OperaLombardia inaugura la stagione con il titolo di Puccini Sul podio Riccardo Bisatti, regia di Marialuisa Bafunno
Sicuramente è (ancora) un artista. Eccentrico nel suo cappotto azzurro cielo. Un vezzo i capelli bianchi raccolti in una coda che lascia vedere il viso abbronzato. Rodolfo è (ancora) un artista. Anche da vecchio. Da ragazzo scriveva «rime ed inni d’amore», ma anche «l’articolo di fondo del Castoro». Artista della parola. Scrittore. Poeta. Sensibile – più di altri chi usa la parola – e dunque vulnerabile. Anima (ancora) fragile. Specie se a investirla, in un imbrunire in cui cerca di mettersi alla macchina da scrivere – nostalgico, anche in questo, nell’essere legato alla sua Lettera 22 anche nell’era di computer e Chat Gpt –, specie se ad investirla è un vento di ricordi. Un baschetto, rosa naturalmente, un taccuino con sopra parole in rima, una candela, spenta. Un vento che si solleva con la musica. E abbatte la quarta parete di una scatola di ricordi – che non è altro che il teatro, concentrato di ricordi che prendono vita, ogni sera, ogni volta che si alza il sipario.
Pensiamo a Puccini, a Giacomo Puccini di cui quest’anno si celebrano i cento anni dalla morte, che alla fine delle sue opere mette quasi sempre un grido. Fatto di parole, a volte solo di musica. Ed è un grido di un uomo che urla la sua disperazione per la morte della donna che ama. E che non è riuscito a salvare. Pinkerton, farabutto, si dispera di fronte al suicidio della sua «Butterfly!». Des Grieux non ha la forza di gridare, stremato dal sole e dall’arsura del deserto, ma apre la bocca e trasfigura il suo volto dove si disegna la disperazione per la morte della sua Manon. Lancinante – e questa volta l’urlo è di una donna – il grido di Giorgetta alla fine del Tabarro quando il marito Michele le butta in faccia il cadavere di Luigi, l’amante di lei. Sfoghi disperati. Per non essere riusciti a salvare chi si amava. Musica intrisa di rimorso. Dell’amarezza del non aver fatto il possibile per… un maestro, in questo, Puccini, nel raccontarlo attraverso storie di piccoli uomini.
Madama Butterfly, Manon Lescaut, Tabarro… senza parlare dei rimorsi di Turandot davanti al cadavere di Liù, a quelli di Roberto ne Le villi per essere stato la causa della morte di Anna. E poi c’è Bohème, un Puccini che non assoceresti al rimorso. All’amarezza della gioventù che passa, alla crudeltà della morte che non guarda in faccia a nessuno, alla necessità di crescere… a questo sì, ma al rimorso no. O non immediatamente… Ti ci fa pensare, però, Marialuisa Bafunno, “giovane regista” l’etichetta che le si potrebbe mettere vista l’anagrafica (ma il curriculum è già ricco, assistente di nomi della regia, Leo Muscato e Mario Martone, Kasper Holten e Jürgen Flimm, spettacoli suoi…), che rilegge i quadri pucciniani ispirati a Henri Murger, come una storia di rimorsi, quelli che tormentano Rodolfo ormai vecchio, sopravvissuto alla soffitta e alla morte di Mimì.
Inizia dalla fine, anzi, da un presente che forse è un futuro perché i flash back evocati dalla musica sono intrisi del nostro mondo di cellulari e Fridays for future… inizia in un “non tempo” La bohème che ha inaugurato la stagione di OperaLombardia, il circuito che unisce i teatri di Como, Brescia, Cremona e Pavia – partita dal Sociale di Como e approdata al Fraschini di Pavia, andrà nel 2025 a Parma e a Reggio Emilia. Silenzio in teatro. Si apre il sipario. Ed ecco Rodolfo, ha in mano una scatola, la scatola dei ricordi della sua storia d’amore… la apre ed ecco il taccuino con le poesie, il lume che «anche il mio s’è spento», la cuffietta rosa che Mimì ha lasciato «sotto il guanciale». E la musica – evocata dai ricordi e che anima, rende vivi quegli stessi ricordi – scorre di nuovo. Per noi che siamo in teatro e che Bohème (specie in questo anno pucciniano) l’abbiamo ascoltata tante e tante volte – quanti «Sono andati, fingevo di dormire…» ci hanno smosso qualcosa dentro, ogni volta. E per quel Rodolfo che avrà aperto tante volte la sua scatola dei ricordi. Si apre anche quella, enorme, sul palco. Cade la quarta parete e anche noi siamo dentro la storia.
La solita storia, certo. Riletta da Marialuisa Bafunno come la storia di giovani di oggi. Che hanno scelto un loft – più che una soffitta sembra più un’officina dismessa, i grandi vetri, le pareti dritte e alte – come loro casa. Dove esorcizzare il tempo che passa – la scala, unico arredo insieme a un divano e a una lampada, sembra quella che si trova in certi cimiteri, per salire in alto, nei loculi più irraggiungibili, e mettere un mazzo di fiori. Dove provare a fare qualcosa di buono… chi scrive, chi dipinge, chi prova i suoi numeri da drag, chi prepara cartelli da brandire nelle manifestazioni contro i cambiamenti climatici… Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline, fanno questo i giovani della Bafunno. Caratteri azzeccati. Come Mimì scaltra, un po’ sessantottina, indipendente e allergica alle regole… come Musetta, che potrebbe essere la tronista di qualche programma tv e Alcindoro, l’uomo in carriera che sfoggia l’amante prorompente e appariscente.
Bohème, con un sottotitolo, La scatola dei ricordi – che è poi il nome del progetto con il quale Marialuisa Bafunno (che firma anche i costumi) e il suo team (la scenografa Eleonora Peronetti, il corografo Emanuele Rosa) hanno vinto il bando del circuito per un nuovo allestimento dell’opera pucciniana. Che diventa il disperato tentativo del Rodolfo anziano di provare a cambiare la storia, entrando e uscendo dall’azione. Perché a un certo punto il Rodolfo anziano entra nell’azione, corpo estraneo di una storia che corre veloce e inesorabile, per provare a cambiare, ma inutilmente, il corso di quella storia. Perché Mimì muore. «Che vuol dire? Quell’andare e venire… quel guardarmi così…». E ci vuole coraggio per farsene una ragione, anche dopo anni. Perché la morte ti scava dentro. Perennemente. Idea interessante. Che funziona – in un impianto tutto sommato tradizionale dove non mancano omaggi alle “storiche” Bohème di oggi, quella di Macerata di Leo Muscato e quella bolognese di Graham Vick. E commuove.
Perché questo deve fare la musica. Specie quella di Puccini. Governata dal podio dei Pomeriggi musicali da Riccardo Bisatti. Rivelazione nel Don Giovanni del 2022 sempre di Opera Lombardia, qui il direttore offre una lettura nel solco della tradizione di Bohème. Tempi efficaci, certo, un Puccini educato e patetico dove serve, buona capacità di tenere insieme buca e palcoscenico (e di riprendere anche chi si perde per strada) con un gesto ampio (anche troppo con le braccia che fluttuano nell’aria) e amplificato, ma non sono sempre di immediata lettura. Giovane, Bisatti, come giovani sono i personaggi. E come giovani sono gli interpreti. Maria Novella Malfatti ha voce (la tecnica, però, necessita ancora di essere affinata) e temperamento scenico per una Mimì risoluta, capace di far ruotare sempre attorno a sé il racconto. Un po’ sovradimensionata, forse, la scrittura di Rodolfo per la voce (bella ed educata, anche se a volte l’impressione è che resti un passo indietro) di Vincenzo Spinelli che comunque disegna con credibilità il ritratto di un giovane di oggi. Come fa Junhyeok Park, Marcello con il chiodo rosso sempre addosso. Eccentrico nel vestire – canotta nera trasparente, pelliccia ecologica maculata, per il convincente Schaunard di Davide Peroni, canto sempre a fuoco e grinta scenica inesauribile – la regista lo vuole gayssimo, aspirante drag. Ecologista, amico di Greta il Colline disegnato efficacemente da Gabriele Valsecchi. Meno a fuoco (almeno vocalmente) la Musetta di Fan Zhou. Doppio ruolo, e doppio ritratto azzeccato, per Alfonso Ciulla che è Benoit e Alcindoro.
Ha un nome in locandina, quello di Domenico Nuovo, il Rodolfo anziano. Che apre la scatola dei ricordi. Ci si immerge, prova a cambiare il corso della storia. Ma poi la richiude. Disperato. Perché quella storia, la storia di Mimì e della soffitta, la storia di sogni e illusioni di gioventù, bruciano ancora sulla pelle.
Nelle foto Andrea Butti La bohème di Opera Lombardia