Fazzoeltti verde Lega nella Battaglia di Parma

Al Festival Verdi La battaglia di Legnano diretta da Ceretta Politica di oggi e Storia nella regia pacifista della Carrasco

Ma quelli sono fazzoletti verdi! E non di un verde qualsiasi. Verde Lega. Oggi solo Lega. Un tempo Lega Nord, agli albori, quelli di Umberto Bossi e dell’ideologo Gianfranco Miglio, Lega Lombarda. Proprio come quella dei Comuni, alleati nel 1176 contro Federico Barbarossa, sconfitto nella battaglia di Legnano. Orizzonte, fatti e personaggi – nel simbolo del partito politico c’è Alberto da Giussano, anche se la Storia ci dice che il vero comandante dei comuni lombardi nella battaglia di quel 29 maggio era Guido da Landriano –, orizzonte, fatti e personaggi cui il partito che ha spopolato chiedendo la secessione, si ispirava. Quelli sono fazzoletti verdi, ma non siamo a un comizio di Salvini. Non siamo a Pontida. Siamo sul palco del Teatro Regio di Parma. Per un’altra Battaglia di Legnano, che non po’ che essere quella di Giuseppe Verdi. Perché siamo al Festival Verdi, edizione 2024, la numero ventiquattro della rassegna che la città dedica al compositore. Edizione che racconta potere e politica in Verdi, specie nel primo Verdi. Il Verdi politico di Macbeth (opera del 1847 che sia scolta nella riscrittura francese del 1865) e Un ballo in maschera – che è già un Verdi maturo, siamo nel 1859. Il Verdi, intriso di spirito risorgimentale (ma tutte, o almeno molte, le pagine del compositore che sono attraversate da questo fremito patriottico) di Attila (la prima a Venezia nell’1846).

Il Verdi patriottico de La battaglia di Legnano, appunto, opera del 1849 (la prima a Roma con Mazzini e Garibaldi in platea) di raro ascolto – ma è doveroso, per un festival come quello di Parma, mettere al centro della proposta e della riflessione, che è artistica, ma anche scientifica, tutto il catalogo di un autore, specie quello meno esplorato (e un po’ dispiace che il prossimo anno si torni a Macbeth, visto e rivisto in tutte le salse nelle ultime edizioni, Falstaff, in cartellone nel 2023, e Otello – a quando Alzira?). Patriottico perché Verdi si ispira ai fatti storici che hanno visto i Comuni lombardi sconfiggere l’invasore. Anche se la Storia resta sullo sfondo – Barbarossa compare in scena solo per una decina di minuti, nel finale del secondo atto, potente apparizione che Valentina Carrasco mette a chiusura della prima parte del suo spettacolo. In primo piano c’è un’altra storia. Una storia d’amore nella quale ci sono condensati i grandi temi verdiani dell’amicizia, della lealtà, della paternità, dell’amor di patria… La storia di Arrigo che torna dalla battaglia dopo che tutti lo credevano morto, torna e scopre che la promessa sposa Lida, credendolo appunto ormai perduto, ha sposato Rolando, il suo migliore amico, e da lui ha avuto un figlio. Dramma. Sospetti, rivalità, vendette con Rolando che impedisce ad Arrigo di partecipare alla battaglia decisiva – lo tiene prigioniero – per ferirlo nell’onore. Lui riesce a liberarsi e si getta nella battaglia, morendo (in scena, dopo aver cantato per un dieci minuti abbondanti) per la patria.

Dunque una storia, che può essere (riletta e aggiornata) quella di tanti (di ieri e di oggi), con la Storia sullo sfondo. Storia di ieri. Ma anche di oggi. Perché se nel libretto (di Salvatore Cammarano), nel finale del secondo atto, compare anche Federico Barbarossa (dieci minuti in tutto, carismatici e potenti con la voce e la presenza scenica calamitante di Riccardo Fassi), la regista Valentina Carrasco, ex Fura dels Baus, ci mette i fazzoletti verdi della Lega, quella che oggi è di Salvini. Perché un riferimento all’attualità, anche politica, era inevitabile. Ma è l’unico in uno spettacolo – forse tra quelli non così riusciti della regista argentina, diciamolo – che propone una riflessione trasversale – nel senso di tempo e di spazio – sulla guerra. La Carrasco mette al centro del suo racconto i cavalli – unico elemento scenografico di una non scenografia di Margherita Palli perché il palco, creature equestre a parte, è perennemente vuoto – cavalli usati da sempre in guerra. Vittime loro malgrado, dice la regista che rilegge la storia dalla parte, appunto, delle vittime della guerra, di qualsiasi guerra. Allestimento equestre, ma racconto umanissimo. Perché tutti i personaggi dell’pera sono vittime. Arrigo, che a causa del su essere andato in guerra perde la donna che ama. Lida, che vede i suoi sogni di donna e di madre spezzati dalla guerra (che le ha tolto l’amore e gliene ha dato uno che deve farsi andar bene, suo malgrado, se vuole essere sposa e madre). Rolando, che vede sgretolarsi il valore più grande, quello dell’amicizia, proprio a causa del conflitto. Ma anche Barbarossa che quella guerra, quella battaglia di Legnalo la perde. E pure il cattivo di turno, Marcovaldo, che semina zizzania e che poi la paga.

Vittime, loro come noi. Noi che stiamo in platea e ripercorriamo, in un mix di epoche, le guerre di ogni tempo. Perché in scena, il popolo e i soldati, hanno tuniche medievali, ma anche divise della Prima guerra mondiale – i costumi li ha disegnati Silvia Aymonino senza riferimenti a Palestina o Ucraina, però. Si sovrappongono e si confondono – a un certo punto non capisci chi combatte contro chi. Perché la guerra è una sconfitta. Sempre, non si stanca di ammonire Papa Francesco. Per tutti. Non solo perché fa crollare muri ed edifici a muri, ma soprattutto perché fa crollare vite, anime. La Carrasco lo dice in un racconto che è un flusso di memoria. Un racconto che sembra una visione sinistra e inquieta in un dormiveglia. Il palco vuoto sul quale prendono forma, materializzandosi dal buio i personaggi che sono sogni e allo stesso tempo incubi – bellissima l’apparizione di Barbarossa illuminata da Marco Filibeck. Il buio sul quale si stagliano i personaggi, che raccontano la loro storia e poi, in quel buio, tornano di nuovo.

Un dormiveglia della storia – quello che viviamo oggi, tempo in cui non sai se è sogno o realtà (perché assurda) quella che vedi e che vivi. Un dormiveglia sul quale si stende la pietà di Verdi. Perché ha questo colore, inaspettato e potente, la partitura. Eroica, certo, nel suo aprirsi su un Viva Italia che scalda gli animi (doveva scaldarli, a suo tempo, sulla soglia dell’Unità). Ma che ha dentro qualcosa di più. Ha dentro un’urgenza. Di indipendenza. Di libertà. Ma anche di pace, nonostante quella indipendenza e quella libertà saranno pagate a prezzo di una guerra che farà morti e feriti. Ha dentro una pietà, appunto. Per le vittime. Per noi che ancora oggi vorremmo dire Viva Italia… o metteteci il nome del paese che più oggi ha bisogno di indipendenza, di libertà, di pace. Ha dento tutto questo la direzione accuratissima, appassionata, risorgimentale, ma per nulla zum pa pa, di Diego Ceretta. Al suo secondo Verdi – dopo Macbeth, e qui di ganci ce ne sono, come ce ne sono con Rigoletto e Traviata – e già interprete maturo (ad ogni lettura, che sia sinfonica o lirica, lo scavo del direttore milanese, capace di rivelarsi interprete sempre più maturo e completo, è più intenso e convincente) di un Verdi ancora sperimentale. Sperimentatore. Capace di assorbire il clima (non solo politico, ma soprattutto musicale) del suo tempo. Ceretta, sul podio di orchestra e coro del Comunale di Bologna, restituisce questo aspetto con una lettura capace di sbalzare tutta la raffinatezza di una scrittura dal peso sinfonico e a tratti cameristico. Echi di Schubert e Brahms nei chiaroscuri (in sintonia con il dormiveglia della storia che la Carrasco mette in scena) scelti da Ceretta per il passo teatrale del suo racconto in musica.

Racconto reso palpitante dalle voci di un sempre generoso Antonio Poli, squillo, gusto passo drammatico nel disegnare un Arrigo da subito sconfitto, vittima che anche nel tentativo di riscatto sembra non credere fino in fondo nella possibilità di cambiare il suo destino. Di Marina Rebeka, Lida in bilico, come Verdi in questa scrittura, tra il belcanto e l’eroico (Rebeka che alla generale ha lasciato posto al talento di Alessia Panza). Di Vladimir Stoyanov, Rolando tormentato, un tormento tutto interiore che il baritono, sempre capace di toccare le corde dell’anima con il suo canto, sbalza umanissimo. Carismatico, incisivo nella sua apparizione (anche qui, come in un sogno/incubo) il Brabarossa di Riccardo Fassi, sempre intelligente nel porgere la parola in musica e nel restituirla, viva e moderna. Più fragile (e a volte al limite) il resto del cast dal Marcovaldo di Alessio Verna al Podestà di Como e Primo Console di Milano di Emil Abdullaiev, dal Secondo Console di Bo Yang allo Scudiero/Araldo di Anzor Pilia all’Imelda di Arlene Miatto Albeldas.

Un fazzoletto verde in tasca. Pronti ad estrarlo. Verde Lega. O forse verde speranza. La speranza che la guerra, qualsiasi guerra, smetta di fare vittime. Innocento o meno. Perché ogni guerra – ogni morte di un uomo – è una sconfitta. Sempre.

Nelle foto @Roberto Ricci La battaglia di Legnano al Festival Verdi di Parma