Schumann e Brahms (e un valzer di Strauss) con i Wiener Tensione dietro le quinte tra il direttore e Riccardo Chailly
Le 19 di martedì 11 maggio sono appena suonate. Sulla grande pedana nera di legno che da dicembre ha inghiottito la platea del Teatro alla Scala facendola diventare un grande palcoscenico, entrano tutti insieme i Wiener philharmoniker. Vista l’ora tardo pomeridiana niente abito da sera, niente frac nero, ma la divisa da giorno, quella che vediamo indossare ai viennesi durante il Concerto di capodanno, pantaloni gessati grigio chiaro, così come grigio perla sono il gilet e la cravatta, camicia bianca e giacca grigio scuro, molto scuro. Inconfondibili, i Wiener, anche prima del concerto, seduti in piazza Scala, nei tavolini all’aperto, a bere un caffè. Alle 19 entrano in sala, si avvicinano ai loro leggii, due musicisti per spartito a differenza di quello che capita in Italia da un anno, con un musicista per leggio per rispettare il distanziamento. I Wiener hanno un protocollo sanitario che prevede tamponi quotidiani, sono tutti vaccinati – non senza polemiche in patria – e suonano senza mascherina. Non a Milano, però, dove tutti (fiati a parte, ovviamente) hanno una ffp2 nera con tanto di marchio dorato dell’orchestra, fondata nel 1842.
Un rito, quello dell’ingresso scandito dall’applauso caloroso del pubblico tornato dopo sei mesi in sala (al Teatro alla Scala il primo appuntamento lunedì 10 maggio con orchestra e coro scaligeri diretti da Riccardo Chailly), al quale segue un silenzio. Sospeso. Lungo nella sua brevità senza tempo. Carico di attesa. Anche teatrale. I Wiener sono seduti. «A dopo! A dopo!» si sente dal palco di proscenio di sinistra. Voce fuori campo, teatralissima a suo modo. E con il suo passo spedito, la bacchetta impugnata nella mano e rivolta verso il basso, entra Riccardo Muti. Un «Bentornato a casa!» si mischia agli applausi che salutano il ritorno del musicista napoletano che alla Scala è stato direttore musicale dal 1986 al 2005, teatro che ha lasciato dopo le tensioni con gli orchestrali e dove è tornato solo con orchestre ospiti i Wiener (già un mese dopo il suo addio del 2 aprile 2005) e la Chicago symphony. Ora Muti torna con i Wiener, tappa conclusiva di una tournée italiana partita da Ravenna (piazza che ha sostituito Napoli dopo la marcia indietro del San Carlo) e passata da Firenze.
«Tournée organizzata due anni fa, ben prima che scoppiasse la pandemia» ricorda a fine serata Muti spiegando che questa è «la prima occasione in cui i Wiener suonano davanti al pubblico dopo mesi di streaming». Ma anche questo Muti lo dice a fine serata, dal podio, annunciando il bis. Prima fa parlare la musica. Subito in medias res, nel mare calmo di Mendelssohn e di Meeresstille und glückliche Fahrt. Calma piatta, respiro di morte, becheggiare sinistro di una pandemia che tiene le barche ferme. Ma poi arriva il vento e il viaggio felice può iniziare. Può re-iniziare. Da dove si era arenato prima del Covid – la speranza detta da Muti in musica con Mendelssohn. Muti che impagina un programma – diremmo, un viaggio – tutto viennese. Congeniale ai Wiener. Una Quarta di Schumann solenne, poco febbrile, poco sghemba dove il tempo incede lento per tre movimenti (e Muti negli anni ha frenato, sul metronomo, gli ardori giovanili) per poi avere uno scarto drammatico e teatrale nel prorompente finale tutto proiettato in avanti.
Si tira il fiato. Intervallo. Non si esce dai palchi, al massimo ci si saluta (distanziati) in corridoio dove Liliana Segre torna con la mente all’11 maggio del 1946, al concerto diretto da Arturo Toscanini per la riapertura della Scala ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. «C’ero, l’ho raccontato ieri. Ma poi mi sono ricordata che forse non ero in sala, ero sulla piazza, con la mia famiglia. Bisognava esserci anche per chi come me non ne sapeva molto di musica. Nel tempo, poi, ho imparato e ogni volta che c’è l’occasione di ascoltare qualcosa di bello ci sono. Come stasera» dice la senatrice a vita, con la sua eleganza misurata che illumina e rassicura, in palco con la figlia.
Rientrano i Wiener. Rientra Muti e i violoncelli, con il loro suono che sa di antico, attaccano la Seconda di Brahms. Danzano le note. Una danza che si spezza continuamente. Per nulla rassicurante. Muti ha gli occhi fissi sulla partitura, più che in Schumann. Ma come in Schumann spesso lascia andare i Wiener, quasi ripone la bacchetta, usa il gesto solo dove necessario. Per modulare. Per chiamare. Per esaltare un suono unico, di una bellezza mozzafiato in ogni sezione, archi, fiati, ottoni. Un suono che, alzandosi dalla sala trasformata in palcoscenico, ti avvolge. Ti porta dentro la musica, facendotela sentire addosso anche in quelle imperfezioni (un attacco in leggerissimo anticipo dei primi violini) che rendono unica e vera l’esperienza di ascolto dal vivo. Applausi (in realtà, qualcuno, fiori ordinanza è arrivato anche alla fine del primo movimento). Non poteva che essere così. Applausi per i Wiener che applaudono Muti, non si alzano in piedi, gli lasciano la ribalta.
Sui leggii c’è già aperto lo spartito del bis. Ma prima Muti parla. «Ogni volta che sono tornato ho detto due sciocchezze» esordisce per spezzare la tensione. Poi si fa serio. «È la prima volta dopo il lockdown che i Wiener suonano davanti a un pubblico. Un’esperienza molto commovente dopo mesi di concerti in streaming: noi facciamo musica per voi, è questa la nostra missione». Poi parla della data scritta sul calendario, 11 maggio. «Una coincidenza perché questa tournée l’abbiamo fissata due anni fa» dice Muti che fa capire che, prinma di questa “coincidenza” nessuno si era mai ricordato della data dell’11 maggio, ricorrenza mai celebrata se non da Muti stesso nel 1996 con un concerto. «Ma non c’è chi arriva prima e chi arriva dopo. Abbiamo, però, l’onore di essere qui settantacinque anni dopo il concerto con il quale Arturo Toscanini riaprì la Scala. Tanto più che Toscanini era molto legato ai Wiener che ha diretto a Vienna e a Salisburgo». E un onore, «non un vanto» avverte Muti, «è stato per me dirigere nel 1996 un concerto con lo stesso programma fatto da Toscanini nel 1946, a cinquant’anni da quell’evento. La Scala era la sua casa. E sempre lo rimarrà». Una casa nella quale Muti fa risuonare le note del Kaiser walzer di Johann Strauss. «Lo eseguiamo nello stile malinconico del Concerto di Capodanno. Ascolterete questa malinconia nel finale, nelle note del flauto e del violoncello che raccontano un mondo orami al declino».
Partono le note del Kaiser walzer, lungo bis – e si arriva a ridosso del coprifuoco, giusto in tempo per scappare a casa – che per dieci minuti (sarà anche che i Wiener hanno il loro completo grigio da giorno) ti portano alle atmosfere del Neujahrskonzert. Magiche indubbiamente.
Ma la magia si spegne presto. Perché qui sarebbe finita la cronaca di una serata storica. Come storica era stata quella della sera precedente, con il concerto di riapertura al pubblico diretto da Riccardo Chailly. Che ha seguito, gesto di grande cortesia, da ospite, nella barcaccia di secondo ordine, il concerto dei Wiener e di Muti. Sarebbe finita qui se non fosse capitato, dietro le quinte, un veloce, ma acceso scambio tra Muti e Chailly. Teatro l’ingresso del camerino del direttore musicale che Chailly ha messo a disposizione di Muti (e se non fosse successo il patatrac non si sarebbe nemmeno saputo), come già capitato quando Muti aveva portato alla Scala la Chicago symphony. Chi c’era (una collega giornalista, alcuni storici fan del maestro) dice che Muti, infastidito dalla presenza di alcune telecamere, prima non abbia riconosciuto dietro la mascherina Chailly, arrivato per salutarlo e complimentarsi, e poi lo abbia invitato – le ricostruzioni dicono con espressioni poco eleganti – ad andarsene. Invito al quale il maestro Chailly avrebbe risposto con un semplice «arrivederci». Ma chi ha visto non offre una versione univoca. Peccato.
Per questo restano diversi punti di domanda. La questione dell’11 maggio, data toscaniniana, che sarebbe stata la riapertura al pubblico della Scala con i Wiener se non ci fosse stato il concerto del 10 diretto da Chailly per riaprire (giustamente) con orchestra e coro di casa la Scala al pubblico? Diversi modi di intendere, da interpreti, la musica? Questioni legate all’essere entrambi nella storia per essere direttori musicali del più grande teatro del mondo? Forse la ferita dell’addio burrascoso alla Scala per Muti, dopo sedici anni, è ancora aperta. E come dargli torto, è umanamente comprensibile, fu un momento durissimo. Per tutti. Per il maestro, per la città, per la cultura. Ma le differenze, che pur ci sono, sono (e devono essere) una ricchezza. Possono convivere, pacificamente, senza essere escludenti. Il sovrintendente Meyer, che ha chiesto e ottenuto il rinnovo di Chailly come direttore musicale sino al 2025 lo ha detto: «Sono felice di avere qui i due direttori musicali italiani di questi anni, mi piacerebbe averli entrambi in cartellone. Ho fatto molte proposte a Muti per tornare, spero accetti».
Sarebbe bello, ora, un gesto, una mano tesa. Autentica. Specie in tempi in cui – ce lo chiede la storia che stiamo vivendo e in qualche modo scrivendo – il «ne usciremo migliori» non deve essere solo uno slogan. L’arte ha il dovere di insegnarcelo. Arte fatta da artisti, che prima di tutto sono uomini. Non dimentichiamolo. Invincibili, diremmo, sul podio. Uomini, fragili, come noi, spente le luci.
Nelle foto @Silvia Lelli Riccardo Muti e i Wiener philharmoniker al Teatro alla Scala