L’opera di Antonín Dvorák per la prima volta alla Scala diretta da Tomáš Hanus con l’ucraina Olga Bezsmertna Spettacolo tra fiaba, musical e tragedia di Emma Dante
Non è la Sirenetta – che tanto va di moda oggi grazie al remake con attori in carne ed ossa (si dice live action) del celeberrimo cartone Walt Disney, mai andato fuori moda, peraltro, perché alzi la mano chi non ha mai canticchiato In fondo al mar con il granchio Sebastian. Non è La Sirenetta però le assomiglia tanto la Rusalka di Antonín Dvorák – e non solo perché il libretto di Jaroslav Kvapil si ispira alla fiaba di Andersen e a Undine di La Motte Foqué. Assomiglia alla Sirenetta, in particolare, la Rusalka in scena per la prima volta al Teatro alla Scala (incredibile che il titolo del 1901 del compositore ceco non si sia mai ascoltato al Piermarini!) con la firma di Emma Dante, firma inconfondibile e più autentica, perché questa cifra, nera e inquietante, ma anche favolistica e surreale, è alle origini del fare teatro della regista palermitana. Che torna alla Scala dopo quattordici anni. Emma Dante non c’era mai più stata (almeno in locandina) dopo il 7 dicembre 2009, quando firmava la sua prima regia lirica, Carmen (teatro diviso tra fischi e ovazioni, tra chi gridava allo scandalo e chi parlava di svolta epocale come per la Traviata Callas/Visconti). In mezzo una carriera fatta di capolavori lirici – uno su tutti le Carmelitane di Poulenc che hanno inaugurato a novembre la stagione del Teatro dell’Opera di Roma, lo spettacolo indiscutibilmente più bello del 2022 (e non solo) nonostante i Premi Abbiati lo abbiano completamente ignorato – ma anche di allestimenti meno riusciti (ma ci sta). Fatta di tanta prosa e di cinema e di romanzi, tutti con il suo stile. Prendere o lasciare.
Per il suo ritorno al Piermarini Emma Dante ha scelto di raccontare la storia di un’altra donna, Rusalka, la ninfa delle acque che ama un umano e rinuncia alla sua condizione per amore, salvo poi uscirne perdente (ma è davvero così?) perché l’uomo (guarda caso un Principe, siamo pur sempre in una favola) che lei amava l’ha tradita con un’altra (una Principessa, anche se connotata da un aggettivo scomodo e irrequieto, “straniera”) condannandola in un limbo dove non è più creatura evanescente del mare, ma nemmeno donna concreta della terra mentre il suo principe, pentito, sarà condannato a morire dopo un bacio. Storia cruda e crudele. Ma con una morale forte. Quasi granitica. Come tutte quelle delle fiabe. Ce lo hanno insegnato le Fiabe sonore di quando eravamo piccoli, i 45 giri che infilavamo nel mangiadischi e che, lusingandoci con il fatto che «A mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar… venite con me, nel mio mondo fatato per sognare…», ci avvertivano che «non serve l’ombrello, il cappottino rosso, la cartella bella per venir con me…» catturandoci (e forse rapendoci) come un pifferaio magico che porta i bambini in un altrove dove ci sono principesse inquietanti, morti, chiavi che aprono porte segrete… Un mondo che tanto assomiglia alla realtà, ma che la deforma con la lente del sogno (o dell’incubo).
La stessa realtà, filtrata e deformata, che Emma Dante (che ha fatto tanto teatro per bambini e, dunque, raccontato fiabe… sempre con il suo stile) sceglie per la sua Rusalka. Che vive in un mondo diroccato. Postbellico. Una sorta di Atlantide sommersa dalle acque, dominata dall’abside di una chiesa gotica: navate e archi a sesto acuto e colonne sottili colonizzate dal muschio, un altare in marmo intarsiato, un’acquasantiera… il luogo del rito, della liturgia. Perché la fiaba è (anche) rito, liturgia da celebrare nel racconto di una storia che ogni volta finisce e ogni volta rincomincia. Uguale a se stessa. Ma ogni volta nuova. Vera per chi la ascolta (la vive e la invera nel qui ed ora). Vera per noi che ascoltiamo la storia di Rusalka che Emma Dante non vuole sirenetta, ma donna tentacolare. Niente gambe per la ragazza che entra in scena su una carrozzina a rotelle (lussuosa, legno e velluto), come una poliomielitica dell’Ottocento (e l’iconografia è quella inquietante dei libri delle Fiabe sonore, gotica e sinistra), pallida – così la apostrofa il padre Vodník «povera, pallida Rusalka» – in un abito rosa che la rende un po’ polipo e un po’ medusa. Non cammina, perché non ha gambe, ma tentacoli. Fluttua e canta la sua bella e struggente Canzone alla luna (non la vediamo, però, la dea d’argento, vediamo piuttosto i suoi raggi filtrati dal rosone sbeccato della chiesa) in riva a una pozzanghera, residuo di un’alluvione che sta al centro della scena, nello squarcio del pavimento. Dentro ci sguazzano tre ninfe in abiti rossi e svolazzanti, ma anche sincronette (costume intero, cuffia, occhialini e movimenti delle gambe in sincro, come alle Olimpiadi) che sono le aiutanti della strega Ježibaba. Che tanto assomiglia (sarà anche per il costume di Vanessa Sannino) alla Ursula del cartone Disney – e Vodník più che a Tritone assomiglia a Sebastian, anche lui creatura del mare con tentacoli (che possono essere anche chele) al posto delle mani.
E un po’ musical è la Rusalka di Emma Dante – le coreografie le firma Sandro Maria Campagna. Nel mix di pop e classico, nel continuo trascolorare tra alto e basso, nel perenne contrappunto all’azione affidato a un gruppo precisissimo di attori (così, giustamente, li chiama la regista che non vuole sentire parlare di mimi) che sono cacciatori e cerve scuoiate, ma zampettanti nel più classico (ma anche inquietante) gioco delle fiabe – vogliamo parlare del guardiacaccia di Biancaneve al quale la regina chiede il cuore della ragazza? Un po’ musical e un po’ tragedia greca nella skené gotica disegnata da Carmine Maringola, che prima è la cattedrale diroccata e poi (inframezzata da una bellissima parte di foglie dove uomini/siepi trasformano continuamente il paesaggio) il palazzo del principe con le classiche tre porte delle scenografie dei teatri greci (e qui Emma Dante e il suo scenografo – e marito –citano la Cenerentola rossiniana allestita a Roma). Un palazzo dove gli invitati alla festa cenano seduti in un tavolo che galleggia sull’acqua. E banchettano con tentacoli di polipo. Quelli che Rusalka ha perso una volta bevuta la pozione della strega. Zampata ecologista (e anche un po’ vegana) della Dante come a dire, con la fiaba di Rusalka, che l’uomo prima si finge amico degli animali per poi cibarsene. Cannibalismo di una società che fagocita, che usa e getta. Come fa il principe – e gli uomini, certo, non ci fanno una bella figura – con Rusalka. Le promette amore, la convince a lasciare la sua natura e il suo mondo e poi la tradisce con la principessa straniera. Salvo poi pentirsi. E tornare a chiedere perdono tra le navate gotiche dove Rusalka si è rifugiata: non ha più i tentacoli, ma non sa più nemmeno camminare, ha le gambe fasciate (squarcio, altro gancio al mondo reale, che la Dante apre sulla disabilità, sulla deformazione dei corpi, altro elemento che torna nella sua poetica, dalla prosa alla lirica – vedi le Carmelitane claudicanti) e si aggrappa a un grande amo al quale si era già appesa (inganno, miraggio… calato dal mondo degli uomini) quando Ježibaba le aveva strappato i tentacoli. Si è rifugiata tra le braccia del padre – e quanta nostalgia Emma Dante, che di recente ha perso il suo di padre, mette nel tratteggiare la figura di Vodník, giusto, ma non duro e severo nonostante Dvorák gli faccia dire «Invano muore tra le tue braccia, tutti i sacrifici sono stati vani. Povera, pallida Rusalka».
Parole che arrivano su una musica che è quasi una ninna nanna. La dirige, perfetta, Tomáš Hanus, ceco di Brno che padroneggia magnificamente la partitura. Anche se ci mette un po’ a prendere le misure della sala (o dell’orchestra della Scala) tanto che il primo atto ha qualche disequilibrio di volumi (e la voce potente di Okka von der Damerau, che è Ježibaba fatica a varcare il muro del suono che sale dalla buca) e serve da rodaggio per una lettura che poi decolla tra finezze e lirismi, slanci drammatici e profumi alla Cajkovskij – bellissime le danze del secondo atto, che la Dante e Campagna, vogliono come una presa di coscienza tutta interiore di Rusalka (danza una controfigura mentre la protagonista appare sul fondo della scena come se osservasse da fuori se stessa), un percorso verso la disillusione e l’accettazione di una vita che senza l’amore assomiglierà solo a una tomba (e Rusalka è lì, morta, coperta di fiori, su un catafalco che galleggia nella pozzanghera).
Hanus governa bene l’intesa con il palcoscenico dove la ninfa ha la voce e il corpo (che ben si piega alle movenze che la Dante le impone) di Olga Bezsmertna, chiaramente emozionata nella Canzone alla luna (che poteva riuscire meglio, ma è anche un pezzo impegnativo che arriva praticamente a freddo, all’inizio dell’opera), ma poi sempre più convincente, capace di salire in alto con acuti taglienti e di ammorbidire il canto con colori tenui e pianissimi intensi. Il Principe – anche lui come la Principessa straniera non ha un nome – è Dmitry Korchak, voce bellissima, svettante in acuto (e quello del duetto del terzo atto fa cadere quasi tutti i tenori, ma lui no), piena, dolente per un personaggio che il tenore russo disegna (con pochi gesti, basta solo il modo di stare in scena) come un uomo senza qualità, senza morale, preda solo dell’istinto, redento (o forse rassegnato) nel finale. Elena Guseva è una energica Principessa straniera, Yongmin Park un intenso e misurato (anche la sua prova è in crescendo) Vodník. Perfettamente in parte Jiří Rajniš (il Guardiacaccia), Ilya Silchukok (il Cacciatore), Svetlina Stoyanova (lo Sguattero). E le tre Ninfe del bosco di Hila Fahima, Juliana Grigoryan e Valentina Pluzhnikova che Emma Dante, nel terzo atto, immerge in un gioco di acqua e fiori (a farli roteare tra le mani, mentre immergono i loro capelli nell’acqua, le danzattrici che impersonano le ninfe sorelle di Rusalka) che è calco perfetto dell’Habanera di Anita (Rachvelishvili) e Daniel Barenboim, omaggio chiarissimo e affettuoso alla Carmen del 2009.
È un attimo. La gioia delle ninfe si spegne. Rusalka culla il suo principe morto. E per lui, «anima umana», la ninfa, nel momento più alto e intenso di tutta l’opera, mentre la musica si spegne e fatichi a trattenere la commozione, chiede che «Dio ti sia misericordioso». E gli occhi di Olga Bezsmertna si riempiono di lacrime. Le stesse che scorrono sul volto del soprano ucraino quando alla fine si presenta sola alla ribalta avvolta dalla bandiera ucraina. Lo sguardo all’insù. A chiedere, questa volta fuori dalla finzione della scena, per i morti di tutti le guerre che «Dio ti sia misericordioso».
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Rusalka