Il Teatro dell’Opera di Roma inaugura la nuova stagione con il dramma di Poulenc diretto da Michele Mariotti Spettacolo di forte impatto della regista palermitana
Cristo deposto dalla croce non sta, non può stare in piedi da solo, perché nel Sabato Santo del mondo, nel silenzio irreale (che grida disperazione) della contemplazione del mistero della morte (una morte violenta, come tante, troppe oggi), Cristo è (ancora) corpo morto. Inerme Agnello, coperto di sangue, immolato per togliere i peccati del mondo. Non ha ancora fatto rotolare via la pietra del sepolcro dentro il quale è disteso, coperto da un sudario. Eppure è presente, presentissimo – corpo indifeso che non sta in piedi da solo – in questa sua (apparente) assenza. Ha bisogno quel Cristo che, come diceva Giovanni Paolo I riferendosi a Dio «è padre; più ancora è madre», ha bisogno di essere sorretto dall’uomo. Perché altrimenti cadrebbe a terra, infrangendosi come una statuetta di fragile terracotta – «il Piccolo Re è morto. Non ci resta che l’Agnello di Dio» canta sconvolta Blanche. Ha bisogno, quel Cristo, di aderire (anche) fisicamente al corpo dell’uomo per stare in piedi. O meglio. Per “incarnarsi” nuovamente, per farsi carne con la sua/nella sua (dell’uomo) carne. Ha bisogno di essere sorretto per sorreggere.
Ha bisogno dell’uomo Cristo, quel Cristo che non riesce a stare in piedi da solo ha bisogno di martiri. Di testimoni, come dice la radice greca della parola che, solo a sentirla, evoca subito una morte ricercata e inseguita ossessivamente e voluta ai limiti del fanatismo. Cristo che, in una visione folgorante e per nulla scandalosa, appare corpo inerme e fragile, corpo di donna dalle sembianze di uomo nel petto che lascia vedere e contare le costole, nelle gambe secche, nei capelli lunghi che scendono sul collo – corpo di donna dalle sembianze di uomo perché «Dio è padre; più ancora è madre», come ricordava Giovanni Paolo I. Visione folgorante e per nulla scandalosa che arriva nel momento più intenso dei Dialogues des Carmélites di Francis Poulenc così come li rilegge Emma Dante al Teatro dell’Opera di Roma, titolo inaugurale della nuova stagione (grande coraggio nel sceglierlo per una serata del genere) diretto da Michele Mariotti, alla sua prima inaugurazione da direttore musicale (che da quest’anno sarà sempre il 27 novembre, “compleanno” del Costanzi).
Arriva sulle note che introducono il drammatico finale. Note taglienti come una lama. Pugni nello stomaco perché annunciano una morte ingiusta, inesorabile. Ed è lì, mentre cercano di sorreggere il corpo di Cristo che vacilla (e che come loro ha un piede fasciato e zoppica per la penitenza chi si sono autoinflitte nel mettersi pietre sopra il piede), è lì che le carmelitane (le sedici religiose del carmelo di Compiégne condannate alla ghigliottina dalla Rivoluzione francese nel 1794, storia vera raccontata da Georges Bernanos e messa in musica nel 1957 da Poulenc), è lì che le carmelitane diventano testimoni. Martiri, nel senso più vero del greco μάρτυρόι, adempiendo il voto che avevano fatto, ma che forse, sino ad allora, non avevano mai compreso nel suo significato più profondo. Ce lo racconta con una delle sue visioni, che possono apparire disturbanti, perché crude, al limite del sopportabile, ma in realtà illuminanti (perché ti costringono ad interrogarti e a mettere in discussione le tue certezze) Emma Dante. Che fa dei Dialogues di Poulenc una parabola cristologica. Parabola al femminile, certo, perché «Dio è padre; più ancora è madre».
Salgono alla ghigliottina le carmelitane. Forti di portare Cristo nel proprio corpo. Di essere corpo di Cristo che ancora una volta offre la sua vita come Agnello, per togliere i peccati del mondo. E non c’è il patibolo in scena, non c’è la ghigliottina che nel periodo del Terrore in Francia era l’unico dio, l’unica giustizia possibile. Ma ci sono tante cornici. Dorate. E desolatamente vuote. Tante cornici come all’inizio, quando nella casa del Marquis de la Force quelle cornici erano pieni di ritratti di donne. Ritratti alla David. A raccontare – così ha detto più volte la Dante – chi erano le carmelitane prima di entrare in convento. Donne, con la loro sensualità. Ora, in quelle cornici, ci sono loro, le carmelitane come sono oggi, quando si compie la loro testimonianza. Una sottoveste bianca, ognuna in una cornice. Vanno incontro alla morte cantano il Salve Regina (una delle scene più belle e più toccanti della storia del melodramma) che Poulenc scrive impastando gregoriane e polifonia, rivestendo il canto di una serena inquietudine che Mariotti restituisce magnificamente dal podio, al culmine di una lettura tesa e meditata, dove la vita è stata raccontata anche attraverso la leggerezza e la sensualità oltre che con la gravità della morte e la forza spirituale del sacrificio. Un canto quello del Salve Regina che si scarnifica poco a poco, perché le voci delle religiose sono falcidiate dalla lama – e ad ogni colpo ecco calare una tela bianca all’interno della cornice, a far diventare luce i corpi delle carmelitane – mentre invocano la «madre di misericordia» alla quale chiedono di rivolgere «a noi quegli occhi tuoi» e di mostrare «dopo questo esilio, Gesù». E appare Cristo. Sulla croce. Ma non è lo stesso Cristo di prima, quello deposto e sorretto dalle carmelitane. Cristo ora ha il corpo e il volto (e il piede fasciato) di Blanche, soeur Blanche de l’Agonie du Christ. Che ha attraversato il suo Getsemani, le sue paure (che l’avevano portata a fuggire dal convento subito dopo essersi votata al martirio) e si è fatta corpo di Cristo.
Si disegna un sorriso sul volto di Corinne Winters che è un’intensa Blanche. «A Dio padre sia gloria e al figlio che è risorto dai morti» la speranza illuminata dalla musica di Poulenc che si spegne in un silenzio di contemplazione del mistero. Sigillo, la preghiera di Blanche, del Salve Regina di morte e di vita. E un cerchio si chiude. «Où est Blanche?», «Dov’è Blanche?» chiede le Chevalier de la Force all’inizio dell’opera, cercando la sorella. Blache ora è lì, sulla croce, corpo di donna trasformato dalla grazia. Corpo divenuto nella morte (ma soprattutto nella scelta della vita) immagine di Cristo – potente sigillo teologico che la regista imprime al suo spettacolo (certo, non privo di qualche ingenuità o di qualche caduta di stile come le croci luminose, molto pop, sulla piastra dei ferri da stiro nel terzo quadro del primo atto). Martire e dunque testimone, Blanche. Come le carmelitane. Che Emma Dante non veste con la tonaca marrone e il mantello bianco e il velo, ma con abiti militari (i “soldati” di Cristo) fatti di una tunica sovrastata da una corazze e da un elmo che tanto assomiglia a un’aureola come quelle di Giotto e Masaccio – perché la santità non è di un altro mondo, ma si vive già sulla terra, sembra dire la costumista Vanessa Sannino.
Donne, le carmelitane, che hanno scelto la strada della preghiera e della contemplazione e che, una volta chiamate a rendere testimonianza della loro fede, l’hanno data. Senza paura? Certo che no, nonostante la corazza de guerriere, da combattenti per la fede. Perché Poulenc racconta le paure dell’uomo. La paura della morte – il compositore scrive la sua partitura, che è un calco fedele dell’opera teatrale di Georges Bernanos, tra il 1953 e il 1956 mentre deve fare i conti con il lutto e il dolore – che incombe da subito sulla narrazione. La racconta anche Emma Dante mettendo in campo tutto il suo immaginario di donna del Sud, vivido, ma allo stesso tempo cupo (anche a tratti esteticamente sghembo e disturbante) che si traduce nelle visioni che tornano ossessivamente nei suoi spettacoli: la croce (qui nuda, ma anche rivestita di fiori), i corpi feriti e offesi (il perenne zoppicare delle carmelitane a causa delle pietre che si caricano sui piedi come gesto penitenziale), una ritualità di gesti coreografici (movimenti di Sandro Campagna) che racconta il sentimento (meno riuscito il “balletto” dei domestici che contrappuntano la prima scena). Tic, mantra che qui funzionano molto bene, più che in altri contesti in cui l’ossessione per la religione mal si adattava alla trama.
Spettacolo tutto affidato al simbolo, a rimandi ad altro, dove la narrazione lascia spazio alla riflessione che quei fatti, quelle situazioni suggeriscono. Spettacolo fatto di immagini forti quello della regista palermitana – le scene sono di Carmine Maringola, incorniciate da grandi e alte grate che evocano la clausura. La scena finale, la scena del carcere dove le cornici, messa una di fronte all’altra disegnano un corridoi verso la morte che dà l’illusione ottica dell’infinito. La scena del Qui Lazarum resuscitasti con la “deposizione” del corpo della Vecchia priora, lavato e profumato, prima di essere messo in un sudario (e anche qui, immagine cristologica potente) e adagiato sotto un ossario fatto di cinquecento teschi. E la scena della morte della vecchia priora, Madame de Croissy, intensa e drammatica grazie ad una Anna Caterina Antonacci superlativa, attrice di un’intensità disarmante perché la Croissy deve gridare il suo dolore, la sua paura della morte e lo sgomento di fronte a un Dio che l’ha abbandonata – Emma Dante la imprigiona in una camicia di forza rossa dalla maniche lunghissime, come aveva imprigionato Blanche in una identica camicia, ma grigia, al suo arrivo nel carmelo. Musicista, la Antonacci, che sa restituire magnificamente la scrittura di Poulenc, un canto fatto di musica e parola per un recitar cantando che troppo spesso, perché affidato a grandi interpreti ormai sulla soglia della pensione, si trasforma in solo declamato. Ma Poulenc scrive per orchestra e voci. Scrive magnificamente. Come nessun altro fa nel Novecento. Una scrittura semplice (apparentemente semplice) che scava nel profondo e ti costringe a interrogarti (sui fatti che vedi in scena, ma soprattutto sulla vita) mettendoti a nudo.
Una scrittura che Mariotti restituisce in tutta la sua essenziale e disarmante bellezza – si sentono le radici nelle quali Poulenc affonda il suo fare musica, Monteverdi, Verdi, Stravinskij, ma anche Puccini e il direttore ne sbalza benissimo gli echi. Mariotti chiede e ottiene dall’orchestra dell’Opera di Roma un suono che non è mai tagliente, spigoloso, sconquassante, ma avvolge, seduce anche, accompagna in un percorso che è umano e spirituale. Quello delle carmelitane che affrontano, ciascuna in modo diverso, l’incontro/scontro con la (paura della) morte. Mariotti sbalza i caratteri delle religiose, seguendo i temi che “raccontano” ognuna di loro. Il tema di Blanche, capace di torcerti l’anima, nel suo perenne ritorno. Blanche che Corinne Winters disegna in perenne bilico tra esaltazione e depressione, attraverso una voce musicalissima e un talento di attrice che lascia il segno (qui lavora per sottrazione per rendere tutto interiore il tormento della ragazza). Soeur Constance ha lo squillo e l’immediatezza di Emöke Baráth, Madame Lidoine, la Nuova priora, il fiume di voce di Ewa Vesin. Ekaterina Gubanova, voce di rara bellezza che il mezzosoprano usa magnificamente, disegna con verità inquieta i tormenti di Mère Marie, perfetta nel tenere testa tanto alla Croissy della Antonacci quanto alla Blanche della Winters. Jean-Francois Lapointe e Bogdan Volkov lasciano il segno come Marquise e Chevalier, padre e fratello (intenso il dialogo in parlatorio) di Blanche. Così come incisivi e puntuali nei loro interventi sono Krystian Adam che è il Sacerdote del carmelo, Andrii Ganchuk che è il dottor Javelint, Alessio Verna Carceriere che annuncia la condanna delle religiose, Roberto Accurso e William Morgan. Irene Savignano e Sara Rocchi guidano con autorevolezza le carmelitane (artiste del coro dell’Opera diretto da Ciro Viscovo) verso il patibolo.
Solo una sottoveste bianca. Nessun vestito mondano, come nei quadri in casa de la Force. Nessuna corazza e nessun elmo, come nel carmelo. Nessun vestito civile, quei cappotti anonimi che la Rivoluzione fa indossare alle religiose provando a spogliarle della loro essenza. Solo bianco. Il colore della luce. Il colore del silenzio. Bianco come è bianca la tela che cala ad ogni colpo di ghigliottina. Una tela (bianca) sulla quale dipingere un nuovo ritratto. Che avrà, che ha il volto di quel Cristo che, nel Sabato Santo del mondo è presente, presentissimo, ma non può stare in piedi da solo, ha bisogno dell’uomo. Ha bisogno di essere sorretto. Per sorreggere.
Nelle foto @Fabrizio Sansoni Dialogues des Carmelites all’Opera di Roma