L’opera di Verdi ha aperto la nuova stagione del Piermarini Contestato l’allestimento tradizionale del regista spagnolo Grande cast con Meli, Netrebko, Pertusi, Salsi e Garanča
Arrotola uno striscione. La scritta «Free Palestine» fatta con la vernice, nera e pesante come il dolore, la intuisci, anche se il lenzuolo è quasi del tutto riavvolto. Sulla giacca a vento – il termometro a Milano è andato improvvisamente sottozero – ha un fiocchetto rosso, rimasto lì da quando ha agitato un mazzo di chiavi, due sabati fa, in piazza Cairoli, per dire «Basta!» alla violenza sulle donne. Arrotola uno striscione mentre piazza della Scala è ormai vuota, illuminata a giorno dalle luminarie di Natale. Diciotto anni, non di più. Arrotola uno striscione e lo rimette nello zaino, quello di scuola. Lo stesso con cui va spesso in piazza. Insieme a tanti suoi coetanei. A dire un desiderio di giustizia. Una necessità di pace.
L’ha appena detto, in musica, con le note di Giuseppe Verdi – e con le parole del libretto ispirato a Friedrich Schiller, lo stesso dell’Inno alla gioia della Nona di Beethoven, ideale di fratellanza che l’Europa ha (dovrebbe aver) fatto proprio – l’ha appena detto anche Carlo. «Sì, con la voce tua quella gente m’appella. E se morrò per lei la mia morte fia bella», parole (eccessive, certo, come tanti slogan che, però, scaldano il cuore) di un ragazzo che per i suoi ideali sfida il potere (tiranno) del padre, quel Filippo II che la Storia ci consegna come intransigente braccio politico della Controriforma. Una «voce», quella evocata da Carlo, che si è sentita (ancora una volta, chiara, come solo l’arte sa renderla) al Teatro alla Scala che il 7 diecembre ha inaugurato la nuova stagione con il Don Carlo di Giuseppe Verdi, sul podio, ispiratissimo e ben assecondato da orchestra e coro, Riccardo Chailly, regia di una cupezza incombente di Lluís Pasqual. Prima salutata da 13 minuti di applausi con qualche dissenso per Chailly e sonori «buu» all’indirizzo di Pasqual. In palco reale, gettata alle spalle la polemica sui posti a sedere innescata alla vigilia dal sindaco di Milano Beppe Sala, il presidente del Senato Ignazio La Russa e la senatrice a vita Liliana Segre. In piedi, loro e tutto il pubblico, per l’Inno di Mameli salutato dal loggione con «No al fascismo», «Viva l’Italia antifascista» e «Viva la resistenza».
«Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte» canta qualcuno a voce piena, mentre altri fanno un video da postare subito sui social. «Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò». Parole che anticipano, a inizio serata, quelle che dopo quattro ore di spettacolo dirà Carlo. «Sì, con la voce tua quella gente m’appella. E se morrò per lei la mia morte fia bella». La voce di popoli oppressi – nell’opera è quella dei Fiamminghi che chiedono la libertà a Filippo – la voce delle donne vittime degli uomini – Elisabetta, nella scena più drammatica dell’opera subisce una violenza da parte del marito, le mani al collo per aver osato dire di aver amato. Così la Prima della Scala, che anche quest’anno è andata in diretta su Rai1, ancora una volta ha parlato al nostro presente con un’opera del 1884 – sul leggio Chailly ha voluto la versione realizzata da Verdi proprio per Milano. Il giorno dopo l’annuncio dell’Unesco che il canto lirico diventa patrimonio immateriale dell’umanità come ha ricordato il sovrintendente Dominique Meyer in proscenio a inizio serata, ha parlato al nostro presente con Don Carlo, nuova tappa del percorso verdiano di Chailly, un percorso che ha il suo punto di forza nell’assoluta fedeltà alla scrittura (e a tutte le indicazioni) del compositore, che arriva nella sua immediata bellezza. Cupa, certo, perché Don Carlo (che per la quinta volta è in cartellone il 7 dicembre, prima di ieri nel 2008 quello di Daniele Gatti, nel 1992 quello di Riccardo Muti, nel 1977 e nel 1968 quelli di Claudio Abbado) racconta gli abissi dell’uomo, miserie e grandezze che non hanno tempo.
D’altra parte fuori, e per fuori si intende il mondo, non solo piazza Scala dove, come ogni anno, immancabili, manifestano i precari e i pacifisti, fuori il clima è cupo. Perché si combatte. E si muore. In Medioriente. In Ucraina. Si combatte e si muore (nel silenzio di tanti) in angoli remoti del pianeta. Fuori il clima è cupo, ma anche dentro c’è poca luce. Inizia (e prosegue, sino alla fine) cupo il Don Carlo di Chailly, magma di suoni che sembra aprire un buco nero, spalancare la porta degli inferi per un viaggio dantesco negli abissi dell’uomo. Peccato e redenzione nelle vicende di Carlo, Rodrigo, Filippo, Elisabetta ed Eboli, uomini e donne che Chailly racconta nella sua lettura intima e tormentata dell’opera, fatta di colori bruniti, oro e bronzo, di abbandoni malinconici, velluto e seta, di tempi solenni e dal respiro ampissimo, di scatti di tempo che raccontano come in un cardiogramma sonoro i sentimenti dei personaggi.
E tutti gli interpreti fanno propria questa lettura, aderendovi perfettamente con un canto modellato sulla parola, mai esibito, meditato e cesellato. Francesco Meli è un impetuoso Don Carlo, la voce bella di sempre che col tempo acquista colori bruniti e che il tenore genovese dispiega con cura e attenzione, superando con intelligenza musicale le numerose insidie della partitura verdiana. Anna Netrebko una risoluta Elisabetta, personaggio che il soprano russo disegna tutto in crescendo dal primo duetto con Carlo al Non pianger mia compagna, passando per la drammatica scene dal terzo atto con Filippo (Elisabetta tiene magnificamente testa al marito, piegata dalla forza di lui, ma mai sconfitta) e sino al toccante e ben cesellato (e lungamente applaudito a scena aperta) Tu che le vanità: fiati lunghissimi, acuti luminosissimi e infiniti sono i punti di forza di un’interpretazione tutta sulla musica.
Michele Pertusi è un tormentato Filippo II, tormentato anche da qualche malanno… e lo senti, il raffreddamento, sporcare una voce bellissima, pastosa, ricca di colori, ma in perenne lotta nei primi due atti… poi, dopo il secondo intervallo il sovrintendente Meyer torna in proscenio ad annunciare che Pertusi, nonostante il raffreddamento ha deciso «con coraggio» di continuare la recita… e la sua Ella giammai m’amò è stata commovente ed applauditissima, e intenso e tutto modellato sulla parola il duetto con il Grande Inquisitore di un autorevole Jongmin Park (chiamato all’ultimo a sostituire il previsto Ain Anger) e impegnato anche nei panni del Frate.
Luca Salsi è un appassionato e umanissimo Rodrigo, personaggio che il baritono (verdiano per eccellenza) disegna scolpendo il canto sulla parola, facendo diventare ogni nota un respiro di pace e di giustizia; Salsi è deciso, eroico diremmo, nel duetto con Carlo – il suo «Dio che nell’alma infondere» ha prima dentro la primavera e poi la morte, quando lo dice dopo il drammatico confronto con Eboli, deciso a prendere su di sé il peso della rivolta delle Fiandre), fermo e risoluto in quello con Filippo (mai si era sentita così bene la “è” della sua frase iconica «la pace è dei sepolcri» che detta così rende giustizia al testo, mentre detta senza la “è”, «la pace dei sepolcri», ne altera il significato… capacità che hanno gli artisti veri…), toccante nella grande scena della morte, con l’aria sussurrata a mezza voce e il finale «Io morrò… » che ha già dento un raggio di cielo. Elīna Garanča, bellissima e dunque perfettamente in parte, è una voluttuosa Eboli, precisa nella Canzone del velo, ricamata con cura, ma con prudenza. Poi tigre «al cor ferita» nel terzetto con Carlo e Rodrigo, avvincente nel disegno di una donna fiera, poi pentita e decisa a pagare la sua “colpa”, a maledire il «don fatale, don crudele» della sua bellezza. Applauditissima, nella grande scena del terzo atto on cui dispiega tutto il suo colore vocale e il suo temperamento.
Inizia (e prosegue, sino alla fine) cupo il Don Carlo di Pasqual, raccontato come una serie tv in costume, di quelle che fanno record di ascolti, la Storia sullo sfondo, in primo piano gli uomini: lo spettacolo è quasi tutto in proscenio, le arie cantate sempre al centro della scena, quasi monologhi interiori, lunghe confessioni che ci fanno i personaggi, le interazioni tra i personaggi centellinate, le masse schierate sempre in posizione oratoriale. Recitazione asciutta per un Don Carlo nero, illuminato da squarci di luce che ritagliano nella loro solitudine i personaggi, come in quadri di Velasquez (filologici i costumi del Premio Oscar Franca Squarciapino, le luci sono di Pascal Mérat). Un Don Carlo crepuscolare e notturno, intimo e introspettivo. Che si guarda (e ci fa guardare) dentro e non concede nulla alla spettacolarità, nell’allestimento e nella musica.
Tutto è rito. Inizia con una cerimonia funebre il Don Carlo di Chailly e Pasqual, che è un lungo piano sequenza di musica e immagini. Un flusso continuo che inizia e finisce con un abisso di morte. In orchestra una marcia funebre, sul palco un rito che vede i frati prendere scettro e corona dall’urna di Carlo V per incoronare, in fretta e senza clamore, Filippo II. Siamo nel chiostro del convento di San Giusto. E da qui non ci muoviamo per tutto lo spettacolo. Non si muovono i personaggi, fantasmi che popolano questo mausoleo di morti, fantasmi che tronano ad abitare i luoghi che li hanno visti in vita. Soli. Isolati. Rievocano come una condanna la loro stoia. La ripetono all’infinito. Come capita oggi che la Storia si ripete. Uguale. Negli errori e nelle sopraffazioni del potere.
Il racconto verdiano è circolare, inizia e finisce lì, così Pasqual ambienta tutta l’opera nello stesso luogo (lo disegna Daniel Bianco), un’imponente torre di alabastro (abbracciata da scale sulle quali sta il coro, sempre schierato in assetto da concerto, in uno schema che ricorda, pur nella sua stilizzazione l’impianto scenico di Franco Zeffirelli per il Don Carlo del 1992) che si apre e si chiude mostrando i vari luoghi dell’azione, sempre ecclesiali: nello studio di Filippo i sedili sono quelli di un coro ligneo, la scena dell’autodafé è tutta davanti ad un retablo d’oro sul quale, come icone di una grande pala d’altare, sono incastonati Filippo ed Elisabetta – e qui, mentre divampa il rogo degli eretici, Pasqual fa accendere le luci in sala, per tirarci dentro la “parata” in cui il potere politico e religioso mostra la sua grandezza.
Perché il regista spagnolo vuole fare un Don Carlo anticlericale, ma di zampate vere, di graffi che lasciano il segno in questo senso non ce ne sono. Anche perché basta Verdi, Don Carlo è già “anticlericale”, cosa c’è di più forte se non la frase di Filippo «Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare»? Serve altro? Anticlericale, Verdi, certo non ateo e nemmeno non credente. Uomo di fede. Che significa speranza. Verdi lo dice nel finale inaspettato dell’opera (il nero è illuminato da quella lama di luce che è il grido di Elisabetta, acuto, lunghissimo, «Oh ciel») dove Pasqaul, come da libretto, fa “rapire” Carlo dal nonno Carlo V (qui sprofonda negli abissi con la sua statua mentre lui canta, lui che ha scelto di ritirarsi in convento fingendosi morto – ed ecco il tema dei grandi vecchi che sanno farsi da parte per lasciare spazio ai giovani, cosa oggi rara…), Carlo V che come il Commendatore del Don Giovanni viene a prendere il nipote, ma non per portarlo all’inferno – lo ha già vissuto sulla terra, l’inferno di un amore non vissuto o di un ideale politico soffocato – ma in quel «mondo migliore» che Carlo ha provato a costruire. Con Rodrigo, con Elisabetta, giovani in balia dei sentimenti, ma anche mossi da grandi ideali, per i quali sono disposti a scendere in piazza – e non per nulla l’opera si ispira alla tragedia di Schiller, manifesto dello sturm un drang.
Lo stesso «mondo migliore» che sogna quel ragazzo che, su una piazza della Scala ormai deserta arrotola il suo striscione. Lo mette nello zaino, quello di scuola, oggi pieno di ideali.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Don Carlo
Articolo pubblicato in gran parte su Avvenire dell’8 dicembre 2023