Al Teatro Alighieri di Ravenna un nuovo Giulio Cesare di Händel con Dantone, l’Accademia bizantina e la regia di Chiara Muti Quattro controtenori sul palco: Pe, Fiorio, Mineccia e Gavagnin
Potrebbe essere un personaggio di Giovanni Testori, un Ambleto o un Macbetto della Trilogia degli scarrozzanti – ispirata a William Shakespeare e ai suoi personaggi, riletti e raccontati con un linguaggio dove si fondono esi confondono il latino e il brianzolo – potrebbe essere un Ambleto o un Macbetto il Giulio Cesare (la memoria certo va a Shakespeare, ma anche a George Bernard Shaw) che Chiara Muti racconta sul palco del Teatro Alighieri di Ravenna. In bilico tra tragedia e avanspettacolo – il coro finale, in questa nuova produzione che gira tra i teatro dell’Emilia Romagna, «Ritorni omai nel nostro core», è un bis sugli applausi, un numero da proporre in passerella. Costumi di una vecchia compagnia di giro volutamente eccessivi, pose da rivista, coreografie con mossette e ammiccamenti, alto e basso che si mischiano continuamente.
Giulio Cesare di Georg Friedrich Händel, che ha inaugurato la stagione dell’Alighieri (gira poi a Modena, Piacenza, Reggio Emilia, ma anche a Lucca e Trento e Bolzano), diventa un guitto nella rilettura della regista ravennate – scuola Piccolo teatro, ai tempi di Giorgio Strehler, ma anche una cultura che affonda le radici nei racconti dell’infanzia, miti e leggende narrate come fiabe della buonanotte… e ci sono tutti (a volte c’è anche un po’ troppo) in questo nuovo allestimento dell’opera barocca, le Parche e il Sogno shakespeariano con un Cesare/Bottom e una Cleopatra/Titania. E non si fermano qui i riferimenti al Bardo, perché Sesto piange la morte del padre Pompeo con in mano un teschio, vestito di nero… e subito pensi ad Amleto e a un «Essere o non essere…» traslocato dalla Danimarca all’Egitto. E pensi ancora ad Amleto quando a Cesare appare il fantasma di Pompeo, così come ad Amleto appare lo spettro del padre. E sul Piangerò la sorte mia vediamo la congiura che uccide Cesare, «Tu quoque, Brute», e il suicidio con l’aspide di Cleopatra.
Rappresentazione. Racconto per immagini. Perché Giulio Cesare (la dicitura in Egitto stavolta non compare in locandina) diventa un attore di giro, protagonista di uno psicodramma collettivo dove si mette in scena uno dei nodi che da sempre – Caino e Abele lo dicono prima di tutti – accompagna l’uomo, la lotta per il potere. Tutti in scena, all’inizio e alla fine dell’opera, in una danza – che sa tanto di psicodramma, appunto, di seduta di una terapia collettiva – nella quale, come in un gioco, ci si passa la corona. Che, alla fine della musica (come nei giochi che si facevano da bimbi girando intorno alle sedie o passandosi un manico di scopa), resta sulla testa di Giulio Cesare. Così (ri)parte il dramma. O la commedia. Il racconto della campagna dell’imperatore in Egitto dove «Cesare venne, e vide e vinse», siamo subito nel mezzo dei fatti. C’è la testa di Pompeo che Tolomeo offre a Cesare come regalo di benvenuto, c’è Cleopatra che seduce l’imperatore nei panni di Lidia (gioco shakespeariano…). C’è la lotta tra i fratelli, Tolomeo e Cleopatra, per il potere, lui soccomberà, lei trionferà. Ma è un attimo. Perché alla fine, dopo che Cesare e Cleopatra hanno siglato il loro patto – quanta freddezza, quanto poco amore in due che si dicono «più amabile beltà, mai non si troverà del tuo bel volto» – riparte lo psicodramma. Riparte, o torna indietro come in un rewind, il vorticare della corona. Riparte la danza intorno alla testa (scomposta e ricomposta) di Cesare, unico elemento della scenografia di Alesando Camera (i costumi sono di Tommaso Lagattolla).
Una danza raccontata dalla musica di Händel restituita da Ottavio Dantone (anche al clavicembalo) e dalla sua Accademia bizantina (nata a Ravenna, lo dice l’aggettivo…) attraverso una prassi consolidata da tempo per questo repertorio, quella delle esecuzioni storicamente informate, proposte con strumenti d’epoca. Qualche deroga alla filologia nelle abbondanti sforbiciate (a partire dal coro iniziale) al libretto (nonostante questo lo spettacolo supera abbondantemente le tre ore, con un solo intervallo…). Una lettura dal sapore antico – Dantone ha fatto scuola e le sue intuizioni, le sue conquiste (a loro volta figlie della scuola nordeuropea) oggi sono continuate, si sono sviluppate, ramificate in diverse “scuole” – una lettura capace di sbalzare la bellezza nell’immediata semplicità della scrittura. Sapore antico nel Giulio Cesare di Dantone, tutto in crescendo nel canto con il trascorrere della arie (e il rodaggio delle recite non potrà che far bene allo spettacolo).
Quattro controtenori in scena. Raffaele Pe è un Cesare tutto muscoli e irruenza, in attacco nelle sue arie di furore – spada sguainata, un colpo al cappotto che lo avolge e riempie la scena –, dolente, ma sempre con carattere e graffio, in quelle più languide. Appalauditissimo, insieme ai solisti dell’Accademia bizantina, nel funambolico «Se in fiorito ameno prato». Federico Fiorio disegna un Sesto appassionato e dolente, molto musicale e capace di trasmettere il dolore della perdita. Filippo Mineccia è un Tolomeo un po’ pallido (centri e bassi spesso si perdono), molto caricaturale – ma così lo vuole la regia, effeminato (come si vede in diversi allestimenti del Giulio Cesare) e in “gara” con la sorella Cleopatra per essere la primadonna della rivista. Nireno è un puntuale Andrea Gavagnin.
Due le donne. Coem da libretto. Cleopatra ha il fascino vocale di Marie Lys, Cornelia il carisma di attrice di Delphine Galou. Ci sono poi l’Achilla di Davide Giangregorio e il Curio di Clemente Antonio Dailotti. Tragicomici personaggi di una rivista, di un avanspettacolo. Di un carro di tespi che porta questi scarrozzanti della lirica a raccontare, ogni volta ripartendo da capo nel gioco del potere, la vita.
Nelle foto @Zani/Casadio Giulio Cesare al Teatro Alighieri di Ravenna