Trinfo a Milano per il maestro e i “suoi” Wiener Philharmoniker unica tappa italiana della tournée prima di volare a Neew York
Tragica. Come la vita. Come la congiuntura che sta attraversando il nostro mondo. La guerra, certo. Che è tragedia. Che è «sempre una sconfitta» come ripete instancabilmente Papa Francesco. Protagonista di un altro momento tragico della nostra storia. Perché gli occhi del mondo sono puntati verso la finestra del Policlinico Gemelli di Roma. La lotta per la vita. L’affermazione della vita. Sotto le bombe. Tra le macerie. O in un letto di ospedale. Rinnovo, ai giorni nostri, della tragedia. Quella greca che ha raccontato (e racconta ancora) l’uomo. Nella sua tragicità, appunto. Che non è sinonimo di disperazione. Non è pietra tombale – certo, dici tragedia e il pensiero va a un disastro, a una strage, a un incidente… Ma è canto, esaltazione del valore, dell’essenza più alta dell’uomo. Sofocle fa del Canto dell’uomo il centro della sua Antigone. «Molte sono le cose straordinarie, ma non c’è nulla di più straordinario dell’uomo» “dice” il coro entrando in scena mentre la protagonista è davanti a una scelta, seppellire o meno il fratello morto andando contro le regole della polis. Scelta tragica, appunto. Tragica la Sinfonia n.4 in do minore di Franz Schubert. Tragica nel titolo. Tragica, a suo modo (il secondo movimento, l’Adagio, Sehr feierlich und serr langsam, molto solenne e molto lento è una Trauermusik, una marcia funebre per Ricard wagner, per accompagnarlo verso l’eternità…), Tragica a suo modo anche la Sinfonia n.7 in mi maggiore di Anton Bruckner. Umana, umanissima, spiritualmente terrena e carnale la prima. Tutta proiettata verso un oltre di luce, avvolta di Mistero, carnalmente spirituale la seconda.
La Tragica di Scubert e la Settima di Bruckner sul leggio dei Wiener Philharmoniker. E su quello di Riccardo Muti che ha portato l’orchestra che ha diretto più di tutte (la prima volta a Salisburgo nel 1971, il debutto al Musikverein, la sala del popolare Concerto di Capodanno esattamente cinquant’anni fa) al Teatro alla Scala nell’unica tappa italiana di una tournée che porta Muti e i Wiener a New York. Programma “tragico” impaginato da Muti. Programma – quasi inutile dirlo – dal profumo viennese. Profumo che Muti riveste della drammaticità, della tragicità del melodramma – quella di Spentini e Cherubini che Schubert mette nella sua pagina, quella wagneriana, trasfigurata da Bruckner nella sua Settima. «Dopo una tale pagina un bis sarebbe una volgarità» ha detto Muti dal podio che è stato suo per diciannove anni. Solo il silenzio. Perché Muti spegne gli applausi. Lo fa, come sempre, con quel sorriso disincantato con il quale guarda alla vita e alla musica. «Non sono come qualche mio collega che fa di tutto, andando a stringere la mano anche alla terza arpa, pur di far durare all’infinito il conto dei minuti di appalusi…»
Detto con il sorriso. Certo. Necessario. Ance dopo gli assordanti «bravo!» che hanno salutato il maestro sin dal suo ingresso sul palco del Piermarini – in platea e nei palchi Liliana Segre, Roberto Bolle, Miuccia Prada, Diana Bracco e tanti volti della Scala anni Novanta… ma anche, seduti uno a fianco all’altro, il sovrintendente Fortunato Ortombina e il suo predecessore Dominique Meyer. IN sala applausi, dietro le quinte volti storici della Scala di Muti a chiedere una foto al maestro.
Chiasso. Anche visivo. Perché dopo una serata così il silenzio. Si impone dopo un ascolto come quello che Muti e i Wiener hanno proposto. Una lunga meditazione sulla vita. Su quella che noi oggi stiamo vivendo. Perché ascolti la Tragica, ascolti l’Allegro finale che Muti attacca a un ritmo forsennato, lo ascolti e rimani ancora una volta disorientato dai suoi repentini cambi di umore… e non puoi non pensare alla schizofrenia di una società che dice di voler fare la pace armandosi fino ai denti. Ascolti la Settima, lo Scherzo dall’incedere sinistro e plumbeo, un finale che sembra non voler mai finire di avvolgersi su se stesso, guardandosi dentro, e non puoi non pregare (ognuno guarda in alto, si rivolge a chi ritiene possa ascoltarlo…), pregare perché le ferite del mondo trovino chi possa curarle.
Tragicità della vita nella lettura di Schubert e Bruckner proposta da Muti, Capace ogni volta di esaltare come pochi il disegno puramente musicale delle pagine che ha di fronte (rimandi, profezie si intrecciano) e al tempo stesso di “sporcarle” di vita. Gioco facile, certo, quando il suo strumento è un’orchestra – l’Orchestra ti verrebbe da dire perché (forse) è davvero la migliore al mondo – come i Wiener Philharmoniker. Suono unico. Inconfondibile. Archi che cantano all’unisono – e se chiudi gli occhi potresti pensare che ci sia un solo di violino, ma poi li apri e vedi che tutti gli archi suonare e respirare insieme e muoversi insieme come in una danza che dice anche di una partecipazione fisica alla musica –, vibrano insieme tracciando poi nell’aria arcate che non sgarrano di un millimetro… legni che sono un ricamo prezioso, corni che ti avvolgono con una inaspettata dolcezza, tube wagneriane trasfigurate in un suono che sembra venire da un Altrove…
Quello che Schubert insegue. Quello che Bruckner indica all’orizzonte, innalzando il suo inno al Creato… Quello che Muti, ancora una volta, ti ha fatto intravedere, quasi pregustare, catarsi tragica, esperienza quasi mistica come solo la grande musica è in grado di far provare.
Nelle foto @Silvia Lelli Riccardo Muti e i Wiener Philharmoniker al Teatro alla Scala