaglia una… come si dice), intensa nel restituire amore e gelosia e Coppélia perfetta nel rendere (anche qui tecnica solidissima) la meccanicità della bambola. Franz è un (tecnicamente molto cresciuto) Marco Agostino, convincente, scanzonato, pulito e sicuro (e padrone della scena) Franz. Massimo Garon si cala con bella intensità interpretativa nei panni (da scienziato pazzo) di Coppélius, figura tragica di un sinistro e inquietante perdente più che di un “cattivo” da tradizione.
Efficace (anche se non sempre precisissimo) il Corpo di ballo di Manuel Legris che schiera le giovani leve della compagnia – i Quattro amici di Franz sono Domenico Di Cristo, Rinaldo Venuti, Frank Aduca e Navrill Turnbull, mentre nella variazioni allegoriche convincono (e raccolgono applausi convinti) Edward Cooper e Darius Gramada – accanto a solisti apprezzati come Vittoria Valerio e Alessandra Vassallo. Danzano le allegorie della vita, danzano le ore del giorno nella festa finale, quando in scena arriva una campana che il borgomastro dona alla chiesa del villaggio. Per annunciare, si spera presto, la pace.
Nella foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Coppélia