L’opera di Verdi apre la stagione alla Deutsche Oper am Rhein Irritante regia di Ilaria Lanzino che stravolge libretto e musica
In Germania lo fanno strano. Cosa fanno strano? O meglio, chi? Giuseppe Verdi, pensano molti al di qual delle Alpi. Quel Verdi che «diede una voce alle speranze e ai lutti, pianse ed amò per tutti». Per tutti. Non solo per gli italiani – la citazione è di Gabriele D’Annunzio, ma ormai questo lo sanno tutti (al di qua delle Alpi, almeno) dopo che Riccardo Muti ha fatto di questo verso un mantra, un monito per metter in guardia dal trattare il compositore con sufficienza. A proposito del maestro. È lui (non solo lui, certo…) è lui, Riccardo Muti, che sostiene che in Germania lo fanno strano. Che fanno strano quel Verdi che ancora oggi racconta sentimenti universali con una musica modernissima, capace di stare al fianco (se non al di sopra) di quella dei grandi compositori mitteleuropei – quelli di cui in Germania, giustamente, vanno fieri e guai a spostare una virgola di Richard Wagner, ad esempio, sarebbe oltraggio e vilipendio. Però Verdi, in Germania (spesso) lo fanno strano. Zum pa pa… secondo un cliché volgare che non trova corrispondenza nella musica del compositore emiliano – basta leggerla, non c’è un passaggio che sia così (lo si fa così, e questa è tutta un’altra cosa… è ignoranza musicale). Tagli impietosi (siano interi da capo delle cabalette o due battute… cosa che vuol dire non capire nulla della drammaturgia musicale verdiana, ma questo sarebbe troppo lungo da spiegare a chi non vuole capirlo… registi, innanzitutto, ma ahimè anche direttori d’orchestra), tagli impietosi, cambi di testo, ribaltamenti drammaturgici… e dunque di senso. E questo non per modernizzazioni arbitrarie che se ben fatte possono (potrebbero) raccontare “oggi” una storia che ha (ancora) un senso. Perché di Verdi “contemporanei” che un senso ce l’hanno se ne sono visti… e tanti… e anche in Germania.
Poi capita di essere una sera alla Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf per una replica del titolo inaugurale della stagione, Nabucco. SempreVerdi e sempreverde nella sua contrapposizione tra ebrei e babilonesi, aggiornabile ad ogni epoca – certo anche la nostra, drammaticamente, epoca di guerra tra israeliani e palestinesi, ma non solo la nostra dato che la storia di quella terra contesa è vecchia come il mondo… senza scomodare Caino e Abele o Abramo e la terra promessa… Capita di essere alla Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf e trovarsi di fronte ad una storia che un senso non ce l’ha… per citare una delle hit di Vasco Rossi che forse conoscono anche in terra germanica. Ti ci metti d’impegno, perché, come dice il rocker di Zocca, «voglio trovare una senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha». Ma non ci riesci. Perché «questa storia un senso non ce l’ha» proprio, concludi amaro mentre il pubblico tedesco applaude e ride (sì, incredibile, ride ad una recita di Nabucco…!!) e tu ti arrabbi per come il più grande di tutti gli italiani che hanno fatto l’Italia (insieme ad Alessandro Manzoni) sia deriso così impietosamente. E la rabbia è tanta, ancora più bruciante perché il “colpevole” è qualcuno che non dovrebbe macchiarsi di una colpa così grave… Ma mettiamo in ordine i fatti.
Sinfonia. Bellissima. Gli ottoni che declamano, scaldano il cuore. Gli archi che volano, elevano l’anima. I temi dell’opera riassunti in una manciata di minuti che sono un inno alla libertà (che – da italiano – non ti fa stare fermo sulla sedia, vorresti dirigerlo, cantarlo…). Sinfonia. Bellissima – quella di Verdi, un po’ meno quella che dirige Vitali Alekseenok, sommaria, superficiale. Sinfonia. E parte un video – perché oggi pare non se ne possa fare proprio a meno. Un video anche ben fatto, diciamolo. Pensato. L’occhio di un grande fratello che scruta nelle vite degli altri. Palazzi in campo largo. E poi zoom sulle finestre. A spiare madri, coppie (etero e gay, multirazziali… non potrebbe essere altrimenti in un paese che dopo l’Olocausto ha fatto della tolleranza la sua parola d’ordine, il suo imperativo morale), bambini – bella l’intuizione di catturarli durante una lezione di flauto proprio mentre in orchestra il flauto evoca il tema del Va’ pensiero… piccolo spoiler, saranno poi quei bambini, quando il Va’ pensiero risuonerà in scena, nel canto “sotto voce” come lo vorrebbe Verdi, a dare una svolta alla storia, a provare a fare la pace.
Zoom sulle vite degli altri per raccontare solitudini e speranze di futuro. Vediamo dove si va a parare. L’inquadratura si allarga e sui quei palazzi piovono bombe. Perché il tavolo delle trattative è saltato – Nabucco, Abigaille, Zaccaria, Fenena, Ismaele, Abdallo… i nomi dei “negoziatori” appoggiati al tavolo che volano insieme alle sedie e ai vasi di fiori. Bombe che seminano morte e distruzione. Macerie e cadaveri. Che sono poi «gli arredi festivi» che «giù cadono infranti». Scenario di tutto questo nuovo Nabucco tedesco. Le scene sono di Dorota Caro Karolczak. Importanti. Sfarzose nel palazzo di Nabucco che sale dalle viscere del palcoscenico, bunker di oro e marmo nel quale il potere si è asserragliato. Kitsch come la casa di un boss mafioso. Ridondante come il Castello delle cerimonie (scenario di un programma della tv trash italiana dove si celebrano matrimonio e comunioni hollywoodiane in salsa partenopea). Bunker che non salva Nabucco da un attentato, attentato bipartisan perché a piazzare ordigni nella sala del trono sono sia Zaccaria che il Gran sacerdote di Belo. Colpo di genio (?!) della regia che traduce così in immagini il fulmine che colpisce il re quando proclama «non son più re son dio».
Ed è tutto un susseguirsi di colpi di scena (?!) questo Nabucco. Che inizia con le bombe sui palazzi (di Gaza? di Kiev?), prosegue con Fenena che tenta il sudicio anche se il libretto di Temistocle Solera la vuole prigioniera di guerra di Zaccaria, il pontefice degli ebrei che, minacciando di uccidere la figlia di Nabucco spera di evitare la distruzione del tempio… ribaltamento drammaturgico che si mette in atto facendo dire, facendo cantare a Fenena le parole che Solera e Verdi affidano a Zaccaria: «Iniquo, mira! Vittima costei primiera io sveno. Sete hai di sangue? Versilo della tua figlia il seno…». E qui sobbalzi sulla sedia. Perché? Stravolgimento drammaturgico. Stravolgimento del “senso” che offre Verdi, uomo di teatro grandissimo, al pari di William Shakespeare (se non lo capisci forse capisci poco di teatro…) che mette nel suo “testo” tutto ciò che serve per buttarci in faccia la modernità di una storia (e questo a prescindere, come detto, dalle “modernizzazioni” visive…) che, basta ascoltara, sa parlare al nostro presente senza bisogno di sovrastrutture – qui responsabile della drammaturgia è Heili Schwarz-Schütte. Il tentato suicidio di Fenena e l’omicidio di Abigaille che scopre nel «ben io t’invenni o fatal scritto» di essere «prole di schiavi», figlia di una cameriera di palazzo che entra in scena, anziana e acciaccata desiderosa solo di rivelare alla figlia il segreto riabbracciandola, ma che Abigaille pensa bene di uccidere, strangolandola. Nabucco pulp.
E tutto il racconto si muove su due binari, le lotte di potere e le lotte familiari. Perché vediamo l’origine dell’odio e della sete di vendetta di Abigaille. Le schermaglie di bambini, i litigi, gli amorazzi infantili della Junge Fenena e lo Junger Ismaele che escludevano dai giochi Abigaille (vestita di viola e leopardo, costumi chiassosi di Carola Volles che acconcia Nabucco come un domatore del circo e gli ebrei deportati come i profughi di una delle tante guerre di oggi). Vediamo i bambini (altro topos ormai abusato nelle regie) doppiare gli adulti. Vediamo i bambini di ieri guardare gli adulti di oggi. Vediamo la Junge Abigaille ragazzina guardare l’Abigaille adulta che imbocca Nabucco, infermo su una carrozzina dopo il doppio attentato – ecco come viene raccontato il grande duetto della terza parte, quello del «Deh perdona…». Doppio attentato, immagine di tanti attentati di oggi (in realtà, forse, di ieri o dell’altro ieri, di un inizio esplosivo degli anni Duemila, dalle Torri Gemelle in poi) marchio di fabbrica di un fondamentalismo che in questo Nabucco, Nabucco fondamentalista, non ha colore, non ha “religione”. Popoli contrapposti che usano le stesse armi. Popoli in trincea che, quando risuona il Va’ pensiero provano a darsi la mano – i bambini della Sinfonia qui suonano la melodia degli ebrei esuli a Babilonia su fronti opposti e aiutano i loro popoli ad unirsi.
Uniti per rovesciare il potere. Che litiga. Che fa saltare il tavolo delle trattative. Ed ecco l’altro brivido. L’altra arrabbiatura. L’altro nervoso che sale e che fatichi a ricacciare indietro, perché vorresti urlare… sulla cabaletta di Nabucco. Parte quarta. Parte, non atto, Verdi e Solera scandiscono il racconto in parti, ciascuna con un titolo (succederà anche ne I lombardi alla prima crociata), Gerusalemme, L’empio, La profezia e L’idolo infranto. Parte quarta. Il re ha invocato il «Dio di Giuda» promettendo che «l’ara, il tempio a te sacri sorgeranno» e assicurando «adorarti ognor saprò». Arrivano i suoi uomini con Abdallo. Gli consegnano le armi «per conquistare il soglio». E parte l’«O prodi miei seguitemi…». Che, idea scellerata (chi è il colpevole? anche se un’idea l’avremmo…), viene spezzettato, cantato, una frase ciascuno, da Nabucco, Abigaille, Fenena, Zaccaria, Ismaele… mentre il tavolo delle trattative (lo stesso che si era visto sulle note della Sinfonia) salta. E tutti vengono arrestati. Messi alla gogna, un naso rosso da clown, una corona di carta in testa… legati ad un palo per essere bruciati… si salva solo Fenena. Perché? «Voglio trovare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha» direbbe Vasco Rossi. Vendetta del popolo. Con i cittadini – appellativo con il quale si chiamavano i rivoluzionari francesi, ma tanto caro anche ai Cinque stelle, cittadini e non politici che hanno avuto la loro (più o meno fortunata e fortunatamente già tramontata) stagione nella politica italiana – con i cittadini che si siedono su quel tavolo. E (sicuramente) iniziano di nuovo a litigare.
Basta questo Nabucco per dire che in Germania lo fanno strano? Che fanno strano Giuseppe Verdi? Basta e avanza. Anche se certo, come si dice in questi casi, non si può fare di tutta un’erba un fascio. Perché in Germania ci sono allestimenti bellissimi, tutti sul testo (letterario e musicale), illuminanti e rivelatori di nuove e inaspettate chiavi di lettura delle grandi (ma anche piccole) partiture.
Basta e avanza. Ma fermi tutti. Perché dispiace dirlo, ma a “farlo strano” non è un regista tedesco. Ma una regista italiana. Ed è questo che fa ancora più arrabbiare. Italianissima. Nata a Pisa, formatasi a Venezia. E lasciamo da parte il commento che sarebbe troppo facile: se siamo i primi noi italiani a non valorizzare il nostro patrimonio… Perché la responsabile, vogliamo dire colpevole? diciamolo… la colpevole di questo stravolgimento di senso è Ilaria Lanzino. Nome in continua e irrefrenabile ascesa in Germania, sembra che ogni teatro faccia a gara per avere il suo nome in cartellone. Regista “militante” con scarpe rosse davanti ai teatri per denunciare la violenza sulle donne (istanza sacrosanta). Ma quanto l’urgenza è davvero etica e quanto è la riconcorsa al titolo di giornale a guidare le scelte? Potremmo parlare di moda. La moda che anche in teatro ha i suoi corsi e ricorsi. Oggi tutti i teatri vogliono in cartellone uno spettacolo con la regia della Lanzino. Vogliono il teatro militante, la denuncia… va di moda, ma come tutte le mode, forse, prima o poi passerà.
Certo da chi guida un teatro, «un teatro d’arte per tutti» auspicava Giorgio Strehler fondando il Piccolo Teatro di Milano e mettendo in quel «per tutti» l’urgenza di parlare al presente con l’intelligenza di leggere nei testi del passato, certo che chi guida un teatro dovrebbe saper distinguere la moda del momento dall’istanza senza tempo dell’arte. Tanto più che il cui più grande colpo di genio della Lanzino è stato Luca di Lammermoor. Luca, sì, non è un errore di battitura, perché la Lanzino per lo Staatstheater Nürnberg si è “inventata” una versione queer dell’opera di Gaetano Donizetti con Lucia che diventa Luca (e di conseguenza Arturo, quello che il fratello le vorrebbe far sposare, cambia sesso e diventa Emilia), Luca (scritto in locandina) innamorato di Edgardo, un amore omosessuale e dunque inaccettabile (peccato che cuore del dramma di Walter Scott messo in musica dal compositore bergamasco sia la ragion di stato che si contrappone all’amore… ma pazienza). Anche qui «voglio trovare una senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha».
E un senso sembra non averlo, o almeno averne poco, la direzione di Vitali Alekseenok, bielorusso di nascita, russo di formazione, residente in Germania dove è Kapellmeister della Deutsche Oper am Rhein. Una direzione – ma perché ha accettato le modifiche al testo imposte dalla regia? – una direzione poco verdiana (mai sentito un Va’pensiero così ordinario, poco curato…), pesante, “tedesca” (ma il Nabucco tedesco di Giuseppe Sinopoli era un’altra cosa, un’altra vertigine), poco attenta al canto in una continua rincorsa tra buca (dove i Düsseldorfer Symphoniker non sono così precisi) e palcoscenico (il coro parte bene, ma poi il colore sbiadisce e si opacizza).
Palcoscenico (ma anche platea, perché Nabucco per tutta la prima parte, quella nel Tempio di Gerusalemme, canta affacciato a un palchetto del secondo rang) dove il re ha la voce piena e rotonda di Alexey Zelenkov, non immune da sporcature, ma intenso nel disegnare il ritratto del protagonista nella sua parabola di ascesa e caduta. Il migliore in campo è lo Zaccaria timbratissimo e misuratissimo, intenso ed efficace di Liang Li. All’opposto c’è l’Abigaille di una troppo discontinua Svetlana Kasyan (il suo alterego fanciullo è una comunicativissima Lina Emilie Göke). Jussi Mylls e Kimberley Boettger-Soller sono Ismaele e Fenena (“doppiati” da Jonathan e Livia Matys), corretti come corretti sono Beniamin Pop, Riccardo Romeo e Elisabeth Freyhoff, il Gran sacerdote di Belo, Abdallo e Anna.
Tutti sul rogo (tranne Fenena) in un finale che «un senso non ce l’ha». Che sembra appiccicato lì perché sembra che la regista non sapesse più come mettere un punto al delirio Nabucco. Il nome di Ilaria Lanzino, marchio di fabbrica di un teatro militante in Germania, per ora non compare nei cartelloni italiani. Nessuno ha voluto rendersi “complice” per ora. Per ora… perché gira voce che potrebbe fare una Passione di Bach in forma scenica al Teatro dell’Opera di Roma. E allora non sarà solo in Germania un posto dove “lo fanno strano”.
Nelle foto @Sandra Then Nabucco alla Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf