Gatti con la Petite messe solennelle di Rossini prega per la pace nel Natale della Scala

Grande lettura rossiniana del direttore d’orchestra milanese Intese le prove del coro e Sicilia, Shi, Berzhanskaya e Pertusi

Prima il Miserere nobis, l’invocazione di pietà all’Agnus Dei, all’«Agnello di Dio che togli i peccati del mondo». Poi, alla terza volta, come vuole la liturgia, la richiesta più accorata, più urgente, Dona nobis pacem. Donaci la pace, perché ci opprime il «peccato del mondo» di oggi, il più grande di tutti, la guerra. Che calpesta vite, che soffoca la speranza. Dona nobis pacem, detto sottovoce, ripetuto, ribadito dal mezzosoprano e dal coro. Gioachino Rossini lo vuole così, invocazione che nasce dal cuore, contagiosa, alla fine della sua Petite messe solennelle.

Uno dei “peccati di vecchiaia”, come il compositore di Pesaro definiva le sue ultime partiture, lavori scritti dopo aver detto addio al melodramma, raccolti nei volumi dei Péchés de vieillesse. Occupa tutto il primo volume la Petite messe solennelle, scritta nel 1863 a Passy, per soli, coro, due pianoforti e harmonium. Orchestrata dallo stesso Rossini (Offertorio a parte, lasciato al solo organo) nel 1867 – la prima a Parigi nel 1896, un anno dopo la morte di Rossini. Mai eseguita al Teatro alla Scala in questa versione. L’ha portata Daniele Gatti che l’ha voluta mettere sul leggio per il Concerto di Natale. Programma spirituale. Natalizio nel mettere al centro la pace. Intenso. Non liturgico, perché non lo è la Petite messe solennelle, ineseguibile durante una celebrazione – per le dimensioni, certo, il Gloria supera la mezz’ora. Pagina modellata sul testo liturgico, ma teatrale, mossa dalla stessa urgenza narrativa che il compositore metteva nelle sue opere – cosa che accade anche con la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, teatralissima anche a scapito dell’ispirazione. Dentro, in questa versione della Petite messe solennelle, c’è il Rossini teatrale, c’è quel modo unico di raccontare, ma c’è anche una proiezione in avanti, un affaccio sull’abisso dello spirito.

Programma spirituale, quello scelto da Gatti, acclamato sin dal suo ingresso sul palco a inizio serata, salutato da un trionfo carico di affetto – l’affetto della sua Milano, di orchestra e coro scaligeri che lo aspettano come prossimo direttore musicale del Teatro alla Scala dal 2026 – alla fine dell’ora e mezza senza respiro della Petite messe solennelle. Programma spirituale tutto calato nel nostro presente di guerra. Perché il Dona nobis pacem è il vertice della lettura di Gatti. Lettura che (anche questa volta, come capita sempre con il musicista milanese) fa la storia. Storia rossiniana. Storia della musica. Intensa la lettura di Gatti, musicalissima, attenta ad ogni dettaglio, disarmante per la bellezza con la quale il direttore restituisce, impastate insieme, drammaticità e poesia. La poesia, capace di avvolgere e consolare, del Kyrie, che quando inizia cerchi di capire da dove arrivi, eco lontano che il coro di Alberto Malazzi dice sul fiato. Pagina corale, tutta costruita su un continuo e intenso dialogo tra orchestra e voci, quelle soliste, tutte eccellenti, sono di Mariangela Sicilia e di Yijie Shi, di Vasilisa Berzhanskaya e di Michele Pertusi, che hanno sempre e da sempre una marcia in più, incredibili.

Il Gloria, l’altra icona musicale, annuncio di pace, da sempre, Gloria in excelsis Deo et in terra pax ho minibus bonae voluntatatisi, da quando gli angeli hanno annunciato ai pastori la nascita di Gesù, è un affresco di colori, il Credo è umanissimo, l’Offertorio (che Gatti propone nell’orchestrazione di Alberto Zedda, la pagina era l’unica non orchestrata da Rossini) inaspettatamente inquieto. Il Sanctus è antiretorico, tutto sussurrato, solo voci, niente trionfalismi. Come l’Agnus Dei con il Dona nobis pacem. Grido necessario. Che se detto quasi sottovoce acquista una forza rivoluzionaria. La forza della preghiera.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala il Concerti di Natale 2024