In scena nella città sul Baltico l’ultima opera di Cajkovskij, fiaba riletta da Carlos Wagner attraverso la psicanalisi Dirige Stefan Bone, protagonista Adéle Lorenzi-Favart
«C’era una volta, in un regno lontano lontano, ai confini del mondo, una fanciulla bellissima, con lunghi capelli color del corallo e un incarnato candido del color della luna. Aveva tutto, abiti bellissimi, libri, un giardino pieno di fiori profumati, solo per lei. Era una principessa, ma non sapeva di esserlo. Ed era cieca dalla nascita: non aveva mai visto i colori dei fiori o il brillare delle stelle. Ma anche questo non lo sapeva e dunque per lei il mondo era fatto solo di profumi e sensazioni. Non sapeva di essere cieca perché suo padre, il re René, glielo teneva nascosto vietando a chi le stava accanto di rivelarglielo. Così la fanciulla cresceva ignara della sua condizione. Apparentemente felice, anche se dentro era triste, tanto triste. Ma un bel giorno…».
Kiel, profondo Nord della Germania. Un regno lontano lontano. Un regno, meglio, una città, che si affaccia sul mar Baltico, tra nebbie poetiche e squarci di luce infiniti, impregnati del blu del cielo e dell’azzurro del mare. Qui l’immenso ti avvolge in un silenzio che profuma di pace. E potrebbe essere benissimo, Kiel, un regno delle fiabe. Lontano lontano, ai confini del mondo. Come quel regno incantato dove vive Iolanta. La Iolanta di Petr Il’Ic Cajkovskij, opera che dura il tempo di un sogno (novanta minuti di musica tutta d’un fiato) in scena all’Opernhaus di Kiel in un nuovo allestimento firmato da Carlos Wagner e con la bacchetta appassionata e appassionante di Stefan Bone – si canta in russo a Kiel, come è giusto, nessun pregiudizio nei confronti della cultura russa in tempo di guerra a Kiev. E con la trascinante presenza scenica e vocale di Adèle Lorenzi-Favart, incredibile e calamitante protagonista di questa Iolanta, ultimo titolo operistico del compositore, andato in scena il 18 dicembre 1892 al Marinskij di San Pietroburgo (la prima fuori dalla Russia il 3 gennaio 1893 ad Amburgo, un’ora di treno da Kiel) insieme ad un’altra favola, danzata questa volta, Lo schiaccianoci, balletto capolavoro del musicista russo (triste, come Iolanta, morirà meno di un anno dopo, nel novembre 1893), favola inquieta e inquietante (alberi di Natale che crescono, topi che invadono la casa, soldatini di piombo che fanno la guerra) ispirata a uno dei racconti di Hoffmann.
Onirica e visionaria la favola di Schiaccianoci, come onirica e visionaria – nel racconto del regista Carlos Wagner, dove l’interpretazione dei sogni è la chiave di lettura di una favola che oggi, come tutte le favole, non starebbe in piedi – è la favola di Iolanta, principessa triste perché non ha la vista. Anche se non lo sa. Legge, a suo modo, scorrendo con il dito sulla pagina (una sorta di scrittura braille?) attraverso la sensazione che il foglio stampato trasmette, legge i libri che la circondando, libri di cui è piena la biblioteca del padre. Sente i profumi dei fiori. Che sono, però, profumi artificiali, arrivano da nebulizzatori che azionano (in quella che sembra una danza rituale – danza perché, certo, la musica è pur sempre quella di Cajkovskij) tre infermiere austere, severe. Fanno (quasi) paura nella loro castigata divisa che è sì la classica divisa bianca con il copricapo inamidato, ma che è anche un po’ veste liturgica nella stola che scende sul davanti dell’abito. Sacerdotesse, queste infermiere che sono quasi un serpente a tre teste i cui occhi iniettati di veleno non vorresti mai incrociare, sacerdotesse di una liturgia che si ripete sempre uguale. La liturgia del «C’era una volta…», il rito di un quotidiano impantanato nell’immobilità che si rinnova ogni giorno uguale a se stesso, voluto dal re René per tenere la figlia nell’illusione di normalità, prigioniera di un sogno (di un’illusione tragica a lungo andare) e prigioniera di un regno sotterraneo.
Perché nella visione di Carlos Wagner il mondo di Iolanta non è più il giardino immaginato nella sua favola teatrale Kong Renés Datter da Henrik Hertz (Cajkovskij e il fratello Modest, che scrive il libretto, si ispirano a questo dramma), ma è un regno delle ombre, uno scantinato tetro, il sotterraneo buio e maleodorante del palazzo jugendstil (che compare nella parte alta della bellissima scenografia di Christophe Ouvrard) di re René. In alto dunque un salotto con libreria e grandi vetrate liberty, con una scrivania, una poltrona e una chaise longue in perfetto jugendstil (la Vienna di Siegmund Freud, non a caso), in basso un sotterraneo di travi a vista di ferro e cemento, invaso da rami secchi pieni di spine – tanto simili ai rovi che avvolgono il castello di re Stefano dopo l’incantesimo di Malefica nella Bella addormentata in versione cartoon della Disney (dove a commentare l’azione ci sono, guarda caso, le musiche di Cajkovskij).
Groviglio nel quale è difficile muoversi per chi entra in questo limbo oscuro, con il rischio di restarci intrappolato. Iolanta, invece, no. Si muove benissimo tra questi rovi. Non si lascia imbrigliare dai rami secchi che, come vorrebbe il padre, dovrebbero legarla, tenerla prigioniera di un sogno, di un’illusione di normalità. Si muove, protesa verso un oltre di libertà. E lo avverti questo desiderio di libertà, di verità nel canto di Iolanta, ma anche in quel corpo continuamente proteso verso l’altro: braccia in avanti, sempre, mani che esplorano i volti (e commuove e turba la verità con cui Adèle Lorenzi-Favart modella il suo linguaggio non verbale su quello di chi davvero è privo della vista) per cercare uno spiraglio di luce. Perché Iolanta «cresceva ignara della sua condizione. Apparentemente felice, anche se dentro era triste, tanto triste. Ma un bel giorno…».
Un bel giorno nella fiaba, in quel mondo a parte che ha la stessa consistenza dei sogni, irrompe la realtà. Che ha un nome, Vaudemont. Un conte. Che ha il volto dai contorni netti e decisi e la fisicità potente e sicura e la voce che avvolge e scuote di Ragaa Eldin. Vaudemont, arrivato a corte per accompagnare l’amico Roberto, promesso sposo di Iolanta, che però non vuole sposarla perché ama un’altra… intrico fiabesco della trama… Vaudemont che trova la chiave, trova l’ingresso del giardino segreto, trova come entrare nel cuore e nell’anima della ragazza – la trova che dorme e la sveglia… ma non è La bella addormentata. E fa irrompere, in questo spazio tra la vita e il sogno, la realtà. «Due mondi, uno fisico e uno spirituale, qui uniti come amici inseparabili» canta il medico Ibn-Hakia. Una realtà – il fatto che Iolanta è cieca – che fa vacillare le fondamenta del palazzo. Quello di König René, certo, perché il sotterraneo buio è penetrato dalla luce. E quello, tutto mentale, su cui il sovrano ha costruito la sua menzogna… per amore di Iolanta, certo. Ma pur sempre menzogna. E, si sa, anche il troppo amore può far male. Così il dottore che cura la principessa non è più un medico del corpo, ma un medico dell’anima. Un medico della psiche – e lo capisci subito, vedendo quella chaise longue in scena, che prima o poi ci sarà una seduta di psicoterapia.
E la seduta di psicoterapia c’è. Nella biblioteca del re, con la ragazza sul lettino e il medico/psicologo alle sue spalle, seduto in poltrona con blocco alla mano per prendere appunti. Un fiume di parole (lo vediamo solo, mentre gli altri cantano i loro dubbi e le loro avversità nei confronti dell’amore) che Iolanta riversa sul medico, psicoterapia freudiana (che ci sta perfettamente nella cornice del palazzo jugendstil) per prendere coscienza del problema e cercare una soluzione, condizione necessaria per guarire. E la ragazza riacquista la vista. Cose che succedono solo nelle favole? Il racconto potrebbe suggerire questo… ma la lettura di Carlos Wagner mette al riparo dalle facili illusioni della finzione del teatro (e della fiaba) e salva quell’atteggiamento tutto tedesco (necessità intrinseca alla Germania del dopo Olocausto e del dopo Muro di Berlino) di fare del teatro (musicale o di parola non importa) e dell’arte in generale un luogo educativo, un luogo di formazione (per piccoli e grandi) dove finzione e realtà hanno (devono avere) la stessa consistenza della vita. Un luogo dove non può avvenire ciò che nella quotidianità non sarebbe realizzabile o (in nome di un imperante politicamente corretto) auspicabile, tanto che il blackface o il bodyshaming (solo per citare due nodi oggi attualmente scottanti) qui sono al bando, problematizzati in sede di allestimento da quell’eminenza grigia che sovrintende su tutto che è la drammaturgia.
Così Iolanta ritrova la vista perché la sua, forse, era solo una malattia psicosomatica, effetto collaterale di un’isteria (quante quelle risolte dalla psicanalisi) e non una reale cecità. Così Wagner risolve il nodo. Senza dirci, però, cosa oggi potrebbe essere la cecità di Iolanta: incapacità di vedere oltre il quotidiano? paraocchi che la famiglia vorrebbe mettere ai giovani per proteggerli dai pericoli del mondo? sguardo egoistico e limitato al proprio orizzonte (e si apre il tema migranti, poveri, periferie…)? Iolanta ritrova la vista in una tempesta di luci che invade la scena (video abbastanza basici di Fausto Morales Gil) e canta poi la bellezza di un mondo ritrovato mentre tutti si abbracciano in un groviglio di corpi che si intrecci al groviglio di rovi. A dire, forse, che certi rapporti ingabbiano come o più dei rami secchi – che devono essere tagliati.
Iolanta li taglia, per una vita che si lascia alle spalle i fantasmi, le ombre del passato dai quali si è liberata «dopo aver chiesto la guarigione» come aveva detto nella sua diagnosi Ibn-Hakia. Che è un efficacissimo Alexey Zelenkov, voce di baritono luminosa e tornita, interprete intenso e perfettamente in parte. Come perfettamente in parte è Matteo Maria Ferretti, basso italiano nell’ensemble dell’Oper Kiel, che veste i panni (e anche i costumi sono di una Mitteleuropa di inizio Novecento) di König René, dando corpo e voce (ben timbrata e brunita) ai tormenti del padre di Iolanta.
Tormenti che attraversano la lettura appassionata e appassionante di Stefan Bone, ben sostenuto dalla Philharmonisches Orchester di Kiel nel restituire le inquietudini che Cajkovskij mette nella sua partitura. Lettura che Bone racconta al pubblico dopo lo spettacolo, nel foyer del teatro, in un incontro con il pubblico, una sorta di cineforum della lirica dove si discute di ciò che si è visto: domande, dialogo, dibattito in un incontro (partecipatissimo, davanti a un bicchiere di vino) guidato dalla Dramaturgin e preceduto da un’aria da camera di Cajkovsij intonata da Matteo Maria Ferretti accompagnata al pianoforte da Bone. Appassionato al piano come in buca, dove il direttore, che chiede ed ottiene un suono impastato di terra e di cielo, tiene bene le fila del racconto musicale in un continuo ed efficace dialogo tra orchestra e palcoscenico.
Dove Adéle Lorenzi-Favart ha un carisma scenico strabordante, che calamita subito l’attenzione: il tempo che si alzi il sipario ed è subito in scena, scalza, impegnata a stare in equilibrio sul groviglio di rovi del suo giardino. Voce affascinante, che parte con tinte pastose, quasi da mezzosoprano, per poi salire (senza difficoltà alcuna) in alto, sfoderando bellissimi acuti da soprano lirico. E bella, pastosa e avvolgente è la voce di Ragaa Eldin, tenore che ben restituisce la passione di Vaudemont. L’amico Robert è Samuel Chan, le tre amiche di Iolanta (qui infermiere inquiete e inquietanti) sono Maria Gulik, Tatia Jibladze e Xenia Cumento.
Si coprono gli occhi con le mani alla fine, quando Iolanta e Vaudemont si prendono per mano. Non hanno visto, loro che dovevano vigilare sulla ragazza, che l’unica cura per la cecità di Iolanta, era l’amore. Come succede nelle favole. Come succede in quel regno lontano lontano ai confini del mondo che è la (nostra) vita.
Nelle foto @Olaf Struck Iolanta al Theater Kiel