A Verona Antonio Albanese porta Verdi negli anni ’50 Protagonista Luca Salsi, Florez nei panni del Duca
Sembra di vederle le mondine di una volta, quelle di Riso amaro con il volto, il cappello di paglia calato sulla testa e le gambe lunghissime, fasciate in calze di lana pesante, di Silvana Mangano. Piegate sulle risaie. Poi accovacciate sui loro giacigli fatti di fieno. Nelle notti calde e umide della pianura. Una accanto all’altra dopo ore sotto il sole, con i piedi a mollo nell’acqua infestata di sanguisughe, a “mondare” il riso. Possibile e appetibile “preda” del padrone delle risaie o dei capo squadra che dormono lì con loro e vorrebbero rubare qualche momento d’amore mentre i grilli e le cicale fanno sentire la loro voce. Sembra di vederle le mondine di una volta sul palco dell’Arena di Verona, ballano, mentre la banda suona, sull’aia della casa colonica che domina il palcoscenico nel Rigoletto di Giuseppe Verdi reinventato, con assoluto rispetto di libretto e musica (diciamolo subito), da Antonio Albanese. Attore tragicomico per la feroce ironia che mette sempre nei suoi ritratti umani, specchio deformato (ma a volte nemmeno troppo) della realtà – Epifanio, Alex Drastico, Frengo, Cetto La Qualunque. Attore tragicomico, ma anche regista cinematografico (con una sconfinata cultura – quanti i riferimenti al nostro cinema neorealista in questo Rigoletto…!) e regista di lirica, avventura partita nel 2009 dal Teatro alla Scala con Le convenienze ed inconvenienze teatrali di Donizetti e ora approdata all’Arena di Verona.
Dove Abanese realizza un nuovo Rigoletto, fatto di ritratti umani riconoscibilissimi nella storia più o meno recente dell’Italia – più o meno della metà del secolo scorso, ma ben vivi nell’immaginario grazie a cinema e letteratura. Rigoletto dal taglio inconfondibilmente cinematografico – e il comico di Olginate ce lo dice chiaro subito, sulle note del preludio, quando su uno schermo di un cinema all’aperto improvvisato sull’aia della casa colonica dove si svolge la vicenda, appaiono i volti iconici di Anna Magnani e della piccola Tina Apicella in Bellissima di Luchino Visconti. Gancio drammaturgico, il cinema del primo Visconti, con quello che vedremo (o non vedremo perché avviene oltre la scena) e che forse ci racconta i sogni di Gilda e di quella madre che «Moria, moria, le zolle coprano lievi quel capo amato»… ma sarà vero? non sarà un’invenzione del padre padrone – ancora il cinema – Rigoletto? che potrebbe aver sottratto la figlia alla donna che l’ha partorita (di lei noi e Gilda non sappiamo nulla, nemmeno il nome, solo, come racconta Rigoletto che «moria»)? Rigoletto che ora la tiene segregata con un senso di possesso misto a paura… «potrien seguirla, rapirla ancora…» canta a un certo punto. E chi potrebbe rapirla, quella madre a cui è stata sottratta? e che forse sognava, come la Maddalena della Magnani, un futuro nello spettacolo per la figlia?
Pensieri (sparsi e che meriterebbero un approfondimento di quelli da dramaturg) che si intrecciano al racconto che Albanese fa di Rigoletto, secondo (e ultimo) nuovo allestimento, dopo l’inaugurale Aida firmata da Stefano Poda, della stagione numero cento dell’Arena. Rigoletto che è una storia di abusi. Abuso di potere del Duca – e sappiamo che lo scopo di certe sue “relazioni pericolose” non è certo un interesse politico, ma un basso desiderio (da soddisfare) sessuale. Abuso di affetto di Rigoletto che scambia l’oppressione (e la segregazione) per amore. Abuso. Sfruttamento… per i porri interessi, che tutti mettono in atto. I cortigiani, Sparafucile, Maddalena… persino Giovanna, personaggio davvero bieco, dice due frasi, ma che bastano a delinearne il carattere da approfittatrice e serva del potere, «perché ciò dirgli? L’odiate dunque cotesto giovin voi?» dice spingendo Gilda a mentire, «e magnanimo sembra e gran signore» si sfrega le mani pregustando il prezzo della suo tradimento da mezzana… Tipi umani, come quelli usciti dalla mente di Albanese. Che il regista tratteggia bene, calandoli, nell’Italia di provincia degli anni Cinquanta.
Contesto, ricostruito filologicamente sul palcoscenico veronese (persino nel rumore che accompagna tutto lo spettacolo, con il rischio di interferire con la musica, che evoca i grilli e le cicale delle risaie e dei campi). Dove questi tipi umani ci stanno davvero bene. Perché l’abuso di potere non ha tempo, è trasversale a tutte le epoche, funziona bene nel Cinquecento immaginario del libretto di Francesco Maria Piave (che si ispira a Victor Hugo e al suo Le roi s’amuse, ma si inventa un Duca di Mantova inesistente per aggirare la censura) come tra le mondine di metà Novecento, preda di proprietari terrieri (Duchi di Mantova del secolo scorso) che approfittano delle operaie. Ed ecco la tesi, l’idea (semplice) di drammaturgia dello spettacolo. Che è poi uno spettacolo, un Rigoletto, quello di Albanese, che più tradizionale non si può. Perché, al di là dell’estetica anni Cinquanta di scene e costumi – le prime, bellissime, che potrebbero stare in un teatro di posa di Cinecittà, sono di Juan Guillermo Nova, gli abiti, in stile impeccabile, li disegna Valeria Donata Bettella – al di là dell’estetica anni Cinquanta di scene e costumi i movimenti che Albanese chiede a solisti e coro sono quelli di tutti i Rigoletti in calzamaglia: i movimenti, la disposizione sul palco, le interazioni tra i personaggi. Così – per dirne una – il Cortigiani ha la stessa costruzione di tutti i Cortigiani da manuale, con Rigoletto di spalle che vuole entrare nella stanza del Duca respinto però dai cortigiani che lo prendono per le braccia, lui che cade a terra, i cortigiani che sul «miei signori perdono, pietade…» si voltano e danno le spalle al gobbo in ginocchio…
Scelta? O forse contingenza, dato che per le quattro repliche in cartellone del nuovo allestimento (ma sicuramente resterà in repertorio anche nelle prossime stagioni, ideale per il palco dell’Arena, capace di coniugare spettacolarità e funzionalità grazie al girevole sul quale sono montate le scene, meccanismo che ogni volta strappa l’applauso… a scena aperta) per le quattro repliche in programma ci sono in campo quattro Rigoletti diversi (Roman Burdenko, Ludovic Tezier, Luca Salsi e Amartuvshin Enkhbat), tre Gilde (Rosa Feola, Giulia Mazzola e Nadine Sierra) e tre Duchi (Yusif Eyvazov, Juan Diego Florez e Piotr Beczala)… Tanti interpreti che dunque (con una manciata di prove) portano nel Rigoletto di Albanese il “loro” personaggio.
Con qualche eccezione, naturalmente. Perché Luca Salsi fa, cero, il “suo” Rigoletto che è, però, ogni volta nuovo. Ripensato (e naturalmente ristudiato al pianoforte) da capo. Ricreato sulla musica. E ogni volta sorprendente. Perché il baritono parmense va al cuore del racconto, scava nella musica e ne trae il nocciolo, l’essenza più autentica con il suo canto e la sua interpretazione. Asciutta, tutta per sottrazione. Non c’è nulla di esibito, niente di platealmente fine a se stesso nel gobbo disegnato da Salsi. A partire dal canto. Fedelissimo alla scrittura verdiana, nessuna puntatura, nessuna salita all’acuto dove non scritto, un «è follia» tutto in pianissimo… emozionante. E ci sta anche, perché siamo pur sempre in Arena dove un tempo, quando c’erano i romani, si combatteva e dove oggi il pubblico vuole anche questo (un po’ di circo), ci sta che in una interpretazione tutta sul testo musicale arrivi il la bemolle della Vendetta (e Gilda fa, meno bene di Salsi, però, il suo mi bemolle) lanciato con grande facilità (come a dire, canto le note scritte da Verdi, senza acuti, ma se volete l’acuto ce l’ho… eccome se ce l’ho) prima di bissare da capo l’intera Vendetta – e poco prima c’era già chi chiedeva a Salsi il bis del Cortigiani. Un canto che restituisce le asprezze e le ruvidezze del personaggio, ma anche le fragilità e le inaspettate dolcezze di un padre padrone che quasi nemmeno alla fine si accorge di aver “manipolato” il destino, dando la colpa alla «maledizione». Tutta per sottrazione anche l’interpretazione di Salsi, fatta di piccoli gesti, movimenti essenziali, calibratissimi e misuratissimi. Intrisi di una loro nobiltà.
Che è anche la cifra che Juan Diego Florez usa per disegnare il suo Duca di Mantova. Nobile. E dunque ancora più viscido e subdolo nella sua conquista compulsiva. La voce di Florez (anche se all’inizio sembra un po’ piccola – ma in Arena l’orecchio deve sempre abituarsi, dunque i primi dieci minuti dell’opera sono necessari per un assestamento sonoro) corre (certo, non ha il peso specifico, la rotondità di quella di Salsi, ma arriva e bene). Il suo canto è sempre luminoso, poggia sulle fondamenta del belcanto. Ma è, allo stesso tempo, verdiano nella verità del racconto. Come vera, seppur non sempre musicalissima e a fuoco nel canto e a suo agio nella scrittura verdiana, arriva la Gilda di Giulia Mazzola, personaggio che rischia di sparire tra i giganti Salsi e Florez.
Cosa che non succede a Gianluca Buratto, Sparafucile di lusso (e ormai di lungo corso… una garanzia), voce timbratissima, avvolgente, mai solo cupa e oscura, ma pastosa e initida (da brivido, per tecnica, resa e peso interpretativo la nota tenuta alla fine del duetto del primo atto con Rigoletto) per disegnare un uomo che incarna il male e la sua essenza più inquietante. Valeria Giardiello ha voce e presenza scenica che ben tratteggiano Maddalena – costretta a interrompere il suo canto perché sulle note che Verdi affida al coro fuori scena per evocare il temporale, incombe un vero temporale che fa scappare qualche goccia e impone uno stop allo spettacolo che poi riprende e corre dritto verso il drammatico e rarefatto finale… «lassù in cielo vicino alla madre… in eterno per voi pregherò» canta Gilda convinta che la madre davvero sia morta…
Corre dritto lo spettacolo, tenuto saldamente in carreggiata dalla bacchetta esperta di Marco Armiliato che, se in Aida non aveva convinto fino in fondo, qui offre una lettura appassionata e verdiana (grazie all’ottima prova dell’orchestra dell’Arena e del coro di Roberto Gabbiani), intensa e serrata nel racconto, pur non rinunciano a tempi comodi, ma sempre drammaturgicamente motivati. Li sostiene bene la compagnia di canto dove si fanno notare Riccardo Rados, presenza costante nelle recenti stagioni arenane, voce di tenore bella, piena, dallo squillo sicuro e dal colore screziato che affascina (qui è Matteo Borsa), e Nicolò Ceriani, comprimario “di lusso” per Marullo. Agostina Smimmero è Giovanna (il personaggio che in due battute riesce a farsi odiare) e poi ci sono Gianfranco Montresor (Monterone), Roberto Accursio (Conte di Ceprano), Francesca Maionchi (Contessa di Ceprano) Giorgi Manoshvili (Usciere) ed Elisabetta Zizzo (Paggio).
Nomi cinquecenteschi che, però, calzano bene ai tipi umani dell’Italia anni Cinquanta che Albanese racconta nel suo Rigoletto. Un’Italia catturata, in un’istantanea dal vivo, dal cinema di Visconti, De Sica, Rossellini, Germi, Blasetti… E raccontata già un secolo prima (perché Rigoletto è del 1851) e con una storia invemntata del Cinquecento da Verdi.
Nelle foto @Ennevi Rigoletto all’Arena di Verona