Dopo quattro mesi tornati in Ucraina gli artisti dell’Opera accolti nella città romagnola da diocesi e Ravennafestival «Torniamo per unire il nostro popolo attraverso la cultura» dice il direttore del coro del teatro ucraino Bogdan Plish volato con Muti a Lourdes e Loreto per Le vie dell’amicizia
Il bagaglio più grande, quello che non si spedisce in aereo e che non si mette nella stiva del pullman, il bagaglio più importante da riportare a casa è custodito nel cuore. «Un bagaglio fatto di amicizie, di rapporti umani, di legami, che si erano già creati nel 2018, quando Ravennafestival è arrivata a Kiev per Le vie dell’amicizia, ma che da ora sono più che mai indissolubili». I cinquantanove artisti del Teatro dell’Opera di Kiev dopo quasi quattro mesi salutano Ravenna e tornano a casa. «A casa… per chi ancora ce l’ha. Perché molti l’hanno persa, distrutta dagli attacchi aerei di Mosca che sono arrivati sino alle porte della capitale» racconta Bogdan Plish, il direttore del coro dell’Opera nazionale d’Ucraina, mentre chiude la sua valigia.
Anche per lui Ravenna, grazie all’ex Casa del clero messa a disposizione dalla diocesi, è stata «una casa accogliente. Adesso che torniamo a Kiev in diversi dovranno trovare una sistemazione, ripartire da zero. Ma abbiamo la musica che ci aiuta» dice Plish prima di abbracciare Cristina Mazzavillani. Ad aprile è stata lei ad organizzare due pullman che, grazie all’apporto di Ravenna solidale, sono partiti dalla città romagnola per andare a Kroscienko, al confine tra Ucraina e Polonia, a prendere «gli amici conosciuti a Kiev nel 2018 per metterli in salvo dalla guerra. A loro è andato il mio primo pensiero subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca» racconta la signora Muti che, dopo essersi “inventata” il Ravennafestival, nel 1997 insieme al marito Riccardo ha lanciato Le vie dell’amicizia, ponti di fratellanza, pellegrinaggi in musica partiti da Sarajevo, che hanno fatto tappa a Kiev nel 2018 quando nel Donbass già si combatteva e si moriva, quando le ferite della rivoluzione arancione e dei morti della repressione di piazza Maidan erano ancora aperte. Vie dell’amicizia approdate quest’anno a Lourdes e Loreto, i due santuari mariani «dove abbiamo chiesto a Maria il dono della pace con Vivaldi, Mozart e Verdi, ma anche con il canto di una mamma ucraina e della sua bimba» sorride Cristina Mazzavillani mentre saluta uno per uno gli amici di Kiev.
Un viaggio, quello tra la Francia e le Marche, al quale si sono uniti i musicisti ucraini, vestiti con i loro costumi tradizionali, cantando le stesse note di Giuseppe Verdi che avevano intonato nel 2018 davanti alla cattedrale di Santa Sofia, le note (e le parole) dello Stabat Mater e del Te Deum. E sempre con Riccardo Muti che allora aveva diretto anche il Lincoln portrait di Aaron Copland con la voce di John Malkovich che aveva fatto risuonare le parole del presidente americano: «Non vorrei essere uno schiavo, ma non vorrei essere neppure un padrone», messaggio attualissimo, aveva sottolineato Muti, «specie in tempi come quelli che stiamo vivendo dove vediamo tiranni che vorrebbero cancellare la democrazia». Parole drammaticamente profetiche, quelle del direttore d’orchestra, che aveva messo sul leggio anche pagine dal Nabucco, il Va’ pensiero con la nostalgia e lo strazio di una terra lontana. «O mia patria sì bella e perduta» hanno cantato ancora una volta i coristi di Kiev ad aprile arrivando a Ravenna.
«E proprio quello verdiano è il titolo che a maggio ha riaperto il nostro teatro, dedicato al poeta Taras Shevchenko. Un modo per cercare di far ripartire la vita anche sotto le bombe» spiega Bogdan Plish. «Il teatro ha 1400 posti, ma non entrano più di 350 spettatori a sera perché se ci fosse un allarme c’è un rifugio antiaereo che può accogliere, appunto, 350 persone. Dopo i primi timidi passi adesso si va in scena ogni sera con Il barbiere di Siviglia, Tosca, Rigoletto… con balletti, concerti e con titoli tradizionali ucraini. Ma in cartellone nessuna opera di Cajkovskij, che, comunque, prima che scoppiasse la guerra avevamo regolarmente in repertorio» spiega Plish richiamato in patria insieme ai colleghi musicisti dal governo ucraino che ha deciso «di tenere aperti per tutta l’estate i teatri e i luoghi di cultura. Il nostro coro è di 105 persone, a Ravenna siano in ventitré e con noi ci sono musicisti, ballerini, tecnici insieme ad alcuni loro familiari, come la piccola Milana, figlia di un mezzosoprano, che a Lourdes e Loreto ha cantato la Preghiera alla beata Vergine di Hanna Havrylec, compositrice ucraina morta di attacco cardiaco a pochi giorni dall’invasione russa. Il papà di Milana è al fronte, lei e la sua mamma lo sentono ogni quattro giorni per sapere se è vivo».
Gli uomini arrivati a Ravenna hanno ottenuto un permesso speciale dallo Stato che li ha esonerati dall’arruolamento nell’esercito. Ma ogni giorno hanno dovuto dimostrare di farsi ambasciatori della cultura ucraina in Italia: concerti, liturgie (quelle domenicali in Duomo, messo a disposizione dal vescovo, monsignor Lorenzo Ghizzoni), spettacoli… filmati con il cellulare e i video inviati in patria, al presidente Zelensky. «Ora tutti torniamo a dare una mano per cercare di tenere unito il nostro popolo attraverso la cultura» dice ancora Plish che il 23 febbraio, alla vigilia dell’attacco russo con le truppe del Cremlino alle porte di Kiev, ha diretto «l’ultimo concerto prima che il teatro chiudesse. Subito Cristina ci ha chiesto cosa poteva fare per noi. Il 27 marzo, per la Giornata mondiale del teatro, con il coro abbiamo fatto un concerto che ci è servito a dire di essere vivi. E il giorno dopo, il 28, è arrivata la chiamata degli amici di Ravenna che ci facevano sapere che sarebbero venuti a prenderci al confine con la Polonia di lì a poche ore».
Dopo quattro mesi il rientro. «Nel paese c’è una grande unione tra le persone, non solo tra i militari perché la gente porta di continuo medicine e cibo all’esercito e raccoglie soldi per acquistare armi. Un famoso cantante pop ha lanciato una raccolta per comprare un velivolo: in tre giorni si sono raccolti fondi per acquistarne tre e il produttore turco al quale ci si è rivolti li ha regalati dicendo di usare i soldi raccolti per scopi umanitari. Non solo, c’è stata anche una colletta per ricostruire la scuola di musica di Borodianka, rasa al suolo dai russi». Perché, denuncia Plish, «ogni giorno l’esercito di Mosca colpisce obiettivi civili e questi sono atti di terrorismo. E dove non arrivano le truppe vengono usati missili a lunga gittata che creano quei crateri che quotidianamente vediamo dalle immagini che arrivano dall’Ucraina» dice il direttore, che a maggio è stato richiamato da Kiev per dirigere un concerto commemorativo a Bucha, una delle prime città cadute nelle mani delle truppe di Mosca.
«Violenze, stupri, strage di civili, non si può immaginare quello che è accaduto in quella zona. Come si può pensare a una soluzione diplomatica di fronte alle migliaia e migliaia di civili uccisi: dovremmo dimenticare e firmare un patto?» si chiede Plish convinto che «Vladimir Putin vuole ricostruire quell’idea di terzo impero romano lanciata da Pietro I dopo che il baricentro politico e culturale della Russia si è spostato da Kiev a Mosca, città fondata mille anni dopo la nostra. Una o due volte ogni cento anni questo progetto torna in campo e implica scontri e violenze. Negli anni Novanta quando è caduto il regime dell’Unione sovietica l’Ucraina si è ritrovata con il terzo potenziale atomico al mondo: è partito il disarmo per far finire la guerra fredda e Kiev ha firmato un patto cedendo le armi in cambio di una garanzia di sovranità. Ma ora chi al tempo ci ha garantito la sovranità ci sta attaccando con le nostre stesse armi. Non possiamo credere più alla politica dopo che Putin il giorno prima di attaccarci ha assicurato che non ci avrebbe invaso. Loro vogliono tutto e dunque non c’è una soluzione politica, non c’è altro modo che combattere».
Parole forti. Dette da chi torna a casa per fare musica. «All’inizio della guerra avevamo solo le forze militari poi si è creato un esercito di difesa territoriale dove si possono arruolare volontari. E molti artisti si sono arruolati». Tra loro anche Taras Stoly, direttore dell’Orchestra folkloristica nazionale, il più famoso suonatore di bandura, strumento musicale tipico ucraino, che si è esibito a Loreto, grazie ad un permesso speciale di tre giorni ottenuto dall’esercito. «Appena è scoppiata la guerra ha portato la sua famiglia in Polonia e si è arruolato. Per averlo con noi abbiamo mobilitato il governo». Stoly nel concerto di Loreto de Le vie dell’amicizia (che Rai1 trasmette il 6 agosto) ha suonato Melody for an angel del compositore ucraino Myroslav Skoryk. «Un brano popolarissimo da noi, lo conoscono tutti, una sorta di Va’ pensiero, quasi un secondo inno nazionale» dice Plish, prima di partire. Lo aspettano i suoi compagni. Mentre si allontanano cantano Melody for an angel. Poi il loro inno. «Non è ancora morta la gloria dell’Ucraina né la sua libertà. A noi il destino sorriderà ancora».
Nella foto @Marco Borrelli il Coro di Kiev e il direttore Bogdan Plish nel concerto a Loreto
Bogdan Plish