Al Donizetti prima assoluta di Raffa in the sky di Curtoni progetto ideato e diretto dal regista Francesco Micheli nell’ambito di Bergamo Brescia Capitale della Cultura
È un’operazione furba, certo discutibile (e forse era proprio nelle intenzioni di chi l’ha messa in campo… provocare, vocare prima, far parlare affinché ci sia eco…) e divisiva – e la città di Bergamo si è già ampiamente pronunciata e schierata a suo tempo, quando il progetto è stato annunciato, sull’opportunità di commissionare un’opera nuova per Bergamo Brescia Capitale italiana della Cultura 2023 dedicata a Raffaella Carrà, che con Bergamo non ha legami particolari o conclamati, come potrebbero averne, che ne so, Gaetano Donizetti o Caravaggio o Gianandrea Gavazzeni o Ermanno Olmi o Pierbattista Pizzaballa o Vittorio Feltri… per dire… e perché no un’opera su di loro. Ma questo è un argomento che i promotori smonterebbero (e hanno provato a farlo) facilmente perché la Cultura non ha cittadinanza… è universale, direbbero. Dunque ben venga (ma davvero?) Raffaella nazionale. Operazione certo discutibile e divisiva, ma pur sempre un’operazione furba, molto furba (da vedere poi se davvero è così alla fine dei conti) Raffa in the sky, «fantaopera in due atti», questa la definizione scritta in partitura, di Lamberto Curtoni, andata in scena in prima assoluta al Teatro Donizetti di Bergamo il 29 settembre (giorno del primo compleanno di Berlusconi, primo dell’era post Silvio, personaggio a suo modo pop, sul quale, ci sarebbe materiale per un’opera lirica… ma questa è un’altra storia). “Evento”, perché ormai tutto è evento, orobico di punta (e gli altri di che tenore saranno…? viene da chiedersi visto lo spessore culturale di questo) questo Raffa in the sky delle celebrazioni di Bergamo Brescia Capitale italiana della Cultura 2023 – e tutto fatto con fondi privati (almeno questo!), mecenati che hanno messo a disposizione il denaro utile alla produzione.
Operazione furba e perfettamente in sintonia con la linea presa da qualche anno dal Donizetti opera – come vogliamo definirla? queer? lgbtq+? gayfriendly? con la rassegna dedicata al compositore di Lucia, Bolena, Elisir e Don Pasquale che si colora di spettacoli decisamente camp e contorno (che tanto piace al direttore artistico) fatto di Citofonare Donizetti affidato a Diego Passoni e Cristina Bugatty. Il Donizetti opera organizzato dalla Fondazione Teatro Donizetti, la stessa che ha commissionato Raffa in the sky (ma nel consiglio non sono mancati mal di pancia, storture di naso e prese di distanza dall’operazione) e di cui è direttore artistico Francesco Micheli. Che compare in locandina (e anche sulla prima pagina del programma di sala) come ispiratore del progetto. Perché si legge: «Raffa in the sky. Musica Lamberto Curtoni. Libretto Renata Ciaravino e Alberto Mattioli. Da un’idea di Francesco Micheli» – certo su un programma di sala di un Rigoletto qualsiasi, o di una Lucia di Lammermoor per rimanere in ambito bergamasco e donizettiano, a nessuno verrebbe in mente di scrivere chi ha dato a Verdi (o a Donizetti) l’idea per la sua opera… ma questo è un peccato veniale. Operazione furba. Perché per provare a fare una nuova opera prende canzonette popolari e le frulla insieme a una serie di citazioni colte, con il risultato di una cosa che sembra opera contemporanea, ma in realtà è un frullato che si beve facilmente… operazione furba perché l’opera contemporanea, si sa, è ostica, spesso non “comunica”, ma si parla addosso. Non tutta, intendiamoci, perché ci sono autori che scrivono magnificamente, che sanno raccontare, vogliamo parlare di un George Benjamin? perché no, andando agli opposti, di un György Kurtág? Certo, uno prende come soggetto Marlowe, l’altro Samuel Beckett… soggetti “alti”.
Invece Raffa in the sky – che già nel titolo santifica, elevandola agli onori degli altari, la soubrette romagnola – prende un’icona della cultura pop italiana, Raffaella Carrà, e la fa diventare protagonista di una fantaopera – certo, dirà, qualcuno, una volta erano le Valois, le Bolene, le Stuarde… persino le Duplessy a ispirare i librettisti… ma questa non è obiezione valida sembrano dire gli ideatori del progetto Raffa in the sky perché a loro modo le Valois, le Bolene, le Stuarde e persino le Duplessy erano icone pop che, se ci fossero state le Canzonisime e i Pronto Raffaella, forse ci sarebbero finite dentro. Sarà vero? Icone pop come è stata (ed è, ora e sempre) la Carrà (nata Pelloni). Icona pop sviscerata a lungo in saggi, talk, dibattiti, prima e dopo la sua morte, avvenuta il 5 luglio del 2021. Icona gay. Indiscutibilmente, per sua stessa ammissione e “missione”. Dunque perfetta per un’opera lirica, mondo che da sempre attira il popolo queer, quello che «adoooro il melodramma» e che peregrina per festival (meglio se estivi e a due passi dal mare… ma non si va troppo per il sottile, tutto va bene) come se stesse visitando santuari, ognuno con il suo protettore. Ma allora Raffa in the sky può portare all’opera un pubblico nuovo o il suo target di riferimento è lo stesso di quello che già ama e frequenta la lirica? A guardare il pubblico della prima diresti la seconda – Teatro Donizetti pieno, ma non pienissimo – festante e caloroso (tanti, tantissimi i volti della musica e della cultura milanese in platea), scalpitante nel voler intonare le hit (pur riarrangiate e riorchestrate) della soubrette, accontentato nel finale con un bis cantato a squarciagola di Ballo ballo.
Spiazzato, forse sulle prime, ma poi sempre più coinvolto (gli applausi a scena aperta arrivano nel corso della serata e si sciolgono nelle ovazioni finali), spiazzato questo pubblico di devoti della Carrà (tante le parrucche bionde in platea e nei palchi, trenta di queste regalate ad altrettante signore dal teatro… uno di quegli eventi collaterali che tanto piacciono a Micheli…) spiazzato, ma poi conquistato, questo pubblico nel trovarsi di fronte non a uno spettacolo con le più famose canzonette della Carrà – come può essere un Mamma mia confezionato con i successi senza tempo degli Abba o un We will rock you che si inventa una storia sulle hit più popolari dei Queen –, ma ad una partitura che prende testi e musiche dei vari Malgioglio, Boncompagni, Bracardi, Olmi, Castellano, Pipolo… e li rielabora, li riarrangia, li reinventa (A far l’amore comincia tu suona alla De André, Tanti auguri ha in sottofondo archi mahleriani), inserendoli in un’architettura più ampia, una partitura in un’unica campata sonora – quasi wagneriana nel flusso musicale, nel ritorno dei temi, nella concezione di teatro totale – ma fatta tutta di citazioni.
Non c’è nulla di nuovo, tutto è già stato detto, tutto è citazione, tutto è virgolettato, fatto “alla maniera di…”, manierismo di una società (e di un mondo della lirica a guardare certi sottogruppi che lo popolano) che ama ripetere all’infinito le stesse citazioni, le stesse formule, gli stessi schemi… per essere rassicurata o perché veramente tutto è già stato detto – “malattia” anche dell’opera contemporanea che per provare a dire qualcosa di nuovo imbocca la strada del “famolo strano”. E così capita che qui… famolo strano, famo un’opera su Raffaella. E così Curtoni, violoncellista e compositore piacentino, classe 1987, apprezzato per i suoi lavori comunicativi e pregnanti (nel solco del mastro Giovanni Sollima) confeziona con grande abilità e mestiere di orchestratore e arrangiatore quello che definiremmo un “centone”, un patchwork coloratissimo fatto di frammenti melodici più disparati, da Monteverdi a Bach, da Cajkovskij (quanto Lago dei cigni! insieme a una citazione dalla Giselle di Adam) a Puccini (tanto Puccini!!), da Weill a John Williams. C’è il Rota di Federico Fellini (Raffaella d’altra parte era di Bellaria…) nella Sinfonia, c’è il contrappunto e la lezione di Bach nel concertato che chiude il primo atto, c’è il recitar cantando di Monteverdi nelle scene dell’Arkadia con la k (la storia narra di questo pianeta dell’arte dove regna Apollo XI che decide di mandare sulla terra uno spirito che trasmetta al mondo bellezza e felicità, Raffaella Carrà, che si chiama come il Sanzio, ma anche come il pittore futurista e metafisico), c’è il Rossini vorticoso in tanti numeri di insieme, ci sono il Mozart d’impeto (citato anche con un frammento del «Mi tradì» dal Don Giovanni per Carmela Remigio, Donna Elvira di lungo corso) e c’è il Donizetti malinconico (anche qui, citazione d’amore verso il padrone di casa, con un frammento del Regnava nel silenzio della Lucia in apertura di partitura in forma di ninna nanna che una nonna canta alla nipotina che culla mentre scoppiano le bombe… la stoia inizia nel 1943, anno di nascita della Carrà) nelle arie.
Sinfonie, arie, concertati… tutti elementi dell’opera. Perché Raffa in the sky si propone come opera – certo fantaopera perché la trama è di quelle di fantasia che mischiano dei e uomini, come nel Barocco, tanto che il riferimento è più questo rispetto al melodramma ottocentesco – e d’altra parte cos’era il personaggio Raffaella Carrà se non una macchina barocca della meraviglia in tutto ciò che faceva e in tutto ciò che era (i costumi di Luca Sabatelli, di Corrado Colabucci, di Graziella Pera). Opera, ma nella sostanza musical – e l’accezione non è negativa… West side story è un magnifico musical di Bernstein che ha tutte le componenti (sinfonia, arie, cori, concertati…) di un melodramma. Atmosfere da musical (ma anche un po’ da varietà alla Carramba) nella trama di Raffa in the sky (c’è il cattivo, ci sono i buoni, c’è il fragile che vuole andare via da questa vita vuota…) e nella morale: «Non ho imparato quale sia la vera Bellezza, ma so che nulla è profondo, di fronte alla fine, come la Leggerezza» quella che Renata Ciaravino e Alberto Mattioli mettono a suggello (la musica qui si spegne in un silenzio che resta sospeso…) del loro lavoro di librettisti, lei drammaturga (a lungo con Atir di Serena Sinigaglia), scrittrice e autrice tv, lui giornalista e scrittore dalla penna sempre puntuta nel raccontare, anche con spirito dissacratorio, il mondo della lirica. Che è poi la cifra di questo Raffa in the sky, libretto in versi con rime baciate (come lo erano d’altra parte i testi delle canzoni di Raffaella «Se sei dei gemelli tre giorni belli, stasera esci se sei dei pesci… Maga Maghella, Maga Magà») tipo «Ormai Vito non mi tocca più/guarda solo la tivù, quella privata ove non sono mai tristi/con il seno in bellavista e i consigli per gli acquisti». Semplici – ma c’è del genio nel rimpastare una canzone come Ma che musica! mettendo in bocca a un’ostetrica che sta facendo nascere un bambino (la mamma sul lettino, con le gambe aperte) la frase «ha trovato la via giusta…».
Bambino che si chiama (ci avresti scommesso!) Luca, come il Luca che «eri un ragazzo dai capelli d’oro e ti volevo un bene da morire… ma un pomeriggio dalla mia finestra ti vidi insieme ad un ragazzo biondo… Luca, Luca, Luca cosa ti è successo, Luca, Luca, con chi sei adesso, Luca, Luca, non lo saprò mai…». Ed è figlio di Vito e Carmela, immigrati al Nord, operai negli anni Sessanta e Settanta, la cui vita si intreccia a quella della Carrà, al peccaminoso Tuca Tuca (che Vito balla in sogno con le stesse movenze di Alberto Sordi nel 1970 a Canzonissima), al «Quanti fagioli ci sono nel vaso?» di Pronto Raffaella, alla parabola spagnola e alle carrambate di Carramba che sorpresa, espediente che porta al lieto fine (Vito e Carmela si erano separati e lui non accettava la diversità del figlio Luca) e prelude alla scelta di Raffa di lasciare Arkadia e l’immortalità per restare tra gli uomini, profetessa di Leggerezza con il suo corpo (passaggio che ha scatenato le ire del fan club di Raffaella che ha preso le distanze dall’operazione scomodando addirittura termini liturgici: «Il prodotto lirico – così lo chiamano, non senza una punta di disprezzo – è blasfemo in quanto lesivo della memoria di Raffaella. Non possiamo accettare sia rappresentata e presentata agli occhi soprattutto di chi la conosce poco come una prostituta aliena che trova se stessa sulla terra in veste di soggetto/oggetto sessuale in modo cheap e volgare».
Parole forti che in qualche modo riasusmono la trama della fantaopera – togliamo, però, il termine prostituta. In quanto si racconta di questo essere alieno con una ricetrasmittente nell’ombelico, mandato sulla terra da Apollo XI che poi si ribella al suo padrone resta con l’umanità (come faceva don Silvestro ribellandosi a dio di fronte al secondo diluvio universale nell’immortale Aggiungi un posto a tavola di Garinei e Giovannini). Qui Raffaella resta con gli uomini per trasmettere loro la Leggerezza. Cifra che Micheli, che firma la regia di Raffa in the sky, mette nel suo spettacolo. Un varietà del sabato sera anni Sessanta/Settanta, ambientato in uno studio tv fatto di tende di lustrini (le scene sono di Edoardo Sanchi, le luci di Alessandro Andreoli, le coreografie, per i danzatori della Fattoria Vittadini, sono di Mattia Agatiello) che diventa il luogo dove prendono forma le vite parallele di Raffaella e di Vito, Carmela e Luca. In alto, su una struttura metallica (moderno deus ex machina che reinventa la meraviglia barocca) l’Arkadia di Apollo XI, di Fidelius e del coro degli spiriti beati (bravissime, intonatissime le voci bianche dei Piccoli musici di Casazza preparati da Mario Mora), tutti con caschetto biondo… vestiti baroccheggianti per loro, li disegna Alessio Rosati, filologico nel seguire la parabola temporale di Vito e Carmela, libero nel reinventare i costumi di Raffaella, non facendone una copia.
Perché Raffa in the sky non è una biografia in musica della soubrette romagnola, ma una «fantasia», una «variazione su un tema di…». Linguisticamente accattivante (bello come i testi delle canzoni della Carrà si accordano a sentimenti e situazioni del racconto), narrativamente più sempliciotta e a tratti banale (volutamente? per essere in sintonia con versi immortali come «il mio corpo è una moquette dove tu ti addormenterai», «Liebe liebe liebe lai… è un disastro se te nevai…», «Pazza, pazza, pazza su una terrazza…»). Musicalmente piacevole (anche per il gioco del trova la citazione…), senza dubbio, ma con poco materiale “originale” (quello che c’è è abbastanza elementare nella scrittura) e tante citazioni (è vero, anche Rossini si autocitava continuamente e quanti tra Sette e Ottocento hanno fatto fortuna rimaneggiando musiche di altri…) per quanto ben cucite insieme. A restituire la partitura (un lavoro importante, di due ore di musica, pubblicato da Casa musicale Sonzogno-Edizioni Curci) un ensemble musicale che vede insieme in buca l’orchestra del Donizetti opera e i Sentieri Selvaggi di Carlo Boccadoro, specialisti nella musica contemporanea. E sul podio c’è proprio Boccadoro che tiene benissimo le fila del discorso musicale, muovendosi con disinvoltura tra Claudio Monteverdi e Cristiano Malgioglio.
Raffaella, che in partitura è indicata come «Attrice cantante pop» (e infatti è l’unica che canta microfonata) è Chiara Dello Iacovo, cantautrice pop e non cantante lirica, misuratissima nel canto, grintosa in scena nel disegnare un personaggio che non è un clone della Carrà, ma che solo con il passare del tempo assume pose e gestualità della soubrette. Lirico, di specialisti, il resto della locandina. A partire da Carmela Remigio (di casa a Bergamo e al Donizetti) che con la sua grinta e la sua voce sempre appropriata e ad hoc per ciò che canta è Carmela. Haris Andrianos è suo marito, Vito. Luca, il figlio, nella migliore tradizione barocca (ma anche in quella indeterminazione di genere che certo barocco cavalca) è Gaia Petrone, che ben si cala anche nei panni della Nonna e dell’Ostetrica. Più ruoli anche per Dave Monaco, bella voce di tenore di grazia, perfetta per il recitar cantando monteverdiano, ma anche per le incursioni pop (la carriera del musicista è partita da Sanremo giovani), mentre Roberto Lorenzi, sul modello offenbachiano del Lindorf (e Coppelius, Dappertutto e Miracle) dei Contes d’Hoffmann, è Fidelius e tutti gli atri cattivi della storia – star di Hollywood, Grande censore e Impresario della tv.
Star di questo Raffa in the sky. Che ti lascia dentro, non senza «un pizzico di nostalgia», la voglia di cantare le canzoni della Carrà. Quelle che per «magia e mi sento ancora a casa mia. Sensazione unica… sensazione magica…». Quella che l’opera ti sa trasmettere (o dovrebbe saperti trasmettere). Sempre.
Nelle foto @Gianfranco Rota Raffa in the sky al Donizetti di Bergamo