Allo Staatstheater il regista Darbyshire rilegge l’opera portando le vicende del re di Babilonia negli anni’70 Dirige Hogart, lascia il segno la Fenena di Aya Wakizono
L’immaginario collettivo, che si alimenta andando a pescare nella storia (più o meno) recente, in Germania è sicuramente (e inevitabilmente) diverso da quello dell’Italia. Denominatori comuni, certo. Ma la Storia ha condotto in due direzioni (che poi si incarnano in due sensibilità nei confronti del mondo) diverse. Perché la Storia – e la cultura – porta a costruzioni di memorie diverse. Memorie fatte di immagini, di sensazioni suscitate da quelle immagini. Memorie fatte di frammenti di vita, quella privata che si impasta di/con quella pubblica. Memorie che l’arte trasforma in carne viva, facendo diventare quegli incubi (perché spesso prendono questa forma nei pensieri di chi se li sente addosso), facendoli diventare riflessione collettiva sul presente.
E capita che un’immagine – una giacca portata sopra un dolcevita, occhiali da sole a goccia sui quali scendono lunghi capelli – capita che una stessa immagine, evochi mondi diversi, lontani (ma forse più vicini di quello che possa sembrare) come gli Anni di piombo che hanno fatto scorrere sangue in Italia o la banda della Baader-Meinhof che ha fatto tremare la Germania. Accomunati, i periodi bui della storia europea degli anni Settanta e Ottanta, dalla strategia del terrore. Che torna, periodicamente, nella storia – si è conquistato, il Terrore con la lettera maiuscola, persino la definizione di un periodo della Rivoluzione francese. Terrore. Paura. Che un potere occulto – perché quando agisce non lo vedi, lo vedi solo dietro le sbarre delle aule bunker durante i processi (ed è anche lì che si formano gli incubi) – usa come arma di sedazione di massa. Un terrore, una paura che negli anni Settanta non erano quelli di una dittatura (Italia e Germania, pur con ferite ancora aperte, se l’erano già dolorosamente gettata alle spalle), ma del terrorismo. Di quel virus che striscia. E fa quasi più paura di un potere che dichiara apertamente le sue intenzioni nere.
Il terrore che è la chiave di lettura – strana, inusuale e certo un po’ azzardata – che il regista Marcos Darbyshire sceglie per il Nabucco di Giuseppe Verdi in scena allo Staatstheater di Mainz – una Wiederaufnahme, una ripresa dell’allestimento che ha debuttato nel teatro tedesco nel 2022. Il terrore esercitato da un potere occulto, che cannibalizza – anche in senso letterale, lo vediamo prima che la sala si impregni delle note della sinfonia e lo rivediamo, continuamente, sino a che l’ultima nota dell’opera non si è rarefatta –, un potere che si ciba delle sue vittime (e della paura di chi resta), che ruggisce azzerando differenze, appiattendo contrasti, cancellando buoni e cattivi e facendo passare per bene ciò che è male (e viceversa). Così Nabucco e Zaccaria sembrano due facce della stessa medaglia, opposti che si attraggono e respingono perché fatti della stessa pasta (e, quasi, degli stessi abiti). Così Abigaille che ferisce Nabucco in un attentato al potere che è una sorta di colpo di stato (perché non è più il fulmine divino a piagare il re), Abigaille alla fine prende su di sé quella ferita, quel sangue (d’effetto il tocco taumaturgico e il passaggio della ferita) e lo fa proprio.
D’accordo che Nabucodonosr era un tiranno… distrugge il tempio di Salomone a Gerusalemme, deporta per primo a Babilonia il popolo ebraico. Ma fa un certo effetto vedere il re vissuto seicento anni prima di Cristo – e vedere Abigaille e Isamaele e Fenena e Zaccaria – come un personaggio della cronaca nera degli anni Settanta. Tedesca (ed è un attimo trovare la somiglianza con i personaggi della serie tv dell’Ispettore Derrick) o italiana (le atmosfere sono un po’ quelle di Romanzo criminale o Buongiorno, notte). Riferimenti diversi, immaginari diversi che si possono comunque ritrovare nel racconto di Darbyshire. Che, diciamolo, fa un po’ a pugni con il patriottismo verdiano del Nabucco – ma questo aspetto, forse è solo cosa italiana, anche se una regia non dovrebbe mai prescindere dalle ragioni che hanno portato un autore a scrivere quell’opera, in quel modo e in quel periodo storico. Racconto che, diciamolo, non è sempre lineare o facile da seguire e da capire. E anche la drammaturgia di Sonja Westerbeck zoppica e non poco tra una Fenena che impasticcata si converte al Dio di Giuda, una Anna aguzzina e un Abdallo che fa il doppio gioco tra Abigaille e Nabucco. Racconto, quello di Darbyshire, difficile da inquadrare sin dal prologo muto, quando, prima che il direttore attacchi la Sinfonia, assistiamo al primo sacrificio umano, al mostro che inghiotte una vittima sacrificale, pegno da pagare al terrore: sul palco un girevole sempre in movimento costringe il popolo (ebraico o babilonese… le differenze sono appiattite) a essere continuamente in movimento, per sfuggire dalle fauci del monolite che li soverchia. Monolite, perché la scena (praticamente fissa) di Martin Hickmann (che cura anche gli effetti sonori) è un grande monumento claustofobico che non differenzia Gerusalemme da Babilonia, ma colloca tutte le vicende in un unico luogo, asettico e senza tempo (riutilizzabile, l’impianto per altri titoli, un Otello o un’Elektra indifferentemente).
Idea interessante, intendiamoci, rimando al potere della società che fagocita. Riflessione sulle moderne tirannie. Pugno nello stomaco nel momento in cui, oltre quei vestiti anni Settanta, vedi tante menti manipolate, menti di persone prigioniere di una setta che li annichilisce (e per chi è stato bambino in Italia negli anni Ottanta, l’immagine di Mamma Ebe che i tg ci buttavano in faccia senza filtri è lì che incombe, controfigura inquietante di Anna). E i volti dei coristi dello Staatstheater sono maschere di terrore (bravissimi attori, oltre che disciplinati musicisti nel restituire l’italianità di Verdi). Ma l’impressione è che tutto questo racconto, tutta questa riflessione a tavolino su un libretto del 1842, stia stretta a Nabucco, partitura incredibilmente moderna: c’è dentro già il grande compositore della maturità di Don Carlo, Aida, Otello e Falstaff e quello che verrà immediatamente dopo Nabucco sembra quasi un ritorno indietro da questa modernità. Partitura dove Verdi ci fa leggere in trasparenza le lotte degli italiani per l’indipendenza.
C’è questo nella musica. Non si può non sentirlo nello squillo della tromba che accompagna la cabaletta del quarto atto di Nabucco, quell’O prodi miei seguitemi che non riesci ad ascoltare senza non saltare sulla poltrona, senza esaltarti per quelle note, forse per quel dna tutto italiano che Verdi ha saputo tradurre (come nessuno) in musica. Samuel Hogart, che raccoglie in questa Wiederaufnahme il testimone (la bacchetta) di Daniel Montané, ha il piglio e la precisione che occorrono per venire a capo di una partitura apparentemente semplice come quella di Nabucco (ma perché tagliare la marcia di ingresso di Nabucco nel tempio? inchino del podio alla regia e alla drammaturgia?). Lo asseconda la Philharmonisches Staatsorchester di Mainz – e fa sempre un certo effetto ascoltare Verdi oltre confine ed è un attimo che ti ritrovi a cantare il Va’ pensiero con il coro di Mainz.
Verdi che a Mainz un po’ parla italiano – anche grazie ad un grande lavoro di casting e di ricerca di voci che ha la firma tutta italiana di Gabriele Donà. Parla un po’ italiano con l’Ismaele di Riccardo Rados, bella voce di tenore lirico, svettante in acuto, presentissimo nei concertati. Con la Fenena (di riferimento, verrebbe da dire) di Aya Wakizino, mezzosoprano giapponese, ma milanese di formazione e di adozione, voce di grande fascino, interprete sensibilissima che, grazie ad una grande intelligenza musicale e a una tecnica solidissima, riesce a disegnare un personaggio credibilissimo (nonostante le astrusità che regia e drammaturgia le chiedono) e a commuovere con un intenso O dischiuso è il firmamento. Nabucco ha il bel colore e la voce nobile di Attila Mokus, che disegna un ritratto dolente del sovrano. Milla Mihova ha la grinta e la musicalità per restituire un’Abigaille più belcantista che wagneriana. Per Zaccaria c’è il fiume di voce di Derrick Ballard (ma il canto italiano richiederebbe più legato e più cantabilità). Come lui dall’ensemble di Mainz vengono Julietta Aleksanyan (Anna che svetta nei concertati e che inquieta nella sua austera figura), Myungin Lee (puntuale Abdallo) e Stephan Bootz (tonante Gran Sacerdote di Belo).
Aya-Fenena ha stivali e vestitino al ginocchio, alla Caterina Caselli. Riccardo-Ismaele giacca di pelle e occhiali da sole a goccia. Attila-Nabucco e Derrick-Zaccaria un completo bianco, uno con la camicia e l’altro con un dolcevita. Vestiti alla moda degli anni Settanta dalla costumista Annermarie Bulla. Marchio di fabbrica, quei vestiti entrati nell’immaginario collettivo, dei terroristi delle Br o della Baader-Meinhof. Per raccontare, attraverso una vicenda che attinge al racconto biblico, il terrore e la paura. Ma Nabucco, il Nabucco di Verdi, per noi italiani è un’altra cosa.
Nelle foto @Andreas Etter Nabucco allo Staatstheater di Mainz