A Milano via al nuovo Ring di Wagner diretto da Simone Young Michael Volle è Wotan nello spettacolo del regista scozzese L’oro del Reno diventa un racconto tra il fantasy e il cartoon
Il Teatro alla Scala piomba nel nero. Perché tutto inizia dal buio. Come in ogni racconto degli inizi. La musica, che racconta quel “buio” con le note gravi degli archi – devi tendere le orecchie, all’inizio, per avvertire quel suono, fare silenzio dentro e fuori per sintonizzarti su quel suono muto. Un crescendo che evoca poi il caso primordiale. E l’acqua. «Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» si legge all’inizio della Genesi. Ma poi le ondine, che hanno nomi che richiamano l’acqua e i suoi abitanti, Woglinde, Wellgunde e Flosshilde, lanciano i loro «Weia! Waga! Wagalaweia! Wallala weiala weia!». E l’abisso si apre. Abisso culturale. Incolmabile. Perché noi, al di qua delle Alpi, veniamo dal Medioriente e dalla Mesopotamia, veniamo dall’Epopea di Gilgameš e, naturalmente, dalla Bibbia – che con il racconto epico mesopotamico ha in comune quell’Albero della conoscenza del bene e del male che sta all’origine del libero arbitrio.
Certo, Wotan ha strappato un ramo di un Albero cosmico per farne la sua lancia, strumento di morte e non di vita, strumento di divisione e non di conoscenza come, stando al serpente che tenta la donna, dovrebbe essere il frutto dell’albero (nessuno parla mai di mela…) quello che garantisce la conoscenza del bene e del male – il peccato originale, lo sappiamo, non è peccato sessuale, ma peccato morale, presunzione etica dell’uomo che vuole assomigliare in tutto, non solo nell’aspetto, «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» racconta la Genesi, a Dio. Woglinde, Wellgunde e Flosshilde ignorano il bene e il male. Rappresentano l’innocenza, infatti, violata dal nano Alberich quando ruba loro l’oro. Una sorta di peccato originale. Più materiale, però, meno spirituale della tentazione di mangiare il frutto dell’albero. Avidità che Alberich trasforma non maledizione. Similitudini. Ma pallide. Perché l’abisso c’è. E si sente in questa musica che viene dal Nord. Dalle saghe che mischiano dei e uomini in una prospettiva pessimistica, l’epopea del Nibelungenlied e le saghe dell’Edda.
Eppure l’abisso si apre. Abisso culturale. Incolmabile. Lo apre la musica del Ring des Nibelungen di Richard Wagner. Vertice della musica tedesca. Non fosse altro che per il tempo – ma come è diversa, qui, la percezione del tempo rispetto a come lo “sente” la Marescialla del Rosenkavalier – non fosse altro che per il tempo che ha richiesto (quello della composizione, dal 1848 al 1874) e che richiede – perché quella che oggi quasi più nessuno chiama Tetralogia preferendo dire Ring, dura qualcosa come quindici ore, distillate in quattro sere – il Rheingold è il più breve dei quattro capitoli, due ore e mezza, comunque. Musica che prende, indubbiamente. Ma forse più intellettualmente che emotivamente, nel seguire l’architettura complessa dei leitmotiv che si inseguono lungo tutto il Ring – efficace la mappa che presenta la guida tematica ai leitmotiv pubblicata sul programma di sala scaligero. Gioco perfetto (certo, la più perfetta delle quattro è Walküre) imbastito su un racconto – racconto delle origini – che avverti, però, non essere cosa nostra. Distante. Freddo. Siderale.
Capita anche al Teatro alla Scala. Che inizia un nuovo Ring, a quattordici anni (il ciclo completo era del 2013, ma Rheingold, la prima tappa, arrivò nel 2010) dal precedente targato Daniel Barenboim (lo spettacolo era di Guy Cassiers, non memorabile, sicuramente). Quello varato lunedì avrebbe dovuto avere la firma di Christian Thielemann che ha rinunciato all’impresa, però, alla vigilia dell’inizio delle prove – responsabilità, dietrologie, fatti e misfatti lasciamoli da parte, la storia (scritta con la s maiuscola, comunque) giudicherà (forse). Sulla carta poteva essere un Ring interessante. David McVicar è uomo di teatro. Un Anello lo aveva già fatto vent’anni fa, ma i tempi sono cambiati e la curiosità era quella di vedere con che occhio il regista scozzese avrebbe riletto le vicende di Wotan. Thielemann è stato lo zar incontrastato di Bayreuth – la “casa”, scomodissima, che Wagner volle edificare (sulla roccia) per rappresentare il suo Ring (e non solo quello) – per molti anni, conosce l’Anello del nibelungo dalla prima all’ultima nota e viceversa e avrebbe potuto dare una marcia in più all’orchestra scaligera (vedi la recentissima esperienza con Kirill Petrenko nel Rosenkavalier). Invece ha rinunciato – i motivi, appunto, dimentichiamoli, «le mie colpe travolgerà l’oblio» canta Manon, quella pucciniana. Doppia bacchetta allora, Simone Young e Alexander Soddy, che si divideranno l’Anello da qui al 2026 – compreso il doppio ciclo che chiuderà la Tetralogia a marzo del 2026, il primo diretto dalla musicista australiana, il secondo dal direttore britannico.
Il primo affondo nel nero della musica di Wagner è toccato a Simone Young. Braccio solido, capace di portare a casa la serata con un Rheingold umanissimo, ma poco ipnotico, poco evocativo, poco avvolgente – e poco convincente a sentire qualche dissenso piovuto alla fine delle due ore e mezza tutte d’un fiato… nota a margine: dal “tono” il buatore della direttrice sembrava uno e per di più calante e stonatello… Non è un Rheingold rivelatore quello della Young, certo, ma non è nemmeno un disastro (l’orchestra non suona come con Petrenko, ma non è nemmeno fuori stile o fuori contesto), non è una lettura che cambia il corso dell’interpretazione, ma è un Oro del Reno onesto… non certo da buare (stonando, per di più…) tanto più che l’arrivo in corsa della direttrice per prendere il posto di Thielemann dovrebbe suggerire un po’ di educata prudenza. Il Rheingold della Young (anche con il rodaggio delle recite, certo, solo tre, e con il consolidarsi dell’intesa con i musicisti scaligeri) potrebbe crescere nel tempo (nelle recite, ma anche nella tappa dell’intero ciclo del marzo 2026). Per intanto suona già molto italiano (sarà anche il suono dell’orchestra scaligera) nel passo drammatico. Forse i leitmotiv si vorrebbero più netti, più sbalzati dal magma orchestrale dal quale si levano. Li si vorrebbe avvertire più narrativi. Restano invece intuibili, colori pastello su uno sfondo nero. Che è quello delle vicende. Sgranate dalla Young in una quotidianità, a dire che Rheingold, al di là dei miti da cui attinge, è opera di conversazione, sul modello di certo Strauss (Richard) e di certo (nostro) Puccini, resa dei conti di una famiglia sull’orlo del baratro.
Niente attualizzazione, però, nello spettacolo di David McVicar. Che è un fantasy dove epoche e stili si mischiano, dove mitologia nordica e seicento si fondono e si confondono. Idea letteraria, legata alla letteratura fatta di parola. Perché un racconto, tanto più quelli di saghe e leggende, si disegna nella fantasia di chi lo legge come un mix di stili ed epoche che gli conferiscono una sorta di universale trasversalità. Il Ring è così, evoca miti che possono avere una veste primordiale, un contorno da Mistero medievale, una cinque/seicentesca elisabettianità, una preindustrialità ottocentesca o una allucinata futuribilità. McVicar racconta così questo Rheingold, primordiale ed elisabettiano insieme, ancestrale e futuribile al contempo. All’inizio siamo in un disneyano In fondo al mar, anzi In fondo al Rhein, con le ondine che fluttuano tra grandi mani (residui di statue cadute sui fondali?) mentre l’oro è un corpo maschile, scolpito e tonico, che ha una maschera dorata… lo stesso corpo che salirà strisciando, insanguinato (perché il denaro è sempre all’origine delle guerre… il messaggio fatto di simboli che arriva alla fine…), la scala che introduce gli dei – stanchi e claudicanti – al Walhalla. La Freie Gegend auf Bergeshöhen, la regione libera su vette montane (della seconda e dell’ultima scena) è un quadro alla Escher nella scala geometrica che si perde nel nulla. Il Nibelheim un globe elisabettiano dove il palco è un grande teschio dorato alla Alexander McQueen.
Teatro di macchine (il drago è uno scheletro mosso da uomini in nero, bellissimo e terrifico, i giganti sono uomini ingabbiati in creature di pietra, inquiete e inquietanti) e scene costruite (i video di Katy Tucker sono giusto visioni di luce, l’arcobaleno che conduce al Walhalla) nello spettacolo di McVicar (le scene le firma lo stesso regista insieme ad Hannah Postlethwaite). Che si apre con l’impronta di una mano in un cerchio – sarà l’anello. E si chiude con la salita faticosa degli dei, stanchi e claudicanti, al Walhalla, avvolti da un arcobaleno di luce. Chi sono gli dei? Chi i giganti? Chi i Nibelunghi? Il Rheingold di McVicar non offre, per ora (per ora, perché un Ring si legge nella sua completezza solo alla fine del Götterdämmerung quando l’Anello torna dalle Figlie del Reno), non offre, per ora una risposta, non getta uno sguardo sul nostro mondo. Chi sono gli dei? Chi i giganti? Chi i Nibelunghi? Creature di fantasia, diresti dopo il prologo del Rheingold.
Dove Wotan è un autorevole (ma alla fine anche un po’ affaticato) Michael Volle, capace di scolpire la parola in un canto che spesso sconfina nel declamato per restituire un dio umanissimo, piegato dal peso del mondo – un dio che, però, sceglie di ritirarsi nel suo Walhalla invece che farsi uomo, farsi crocefiggere per salvare «l’uomo che lui stesso aveva creato». Wotan ha sacrificato un occhio per avere Frika che è una misurata (ma nulla di più, la si vorrebbe più incisiva) Okka von der Damerau. Da salvare anche Freia. Da salvare per non perdere la giovinezza (gli dei quando la perdono si tolgono la maschera – di bellezza? ti chiedi pensando alla chirurgia estetica e al prezzo che oggi si paga per avere una presunta bellezza), altro gesto egoistico, pessimistico… da salvare dall’averla promessa ai giganti in cambio della loro manovalanza nell’edificazione del Walhalla. Freia che è Olga Bezsmertna, cantante arrivata alla Scala con il “pacchetto Meyer”, interpreti (molti in ensemble a Vienna) che sono tornati ripetutamente nelle stagioni scaligere, alcuni convintamente (bella la Rusakla della Bezsmertna che qui è una buona Freia), altri con esiti non sempre convincenti. Svetlina Stoyanova, che è stata la Rosina del Barbiere post Covid di Chailly qui è Wellgunde – Woglinde è Andrea Carrol, Flosshilde Virginie Verrez. Ricompare e ancora una volta non convince Ain Anger, qui Fafner, surclassato dall’eleganza e dalla musicalità di Jongming Park (sempre una garanzia). Il più convincente di tutti (e il più applaudito) è Ólaf Sigurdarson che disegna un Alberich caricaturale nel costume, ma per nulla nel canto dove senti nette la deformità del nano e l’astuzia dell’uomo scaltro – misuratissima, ma efficace e nera la sua maledizione, sussurrata e mai urlata. Convincente e “in parte” anche Wolfgang Ablinger-Sperrhacke che è un Mime inquietante nella sua sinistra presenza. Loge ha lo sguardo penetrante e il canto misurato di Norbert Ernst. Gli altri dei sono Andrè Schuen (un Donner puntualissimo e dallòa voce di velluto) e Siyabonga Maqungo (Froh corretto). L’apparizione di Erda è affidata a Christa Mayer. Alles was ist, endet. «Tutto ciò che esiste ha fine» il monito della Terra. Fermati. Fermatevi. Sembra dirci.
Lo stesso monito, lo stesso invito, pensi, che ti butta in faccia quell’impronta di una mano in un cerchio – sarà l’anello, certo, è l’anello. A dire stop. Fermiamoci. Da cosa? Guardi il mondo e dici: dalla guerra, dal progresso senza etica, dal condannare il pianeta (con il surriscaldamento globale) a una fine precoce. Lo dirà anche il Ring di McVicar? Bisognerà attendere il Götterdämmerung quando l’Anello tornerà (forse) dalle Figlie del Reno. Il viaggio, Der Ring des Nibelungen, è appena iniziato.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Rheingold