La popolare cantante diva del Barocco premiata a Venezia per l’impegno a far conoscere la musica del Prete rosso
Una risata. Intonatissima. Sonora. «L’aria più difficile di Antonio Vivaldi? Ma quella che non ho inciso!». Il timbro è inconfondibile. Cecilia Bartoli sfodera la sua inconfondibile ironia di fronte a una domanda seria, serissima. E così tutto diventa leggero. Anche una chiacchierata sul Prete rosso. Di più. Diventa una lezione di canto. «Siam na-vi all’o-» canta il mezzosoprano romano e con la mano e con il dito fa un segno verso l’alto. Subito dopo il dito si rivolge verso il basso «-nde algen-». Per poi tornare a indicare il cielo «-ti». Siam navi all’onde algenti. «Forse questa è una delle arie più difficili di Vivaldi. L’ho cantata. L’ho incisa» racconta la Bartoli spiegando che nella pagina dell’Olimpiade «ci sono grandi salti», quelli che ha reso visibili con mano e dito e gesto. «E poi si parte con grandi colorature». Sul testo «grandioso di Metastasio: Siam navi all’onde algenti. Ogni diletto è scoglio, tutta la vita è un mar. E qui c’è tutto». La diva del Barocco, la cantante lirica più pop e più popolare di oggi è a Venezia. Dove riceve il Vivaldi d’oro, premio (quest’anno la prima edizione) istituito per «rendere omaggio a un musicista che con la sua arte nella sua carriera abbia saputo valorizzare la figura e l’opera del compositore veneziano». Un premio «che mi emoziona ricevere, motivo di orgoglio, ma anche di responsabilità» racconta la Bartoli che ha dedicato al compositore due dischi (incisi per Decca che il 26 novembre pubblica Unreleased con incisioni inedite di Beethoven, Mozart e Haydn), The Vivaldi album nel 1998 con Il giardino armonico di Giovanni Antonini e, vent’anni dopo, nel 2018, Bartoli-Vivaldi con l’Ensemble Matheus diretto da Jean-Christophe Spinosi. La consegna del premio nella Basilica dei Frari dove poi l’Orchestra Canova diretta da Enrico Saverio Pagano, in chiusura della prima edizione del Vivaldi festival, propone un concerto tutto (naturalmente) vivaldiano con pagine dall’Estro armonico. «Vivaldi ieri, oggi, sempre – sorride la Bartoli –. Perché Vivaldi non ha tempo. Ed è bello scoprirlo, meglio, riscoprirlo proprio qui a Venezia».
Ma quando Antonio Vivaldi è entrato nella sua vita, Cecilia Bartoli?
«Da subito, direi. Fin da piccolina ricordo di aver ascoltato le sue musiche, le Quattro stagioni, in particolare. Poi entrando in Conservatorio ho avuto modo di avvicinarmi a tutta la sua musica strumentale. Con il tempo, poi, è arrivato anche il Vivaldi operista, oggi conosciuto, ma forse non così tanto rispetto alla grande quantità di partiture scritte, tutte accolte al tempo da un grande, grandissimo successo. Un compositore che continua e continuerà a darci tante emozioni. Dico sempre che Vivaldi riesce a nutrire la nostra anima e i nostri cuori. Lo fa da tantissimi anni. E continuerà a farlo a lungo».
Per molti Vivaldi è l’autore delle Quattro stagioni, le citava lei. In realtà ha lasciato un grande patrimonio, soprattutto vocale. Perché è importante scoprirlo, o meglio, riscoprirlo?
«Proprio perché il patrimonio musicale che ci ha lasciato è vastissimo, una varietà tale che fa di lui il compositore più grande del Barocco, insieme a George Frederich Haendel. E per ascoltarlo tutto una vita non basta. La vocalità vivaldiana è molto complessa perché può essere molto virtuosistica. Vivaldi usa lo strumento vocale umano come se fosse un violino, scrive per la voce come scrive per lo strumento ad arco. Cantandolo mi sono trovata a dialogare con i violini nella stessa loro tessitura e con le stesse loro difficoltà. Una cosa affascinante anche se a volte sembra che Vivaldi dimentichi che la voce umana comunque ha dei limiti. Ma questa è la grande sfida che ancora oggi il Prete rosso pone a noi cantanti. Lo fa nelle arie virtuosistiche e in quelle patetiche così come in quelle melanconiche, piene di commozione».
C’è poi il Vivaldi sacro.
«E quando lo si avvicina non si può far altro che credere in un’altra dimensione. Ascolti Vivadi e dici: Dio esiste. Grazie Vivaldi».
E chi è Vivaldi per Cecilia Bartoli? Nella sua carriera, ma anche nella sua vita di “ascoltatrice” e appassionata di musica.
«Dimensioni che non riesco a scindere. Perché la passione per la musica non sta solo nell’eseguire una partitura, ma nell’ascoltarla e soprattutto nello studiarla, nell’approfondirla, nello scoprire la grande varietà di sentimenti che regala e la bellezza di cui è intrisa. Lo faccio con tutte le partiture che avvicino. E, naturalmente, anche con Vivaldi al quale mi lega un amore che affonda le radici, come raccontavo, lontano nel tempo. Il primo progetto che gli ho dedicato insieme a Giovanni Antonini e al Giardino Armonico risale al 1998. Fu un grande successo. Non solo il disco, ma la lunga tournée che seguì all’incisione perché facevamo ascoltare arie inedite del compositore veneziano. E in qualche modo abbiamo contribuito alla riscoperta del suo patrimonio».
A proposito di incisioni, il mercato discografico, lo sappiamo, da tempo vive una crisi profonda: sono lontani gli incassi degli anni d’oro. Ma i dischi di Cecilia Bartoli vendono sempre. Come se lo spiega?
«Per me il disco è la fotografia di un momento. Un’istantanea da consegnare al tempo. Ma se quel momento viene vissuto con grande passione, con sincerità, con un amore per la musica e per il proprio lavoro quella foto verrà molto bene. E se riesci a condividere questo amore per la musica con i tuoi musicisti si crea una sinergia unica e questo rimane nella foto, nel disco. Sono da sempre convinta che un’incisione discografica ti aiuta a crescere come musicista. Perché ci si riascolta, ci si fanno delle domande: come si potrebbe cerare questo colore? questa dimensione? perché non portiamo questa frase in un modo in un altro? E dal confronto si cresce. Per questo credo che l’incisione sia una grande scuola per i musicisti».
Ogni cosa che Cecila Bartoli fa è un successo: dischi, spettacoli, concerti, direzioni artistiche… quale il suo segreto, anche di una carriera ininterrotta e che non ha mai conosciuto momenti di ombra?
«Momenti d’ombra ci sono stati e ci saranno ancora, perché questa è la vita. Non parlerei di un segreto. Sicuramente l’amore, la passione per quello che faccio. E soprattutto la curiosità che mi spinge sempre a varcare i confini senza accontentarmi di quello che vedo all’orizzonte».
Il Festival di Penetcoste a Salisburgo, ora la direzione artistica dell’Opera di Montecarlo. In Italia non sono molte le occasioni per vederla. Il progetto Scala si è interrotto prima di partire, ora la speranza che Firenze dove c’è il Alexander Pereira diventi la sua nuova casa. Come vive il rapporto con l’Italia dove è nata e dove si è formata?
«Ci torno abbastanza. E ogni volta mi sento di ricordare, specialmente alla politica, che la cultura è il nostro bene più importante e va sostenuto. Il 17 novembre sarò al Teatro Galli di Rimini (che ho inaugurato con una Cenerentola dopo i restauri seguiti a una lunghissima chiusura) con un concerto tuto dedicato a Farinelli. E sarebbe bello portare questo progetto anche a Venezia, magari alla Fenice. L’anno prossimo, poi, a Firenze farò Alcina di Haendel. Certo, il Festival di Pentecoste di Salisburgo – e la prossima sarà l’edizione numero dodici della mia direzione artistica – occupa gran parte del mio tempo. E all’orizzonte c’è una nuova sfida, dirigere un teatro come quello di Montecarlo dove sono passati i gradi artisti del passato, da Gigli a Caruso, e dove c’è una grande tradizione di balletto, iniziata con i Ballet russes di Diaghilev. Una grande storia che implica una grande responsabilità».
Nella foto Cecila Bartoli a Venezia per il premio Vivaldi d’oro