L’opera di Verdi diretta da Mariotti inaugura il San Carlo Martone porta le vicende tra i militari di un esercito di oggi Desdemona muore puntando la pistola contro il marito Intensi protagonisti Jonas Kaufmann e Maria Agresta
In orchestra si scatena la tempesta. Uno degli inizi più folgoranti e (musicalmente) più sconvolgenti della storia del melodramma – lo ha scritto Giuseppe Verdi nel 1887 proiettando, in un lampo, la sua musica decenni avanti. Una tempesta sul mare. E sei dentro le onde. In mezzo ai fulmini. Sei sulla spiaggia (il libretto dice quella di Cipro, ma potrebbe essere una qualsiasi spiaggia che si affaccia sul Mediterraneo), ad osservare la tragedia che si compie. Potenza della lirica dove, cantava Lucio Dalla, «ogni dramma è un falso». Questa volta, forse, lo è un po’ meno. Un po’ meno falso. Perché sul palco ci sono uomini in mimetica che salvano con un gommone donne e bambini in balia del mare. Profughi che si sono messi in viaggio dal loro paese per fuggire dalla guerra. Il giubbino arancione catarifrangente. Avvolti nelle coperte. La paura negli occhi. Un’immagine che evoca le tante (troppe) scene drammaticamente reali – vita vissuta diresti se non fosse che spesso è troncata dalla morte – che (quasi) quotidianamente entrano nelle nostre case attraverso uno schermo tv. E, come quell’inizio musicalmente folgorante e sconvolgente, ti scuotono. Quasi ti infastidiscono.
Potenza della lirica. Potenza dell’arte che è (sempre) politica – così si diceva raccontando il Julius Caesar di Giorgio Battistelli (ispirato alla tragedia di William Shakespeare) che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Pensiero che sta benissimo anche con l’Otello di Giuseppe Verdi (anche qui Shakespeare, doppio Shakespeare in due giorni, tra Roma e Napoli, coincidenza singolare) diretto da Michele Mariotti e con la regia (politica) del napoletano Mario Martone, contestato, però, “in casa” alle uscite finali. Otello che inaugura il cartellone 2021/2022 del Teatro San Carlo di Napoli alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, festeggiatissimo il presidente con applausi che lo hanno salutato prima e dopo l’Inno di Mameli, quel «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta» che il pubblico, fuori protocollo, canta convinto.
Poi tocca ad Otello. Tocca a Verdi. Tocca a Shakespeare che, in musica, diventa nostro contemporaneo. Diventa politico. Perché così lo rilegge Mario Martone a Napoli, sul palco del San Carlo, dove la Cipro di Shakespeare e del libretto scritto da Arrigo Boito per il compositore emiliano nelle scene di Margherita Palli (efficaci, ma non con quel tocco di genio che la scenografa svizzera ha messo in altri suoi lavori) diventa un posto di confine, tra mare e sabbia (le onde grandi, il cielo stellato, le nuvole che solcano l’azzurro, il sole che si eclissa nei video di Alessandro Papa). Una spiaggia del Mediterraneo. Un deserto mediorientale. Dove un esercito (e anche Desdemona è una soldatessa, intuizione azzeccata del regista che ne fa una donna risoluta e combattiva, non remissiva e sottomessa al suo uomo, molto shakespeariana in questo), dove un esercito presidia il territorio, salva vite in mare. L’immagine folgorante dell’inizio, del soccorso ai profughi – accolti poi (siamo al secondo atto) in una tenda/infermeria, curati da medici, assistiti da Desdemona che consola i bimbi che le cantano il loro delicato «T’offriamo il giglio». Gommoni e giubbotti salvagente. Coperte e flebo. Immagine forte. Fortissima. Come quella che chiude lo spettacolo. Otello solo, sembrerebbe in un carcere a vedere la parete impenetrabile che cala in proscenio a chiudere la scena, lasciando dietro gli altri personaggi e in primo piano il protagonista. Solo. Solo Otello perché il cadavere di Desdemona è stato portato via su una barella. E lui la piange, rinchiuso per scontare la sua pena (il suicidio che ha tentato non si è compiuto). Solo a pagare il prezzo dell’omicidio scatenato dalla gelosia. Del femminicidio, oggi si chiama così, drammaticamente uguale ai 109 che si sono consumati in Italia solo nel 2021.
Dichiarazione politica, alla «Restiamo umani», «Siamo tutti clandestini». Denuncia di Martone contro la violenza sulle donne, certo – e quando Otello invoca il «Dio vendicator» e decide di uccidere Desdemona intorno a lui si materializzano i fantasmi di tante donne vittime di violenza. Visione potente che chiude il secondo atto. E già basterebbe. Ma Martone va oltre, visto il contesto in cui il regista ambienta il suo racconto. Perché il dramma della gelosia di Otello (che non è moro), il femminicidio si consuma tra militari in missione di pace, impegnati a salvare profughi: anche tra chi fa del bene si può insinuare il male, sembra dire Martone (e questo pugno nello stomaco è più forte di qualsiasi attualizzazione) in uno spettacolo che, pur con qualche passaggio poco risolto (il “sogno” di Jago reso visibile in una controscena nel secondo atto o il confuso dentro e fuori la tenda di Otello del terzo atto), funziona nella sua asciuttezza da reportage giornalistico.
Martone mette in scena, in un lungo piano sequenza cinematografico, le dinamiche interne ad un esercito in missione – costumi ad hoc di Ortensia De Francesco. Il cameratismo e la goliardia – il «Fuoco di gioia» parte come una festa al campo, con tanto di ragazze locali che danzano per i soldati, e finisce in una rissa. Le gelosie e le rivalità tra i militari. Con Jago che, così, diventa (ancora di più) un frustrato, uno che semina odio perché non è riuscito ad ottenere i gradi che vorrebbe, quelli che gli «usurpa» Cassio. Un montaggio che alterna campi lunghi e primi piani per mettere a fuoco, nella coralità, i personaggi: Desdemona risoluta, Jago mimetico, Otello fragile, insicuro e pieno di tic. Tende militari e continui saluti con la mano portata alla fronte. Container dove Otello abita con Desdemona, una cucina a vista, una brandina, la tv accesa su una serie tv mentre al donna aspetta il ritorno del marito e canta la sua drammatica Ave Maria. Otello annuncia l’omicidio, scatenato da quel fazzoletto che, essendo tra soldati, è un foulard militare. Desdemona si ribella, impugna la pistola contro il marito. Ma poi soccombe. Muore. Viene messa su una barella e portata via. E Otello la piange, solo. In carcere.
Immagine potente sulla quale si spengono le note di Verdi che Michele Mariotti sbalza in tutta la loro raffinata bellezza. Il direttore, che fa suonare al meglio l’orchestra del San Carlo e cantare benissimo (seppur con la mascherina) il coro di José Luis Basso, lavora di cesello per restituire la vicenda nella sua dimensione più intima. Perché Otello, un Verdi maturo che il direttore ben padroneggia, è un dramma psicologico, tutto giocato sul dubbio, sul non detto, sul sospetto. Terreno paludoso nel quale la tragedia cova, ribolle in un suono magmatico che si fonde con il canto e poi esplode, deflagrante. Mariotti imprime un passo teatrale incalzante al racconto musicale che arriva vero e immediato. Un flusso continuo di musica che guarda al Novecento e alle sue inquietudini.
Che Jonas Kaufmann incarna benissimo, spogliando Otello di un’eroicità stentorea e presentandolo, nudo, nella sua fragilità. Il tenore insieme allo squillo (quello dell’«Esultate» iniziale) mette la sua sapienza musicale di filati e mezzevoci nel canto lasciando l’eroicità violenta di Otello tutta alla dimensione scenica da grande attore. Niente di sinistro o di sghembo o di eccessivo nello Jago misuratissimo e musicalissimo, insinuante e suadente di Igor Golovatenko, un personaggio mimetico, che trama nell’ombra dove lancia il suo inquietante «Credo». Maria Agresta, già tante volte Desdemona (e si sente perché, pur avendo fatto un salto in là nel repertorio, le basta un attimo per ritrovare il lirismo del personaggio verdiano), appassiona e commuove, specie nella toccante «Ave Maria» con cui, non senza sgomento e umana ribellione, va incontro (con la pistola sotto il cuscino) alla morte.
Tutti soldati. Anche Emilia, la moglie di Jago, alla quale Manuela Custer offre una bella e antiretorica verità scenica e vocale. Soldati Cassio e Roderigo e Montano e Ludovico, ben impersonati da Alessandro Liberatore e Matteo Mezzaro (bello squillo tenorile), da Biagio Pizzuti ed Emanuele Cordaro (bassi ben timbrati). Tutti in mimetica o in uniforme nera. Il basco in testa. Veri, potenza della lirica, come i drammi dentro i quali Verdi e Boito e Mariotti e Martone ci portano.
Nelle foto @Luciano Romano Otello al Teatro San Carlo