Pubblico in sala per l’inaugurazione del Maggio musicale Daniel Harding sul podio per un Verismo colto e raffinato Racconto tra palco e realtà nella regia di Wake-Walker
Michonnet, il direttore di scena, alla fine, non riuscendo a soffocare in gola il suo grido disperato, lo dice quasi serrando i denti. Lo dice a se stesso. E lo dice anche a noi. Dice che Adriana è «Morta!». Adriana Lecouvreur, l’attrice della Comedie francais, avvelenata per gelosia dalla rivale in amore. Quell’Adriana che lui ha amato in segreto, da sempre. Eppure Maria Josè Siri, che sul palco interpreta la protagonista dell’opera di Francesco Cilea, non ha un minimo cedimento. Non una convulsione, non una smorfia di dolore sul volto. Anzi. Dritta in piedi, lo sguardo nel vuoto che guarda lontano, cammina. Esce dal palco. Va in quinta. La musica si spegne, silenziosa, dolce, quasi a cullare questo cammino ipnotico e solenne nella direzione umanissima di Daniel Harding. Adriana non è morta. Che, detta così sembra la solita trovata del regista di turno, vista e rivista per molte eroine del melodramma, morte nel libretto, non in certe regie. Eppure qui quella cosa che hai visto tante volte ha un fascino tutto suo. Emozionante. Adriana vede quella «luce che mi seduce», una luce d’amore. Che nella musica di Cilea – e nel libretto di Arturo Colautti – certo è Dio, o quello che ciascuno pensa ci attenda dopo la morte. Ma la luce verso il cui chiarore Adriana «sciolta dal duolo» vola «come una bianca colomba stanca» è un proiettore. Un proiettore teatrale. E la luce che (ci) seduce, ancora una volta, è la luce del teatro. Finta, artificiale. Eppure vera, spesso più vera della vita.
Zampata del regista Frederic Wake-Walker che arriva alla fine di un Adriana Lecouvreur tutto sommato tradizionale. Regia senza particolari colpi, sicuramente la meno brutta di quelle viste in Italia di Wake-Walker – una poco a fuoco Arianna a Nasso e soprattutto le per nulla riuscite Nozze di Figaro viste al Teatro alla Scala dove lo ha portato l’allora sovrintendente Alexander Pereira che oggi, alla guida del Maggio musicale, lo ha chiamato a Firenze per il tutolo inaugurale del festival numero ottantatré. Immagine, quella di Adriana che cammina verso il proiettore nella desolazione del palcoscenico spoglio (cifra stilistica, quella che vedi nella scena dell’ultimo atto, tipica dell’estetica di Wake-Walker), che ti porti a casa. Che ti resta appiccicata addosso. Racconto perfetto di quello che stiamo vivendo in questa ripartenza dello spettacolo alla presenza del pubblico, speranza, certo, ma che ha anche un carico di dolore, quello di questi mesi di chiusure – con tutto quello che vogliono dire, non solo assenza di musica, ma soprattutto di lavoro per chi di arte vive.
E, coincidenza curiosa, in questa ripartenza sul palco c’è il gioco del teatro nel teatro. Più vero della vita. Gioco che Cilea mette nella sua Adriana Lecouvreur per raccontare di «noi che siamo povera gente». Michonnet lo dice a proposito degli artisti della Comedie francais del libretto, certo. Per convincere Adriana a non giocare con i potenti. Eppure quando lo senti pensi che questa volta sia per te. E non puoi non guardarti in giro. In platea. Dove, dopo sei mesi, è tornato il pubblico. Ad ascoltare musica in teatro, dal vivo, non più in streaming su un computer o in tv. Qualcuno si è messo l’abito scuro, una cravatta che da tempo era nel cassetto. Perché si inaugura il Maggio musicale fiorentino, pronto per lo streaming (perché a porte chiuse si è provato a lungo), ma ora, dopo il via libera del governo alla riapertura dei teatri nelle zone gialle, realizzato in presenza. All’ingresso il sovrintendente Alexander Pereira saluta gli spettatori, in fila per la rilevazione della temperatura. C’è chi arriva in jeans e maglia, i vestiti della vita di tutti i giorni. Magari dal lavoro, perché, causa coprifuoco, lo spettacolo inizia alle 19. Il gel per disinfettare le mani. Sul viso la mascherina. Accorgimenti che da più di un anno ci accompagnano. Così la festa ha un sapore di quotidianità.
La racconta, ancora una volta, la lirica. Sul palco, nella regia di Wake-Walker dove tutto diventa rappresentazione, il pubblico (il coro del Maggio preparato da Lorenzo Fratini) che assiste al monologo di Adriana, ha la mascherina, come quello vero, seduto in platea, distanziato, sparso nella grande sala del Teatro del Maggio. Pubblico che si specchia in quello che accade sul palco dove si racconta il dietro le quinte fatto di quotidianità del mondo dello spettacolo. Che nel libretto è quello della Parigi del 1730, ma nella regia di Wake-Walker si sposta in avanti, in un primo Novecento dove è arrivata la luce elettrica (quella dei riflettori) e dove il teatro è ancora fatto di scene dipinte. Dentro e fuori la finzione. Dentro e fuori tra palco e realtà nella narrazione del regista scozzese (agli appalusi si presenta in kilt) che cambia continuamente prospettiva in un gioco continuo di guardare ed essere guardati, Non solo sul palco, ma anche in platea. Perché forse, tornando a teatro, il pubblico ha bisogno di fermarsi a riflettere anche sul proprio ruolo.
Pubblico che torna a specchiarsi nella musica, colta e popolare al tempo stesso, di Cilea. Grazie alla direzione convincente di Daniel Harding che non si lascia mai prendere la mano da un Verismo che si vorrebbe sempre a tinte forti. Ma la vita è fatta di sfumature che Hrding mette tutte nella sua lettura raffinata, cangiante, piena di intelligenza musicale (il leggere dentro la musica e quello che racconta), capace di mettere in luce tutti i legami del Verismo con la grande musica mitteleuropea del tempo. Strauss su tutti, che senti in filigrana nella direzione di Harding dove il suono respira, si libera di pesantezze e incrostazioni per arrivare in modo inedito, certo sorprendente, ma sempre a piombo sulla storia e sulle note. Scelta azzeccatissima quella di Cilea per Harding. Applauditissimo. Dal pubblico e dall’orchestra. Così come Maria José Siri, commossa di fronte agli orchestrali che dettano il ritmo degli applausi. La sua è un’Adriana misuratissima, mai sopra le righe, disegnata quasi per sottrazione sia musicalmente che teatralmente. Martin Muehle disegna un Maurizio incapace di amare, Ksenia Dudnikova una corretta Principessa di Bouillon. Nicola Alaimo, commuove per la capacità di immedesimarsi vocalmente e scenicamente nei panni di Michonnet. Che, sembra dire il baritono con la sua interpretazione sempre vera (poco verista), umana, siamo noi. Con il nostro (e suo) sguardo sul teatro. Che è poi uno sguardo sulla vita.
Nelle foto @Michele Monasta Adriana Lecouvreur al Maggio musicale fiorentino