Il direttore inaugura la nuova stagione del Piermarini proponendo la versione del 1869 dell’opera di Musorgkij «Uomo tormentato dalla colpa che trova la redenzione»
Sette quadri di Storia e di storie di gente comune, «che alla fine compongono, come in un mosaico, un’immagine rivelatrice». Sette scene raccontate con l’asciuttezza della cronaca. Per andare al cuore dei fatti. «Che sono il disfacimento di un impero e di un uomo, di Boris che nel 1598 arriva al potere facendo uccidere l’erede al trono, lo zarevic Dmitrij. Delitto e castigo che portano lo zar alla follia, tormentato dal senso di colpa e dalla paura che ai suoi figli possa toccare la stessa sorte». Storia di un uomo, storia di un popolo il Boris Godunov di Modest Musorgskij che stasera inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala. Regia del danese Kasper Holten. Sul podio Riccardo Chailly che ha sul leggio la prima versione della partitura, quella del 1869, in sette scene. «Tutt’altro che la rappresentazione del passato glorioso di una nazione» dice il direttore musicale del Piermarini, rispondendo così a chi aveva chiesto alla Scala di non mettere in scena un’opera russa per non dare voce alla propaganda di Vladimir Putin – di recente anche il console ucraino a Milano, Adrii Kartysh. «Il 4 aprile, eseguendo lo Stabat Mater di Rossini e destinando i nostri cachet ai profughi, abbiamo dimostrato da subito la nostra vicinanza all’Ucraina – ricorda il direttore milanese –. La guerra di Mosca a Kiev ha fatto irruzione prepotentemente nel nostro Boris, un progetto nato tre anni fa quando Ildar Abdrazakov, che oggi veste i panni dello zar e senza il quale non avrei mai potuto pensare ad un Boris, mi fece conoscere la nuova edizione critica di Evgenij Levasev della prima versione della partitura, imprescindibile per comprendere la grandezza di questo autore».
Al di là dell’attualità che le vicende internazionali suggeriscono, Boris è un’opera politica. Come l’affronta, maestro Chailly?
Il conflitto a cui tutti noi assistiamo impotenti e con grande sgomento dal 23 febbraio è qualcosa di atroce. In un tempo come quello che stiamo vivendo Boris, che Musorgskji scrive scegliendo di musicare solo sette delle oltre venti scene del dramma di Puškin, diventa una forte denuncia contro ogni forma di violenza e di sopruso. Io sono completamente immerso nel mondo sonoro di Musorgskij e Boris è un viaggio unico e irripetibile nell’universo della sua musica dove c’è un senso rapido nella narrazione. Puškin messo in musica da Mussorgskij ha un asciuttezza rivoluzionaria, atipica per il tempo e per il modo di fare opera alla Cajkovskij o alla Glinka. E penso che su questo ci sia l’influenza del teatro di Verdi, Macbeth è di quattro anni precedente e Musorgksij vide Don Carlo nel gennaio del 1869, mentre componeva la sua opera. C’è un senso del tempo del racconto teatrale, c’è una componente preponderante delle voci maschili – il richiamo a Don Carlo, a Filippo e al Grande Inquisitore è chiaro. Ecco allora una scrittura neoverdiana, dove la coincidenza tra parola e musica è perfetta.
Boris racconta anche il dramma di un uomo solo in preda a rimorso. C’è redenzione? C’è speranza?
C’è un senso di tenerezza nella preghiera finale di Boris che chiede che i figli non seguono la sua sorte: «Signore guarda le lacrime di un padre colpevole. Guardiani del trono eterno con le vostre ali proteggete mio figlio». Qui Musorgskij mette un tremolio delle viole che evoca il battito di ali degli angeli. C’è una verità assoluta, dopo un viaggio cupo e tragico, che dice la grandezza di questo capolavoro. La redenzione? La visione di Holten è cupa e io la rispetto, anche se nel silenzio della musica che arriva dopo la parola «Perdonatemi», l’ultima che Boris pronuncia, vedo una speranza, quella melodia per me è il tema della redenzione. Questa musica è talmente grande che tocca il sublime, tocca vertici assoluti, gli stessi che ho vissuto con Bach.
Perché la scelta della prima versione?
Ogni volta che si suona questa partitura c’è sempre lo stupore di trovarsi di fronte ad una musica neoespressionista. Non capita al tempo, bocciata dalla commissione del Teatro di San Pietroburgo perché rivoluzionaria, in anticipo di mezzo secolo. Musorgskij morì in solitudine, in preda alla depressione a 42 anni perché incompreso e messo ai margini dell’opinione pubblica. Nella biblioteca di famiglia ho trovato un libro di mio padre di Oscar von Riesemann, Musorgskij la vita e le opere, che riporta il pensiero di Cajkovskij, autore che adoro, ma al quale, se potessi incontrarlo in un altro mondo, chiederei conto di questa frase: «Quella del Boris è una musica che mando al diavolo di tutto cuore, volgare e ignobile parodia. In quanto a ingegno Musorgskij è il più notevole di tutti, ma è una natura bassa che ama il volgare, il rozzo e il brutto, superbo della propria ignoranza». Cajkovskij era troppo intelligente per non capire la grandezza di Musorgskij, già da questa prima versione. Sento che con l’atto polacco, quello che il compositore introduce nella revisione dell’opera del 1872, c’è in qualche modo un decentramento della tragedia: la versione originale in sette scene essenziali con l’orchestra che è il narratore e il coro che offre la sua voce al popolo è quella che meglio va al cuore della tragedia di un uomo e di un popolo.
Quello che dirige per l’apertura di stagione della Scala è il suo primo Boris anche se ne ha “frequentati” molti, non ultimo quello del 1979 di Claudio Abbado, di cui lei fu assistente.
Il mio primo Boris, è vero. Del lavoro con Claudio ho voluto conservare la ricchezza di essere tornati all’orchestrazione originale di Musorgskij, anche se allora sul leggio c’era la versione del 1872. Nell’affrontare poi questo viaggio ho ritrovato molto quello che è nato nel 1984 a Firenze quando ho diretto in concerto la scena finale con Boris Christoff. Lì sono entrato davvero nello stile, nel modo di cantare russo di cui Christoff era la personificazione, la testimonianza del recitar cantando, di uno stile che per noi è legato a Monteverdi e che Musorgskij mette nel Boris dove non c’è quasi mai sovrapposizioni di voci, tranne nella scena della taverna, dove il canto restituisce l’ubriachezza di Varlaam, e nella scena che apre la terza parte, con i figli di Boris e la nutrice.
In cosa Boris fu rivoluzionario? Lo è ancora oggi?
L’armonia è scomodissima, scabrosa, il colore orchestrale è cupo. Nella quarta scena, quando Grigorij, il falso Dmitrij, mente c’è un cluster di re e mi bemolle. Nella scena di Pimen c’è una serie di nuove note cromaticamente diverse che in qualche modo anticipa il sistema dodecafonico, cosa che torna anche nella scena finale quando si chiede che il falso Dmitrij, il malfattore, venga torturato. E qui c’è anche, in fortissimo per gli strumentini, il tritono, l’intervallo vietato, quello che evoca il diavolo in musica. Rimskij-Korsakov riorchestrando la partitura per riportarla nei binari della tradizione del melodramma del tempo addolcisce, abbellisce, corregge, attenua, smorza questa potenza dirompente alla quale è bene tornare. Una forza rivoluzionaria alla quale, forse, non ci siamo ancora abituati.
Come, allora, ascoltare Boris? Quali consigli anche per chi seguirà l’opera in diretta su Rai1?
Occorre avere la consapevolezza di essere di fronte ad una partitura impegnativa e complessa, difficile sicuramente, che richiede un impegno di ascolto. Il racconto, però è avvincente: le sette scene – ci sarà un intervallo dopo la quarta – raccontano diversi momenti della storia di Boris e della Russia e si susseguono quasi in dissolvenza cinematografica. Così come cinematografica è la scrittura di Musorgksij, capace di raccontare attraverso una storia di ieri qualcosa del nostro tempo.
Come vive questo tempo? La pandemia, la guerra, la crisi economica?
In momenti cruciali come questi la musica è una grande consolazione. Anche per questo non possiamo mettere al bando l’arte, nessuna arte, nemmeno quella di Musorgskij e Puškin.
Intervista pubblicata in gran parte su Avvenire del 7 dicembre 2022
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Riccardo Chailly e il Boris Godunov