Il Roberto Devereux nella versione originale di Napoli del 1837 inaugura la decima edizione del Donizetti opera di Bergamo Sul podio il direttore musicale del festival Riccardo Frizza
Dieci anni di «modello Bergamo». Nel mondo, nei teatri lirici al di qua e al di là dell’oceano, dal Teatro alla Scala al Metropolitan di New York, quando si vuole mettere in scena un titolo di Gaetano Donizetti si guarda a come lo si fa a Bergamo. «Integrale, in versione originale, in edizione critica» sintetizza Riccardo Frizza. Che del Donizetti Opera di Bergamo è, dal 2017, direttore musicale. E dunque ha messo a punto il «modello Bergamo» in un lungo lavoro di collaborazione «con la Fondazione Donizetti e con la Ricordi per la realizzazione dell’Edizione nazionale». Un lavoro scientifico sulle partiture. Che poi arrivano in scena «in versione originale, integrale e in edizione critica». E un lavoro artistico, per proporre una nuova interpretazione deli capolavori «noti e meno noti di Gaetano», fatto fianco a fianco del direttore artistico Francesco Micheli che saluterà Bergamo dopo l’edizione 2024 del Donizetti opera. Edizione numero dieci che si inaugura il 15 novembre al Teatro Donizetti con il Roberto Devereux, diretto da Frizza, con la regia di Stephen Langridge e le voci di Jessica Pratt, Raffaella Lupinacci e John Osborn. Tre opere, in scena sino al 1 dicembre, per il festival. Il 16 novembre tocca a un titolo raro, Zoraida di Granata, opera del 1824, che il regista Bruno Ravella ambienta nella Biblioteca di Sarajevo. Dirige Alberto Zanardi. Cantano Zuzana Marková e Cecilia Molinari. Spettacolo al Teatro Sociale in Città alta. Il 17 si torna al Teatro Donizetti con un grande classico, Don Pasquale, presentato per la prima volta nella nuova edizione critica a cura di Roger Parker e Gabriele Dotto. Dirige Iván López-Reynoso, regia di Amélie Niermeyer, protagonista Roberto De Candia insieme a Javier Camarena e Giulia Mazzola. «Sul leggio – spiega Frizza, classe 1971, bresciano che ha conquistato Bergamo – la versione originale del 1837 del Roberto Devereux, che Donizetti scrisse per il San Carlo di Napoli. Che sicuramente sorprenderà per le novità che offre».
Quali sono, Riccardo Frizza?
Il Devereux napoletano, rispetto a quello ripensato per Parigi, non ha la Sinfonia. E noi non la eseguiremo. C’è invece un breve prologo, dodici battute, che ci porta direttamente dentro l’azione. Un meccanismo drammaturgico molto moderno, che ci fa pensare a quello che Verdi farà qualche anno dopo in Rigoletto, dove anche lì c’è un breve preludio che, squadernando il tema della maledizione, porta direttamente nel cuore della vicenda. Una rivoluzione, che già Donizetti aveva iniziato. E questo ci dice che a volte prendiamo a modello autori che lo sono diventati dopo, guardando ad altri che avevano già iniziato le innovazioni che poi loro hanno portato a compimento. Il Devereux è un’opera di una modernità assoluta per come Donizetti tratta l’orchestra, razionale rispetto al dramma che mette in musica. E soprattutto il compositore qui destruttura i modelli tradizionali per adattare le forme alla drammaturgia e non viceversa. Questa è una rivoluzione assoluta e fa del Devereux il capolavoro italiano di Donizetti.
E Lucia di Lammermoor?
Certo Lucia ha melodie bellissime, ma è un’opera più tradizionale, legata a forme rossiniane ed è la drammaturgia che si piega ad esse. Le novità del Devereux aprono prospettive importanti nel mondo dell’opera. Il Devereux, a parte nella scena della lettura della sentenza, si svolge tutto in stanze private, perché è una storia di rapporti incrociati, intimi e infatti c’è poca presenza del coro, della collettività. Un aspetto vincente perché al pubblico è sempre piaciuto andare a vedere il dietro le quinte del potere, specie di quello reale. Ieri come oggi. Pensiamo solo a come hanno appassionato e continuano a farlo le vicende del trono d’Inghilterra, con Elisabetta, Carlo, Diana e Camilla, William e Kate.
Il Donizetti Opera festeggia i dieci anni, sette con la sua direzione musicale. Che bilancio traccia?
In dieci anni si è fatto tantissimo. Abbiamo proposto titoli rari e inusuali che hanno fatto capire da dove viene questo autore. Il progetto Donizetti200 per celebrare i titoli a due secoli dalla loro prima, la proposta di alcune partiture con l’orchestra Gli Originali su strumenti d’epoca, il lavoro scientifico sulle partiture in collaborazione con la Fondazione Donizetti e il lavoro sull’Edizione nazionale con Ricordi. Un lavoro importante perché queste partiture sedimentino e offrano ai teatri di tutto il mondo un modo di interpretare questo autore, in versione integrale e filologica. Che è poi quello che i teatri iniziano a chiedere. Una strada aperta da Rossini opera festival di Pesaro. Me ne sono accorto una decina di anni fa quando mi hanno chiamato al Metropolitan a dirigere Armida e mi hanno proposto, senza che io dicesso nulla, l’edizione critica della partitura in versione integrale. Questo sta iniziando a succedere anche con Donizetti. E serve perché il belcanto italiano è stato troppo a lungo bistrattato con opere tagliate a seconda delle esigenze della diva di turno.
Ma è davvero necessario riscoprire questo autore che sembrerebbe abbastanza conosciuto dal pubblico?
Fino a quarant’anni fa si conoscevano solo Lucia, Elisir e Don Pasquale. Poi grazie a persone illuminate come Gianandrea Gavazzeni, direttore bergamasco, e a cantanti come Johan Sutherland, Edita Gruberova e Mariella Devia che hanno fatto delle eroine donizettiane i loro cavalli di battaglia, si è iniziato a riscoprire altri titoli. Oggi la “tetralogia” Tudor (insieme a Anna Bolena, Maria Stuarda e Roberto Devereux ci metto Il castello di Kenilworth che ho diretto qui a Bergamo) è popolare e regolarmente presente nei cartelloni dei teatri di tutto il mondo. La favorite non si fa più in traduzione italiana, ma nella versione originale (e integrale) francese. E questo anche grazie al lavoro del festival.
Nel percorso di questi anni, del festival e della sua direzione musicale, i grandi capolavori, come L’elisir d’amore, ma anche rarità come il Belisario.
Compito di una rassegna come il Donizetti Opera è quello di proporre in un’ottica nuova i grandi capolavori e allo stesso tempo di far conoscere al pubblico i titoli dimenticati. Anche per capire da dove viene Donizetti e chi ha ispirato poi. Come direttore musicale sono impegnato in prima linea in questo. Quando abbiamo fatto il Marino Faliero, a porte chiuse perché in tempo di pandemia, abbiamo capito meglio Verdi e i suoi Foscari. Il Belisario ha gettato una luce nuova su Nabucco. Tutti titoli che sono pietre miliari. E bisogna aiutare il pubblico a capirlo.
Un lavoro sul fronte musicale, ma anche su quello dell’interpretazione registica.
Un rapporto necessario, che a volte è semplice, come in questo Devereux con Stephen Langridge che ha confezionato uno spettacolo impeccabile, elegante e shakespeariano. Alte volte invece è più difficile arrivare al pubblico con un’interpretazione innovativa, penso all’esito che lo scorso anno ha avuto Il diluvio universale, che non è riuscito a lasciare il segno che i registi volevano. Io cerco sempre di fare andare la musica dove va l’aspetto visivo perché l’opera è teatro, musica e immagine.
Lei ci sarà nel futuro del festival?
Ora siamo tutti concentrarti a varare e a far navigare a gonfie vele questa decima edizione. A bocce ferme ci si penserà. Io sono disponibile ad esserci nel futuro del festival se ci sarà un direttore artistico con il quale dialogare per proseguire nel progetto iniziato in questi anni.
Nedlla foto @Simone Falcetta Riccardo Frizza
Intervista pubblicata su Avvenire del 15 novembre 2024
Nella foto @Gianfranco Rota Jessica Pratt in Roberto Devereux