Scala, il Rosenkavalier perfetto di Petrenko

Trionfo per il debutto al Piermarini del direttore dei Berliner sul podio per l’opera di Strauss con la regia di Harry Kupfer Protagonisti Stoyanova, Groissböck, Lindsey e Devieilhe

La Marescialla oggi sarebbe su Tinder. Senza dubbio. BichetteWien il possibile nickname. Niente fazzoletto lasciato sotto la panchina del Prater come segnale per il suo Eine kleiner Neger (sì, Un piccolo negro scrive Hofmannsthal nel libretto, alla faccia del politicamente corretto che oggi rischia di diventare ridicolo) di “casa libera” – d’accordo, lo sappiamo, il fazzoletto che l’Eine kleiner Neger Mohammed raccoglie dovrebbe essere (da libretto) quello di Sophie, ma Harry Kupfer mette un po’ di pepe nel suo Rosenkavalier e alla fine (assecondando la musica bellissima e ammiccante e struggente di Strauss) ci fa vedere che Mohammed si presenta con quel fazzoletto alla porta della stanza della Feldmarschallin, pronta a sostituire a letto il suo Quinquin Octavian con il suo paggetto, l’Eine kleiner Neger. Dunque Bichette, la Marescialla Marie Therese oggi, nell’epoca dei social e degli amori usa e getta, sarebbe su Tinder a cercare ragazzini – ragazzini, sì, perché Octavian, sempre da libretto, ha 17 anni – a cercare ragazzini che possano riempiere le sue giornate di ricchezza e noia quando il marito è lontano, preso dai suoi impegni ufficiali… tra l’altro non vediamo mai il Feldmarschall nel Rosenkavalier, racconto di una società tutto sommato matriarcale (la Feldmarschallin, Sophie, Annina, la Jungfer Marianne Leitmetzerin…) dove gli uomini non ci fanno una gran bella figura – vogliamo parlare solo di Ochs?

Un “match” e alla sua porta si potrebbe presentare qualcuno di bell’aspetto, magari con un debole per le donne mature (anche se Marie Therese tanto vecchia non è… non arriva ai quaranta anche se vede già il tempo fuggirle di mano). Ma non ci sarebbe, se la Feldmarschallin fosse su Tinder, magari con una playlist fatta di JLo e Puff Daddy, tutta quella malinconia, quella musica stupenda e struggente, grondante vita che scorre nel Der Rosenkavalier di Richard Strauss. Di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, perché musica e parola sono inscindibili, una indissolubilmente legata all’altra, in questa Commedia per musica che torna al Teatro alla Scala – l’ultima volta era il 2016 e c’era Zubin Mehta sul podio sul quale, nel tempo, sono saliti lo stesso Richard Strauss, Tullio Serafin, Ettore Panizza, Herbert von Karajan, Karl Böhm, Carlos Kleiber (il direttore che si è identificato più di tutti col Rosenkavalier), Jeffrey Tate e Philippe Jordan. Torna nell’allestimento salisburghese, tutto trasparenze e visioni di una Vienna di inizio Novecento in bianco e nero (le scene sono di Hans Schavernoch, i costumi di Yan Tax) con squarci sull’Hofburg e sul Prater (che si materializza anche nella bellissima balena meccanica della locanda del terzo atto), di Harry Kupfer (lo spettacolo del regista tedesco, scomparso nel 2019, è ripreso fedelmente da Derek Gimpel).

Torna e segna il debutto al Piermarini – incredibile pensare che non era mai arrivato sino ad oggi, gran merito del sovrintendente Dominique Meyer averlo finalmente portato, forse il colpo grosso del suo mandato prossimo alla scadenza – torna e segna, vera ragione di questo ritorno, il debutto al Piermarini di Kirill Petrenko. Il direttore dei Berliner philarmoniker, il musicista che trasforma in oro tutto ciò che tocca. Il più grande di tutti, dice qualcuno… più di uno. Antidivo – non rilascia interviste, ad esempio, per lui parla la sua musica. Testa e cuore sulla partitura. Sempre.

Festeggiatissimo al Teatro alla Scala. Dal suo apparire in buca quando l’orologio segna precise le 19 (si inizia un’ora prima perché Rosenkavlaier va avanti per quattro ore e venti minuti). Affetto – e applausometro – in continua crescita nel corso della serata. Ad ogni ingresso in orchestra. Ad ogni buio che scioglie la tensione musicale ed emotiva a fine atto. Anche se lui, schivo e simpatico – la cosa bella è vederlo sorridere, sempre! – taglia corto, un piccolo gesto della mano e si butta a capofitto nella musica. Che arriva da subito travolgente. Folate di suono, di armonia, di bellezza ti investono immediatamente, con un Preludio – evviva, a sipario chiuso, nessun antefatto da raccontare per immagini… perché il racconto è già lì, potente, nella musica – un Preludio dove senti, carnale, passionale, ma anche tenera, carica di affettuosa malinconia la notte d’amore (l’ultima scoprirai poi perché lei «Ich hab ihn fortgehn lassen und ihn nicht einmal geküßt!», l’ha «lasciato andare via e non l’ho baciato») tra la Marescialla e Octavian. Quello racconta la musica di Strauss. Quello ti fa capire, inequivocabilmente, Petrenko.

La bellezza della semplicità nella direzione di Petrenko. Del restituire tutto come se fosse la cosa più naturale del mondo – e “tutto” sta per la scrittura complessa e bellissima di Strauss, prezioso gioco intellettuale, ma non solo intellettuale, soprattutto umano nello scandagliare l’anima, di rilettura del Settecento attraverso l’occhio e le inquietudini (non solo musicali) del Novecento. A Petrenko sembra venga tutto facile, anche far suonare come non si era mai sentito (se non in particolari serate di grazia con Direttori carismatici sul podio) l’Orchestra del Teatro alla Scala, colorata, profumatissima, attenta ad ogni dettaglio e intonatissima (forse un filo stanca nel finale, dopo più di tre ore di musica suonata), in continuo dialogo tra le sezioni, un respiro solo nel flusso ininterrotto del racconto.

Eppure, dietro la bellezza, la leggerezza, l’immediatezza della musica che Petrenko plasma dalla buca e dalle voci in palcoscenico c’è uno scavo profondissimo, una conoscenza millimetrica di ogni segno sul pentagramma e di tutto quello che dietro quel segno c’è. Si chiama cultura. Intelligenza musicale. Che va al di là del battere in due o in quattro. Ogni nota, ogni frase, ogni idea musicale scaturisce dalla precedente e prepara quella che verrà. Flusso continuo e ininterrotto di invenzione, che è allo stesso tempo estrema fedeltà al testo. Restituito in infinite sfumature, in dettagli che diventano improvvisamente luci accecanti per poi tornare in un attimo trasparenze nel racconto sinfonico. Nella musica e nel canto. Perché ogni nota di Strauss è indissolubilmente legata alla parola di Hofmannsthal, la racconta e la evoca, la riveste e si riveste di sentimento. Scambio continuo che Petrenko restituisce mirabilmente. C’è la leggerezza di un giro di valzer – ma ad ogni ritorno è sempre diverso, inaspettato, sorprendente per ritmo, colore, accenti… – e c’è una certa drammaticità da melodramma italiano nel Rosenkavalier di Petrenko. Nel monologo della Marescialla, drammatica e allo stesso tempo disarmante riflessione sul tempo. «Die Zeit in Grunde, Quinquin, die Zeit», quel tempo che Petrenko ferma, come la Marescialla che nel cuore della notte ferma tutti gli orologi, perché «passiamo giorni della vita e un nulla è il tempo, ma poi ad un tratto non sentiamo altro che lui». Sembra essere qui – e nel finale, nel terzetto che, ancora una volta, sospende il tempo – il cuore della lettura di Petrenko – capace anche di sorridere e farci sorridere (di noi stessi) attraverso la modernità da bullo di provincia con la quale sbalza il ritratto di Ochs.

Racconto grondante emozione dietro un’apparenza di millimetrica, cristallina e calcolata freddezza… basta il silenzio, infinitesimale, ma allo stesso tempo infinito nel non lasciare sfogare la parola che spezza la frase della Marescialla, «Und Nachmittag werd’ich Ihm einen Lauffer schicken, Quinquin, und sagen lassen» e qui Hofmannsthal scrive zögernd, esitando, «Nel pomeriggio le spedirò un corriere, Quinquin, per farle dire», esitando, «se vado al Prater». E c’è un mondo, una vita vissuta che ognuno di noi ritrova (impossibile trattenere le lacrime) in quel zögernd, in quell’esitando. Basta la sacralità che Petrenko imprime al terzetto finale, quando l’orchestra sembra un organo – cosa c’è di più sacro, di più spirituale dell’amore? – dopo il sigillo che ci mette la Marescialla, «In Gottes Namen», così vuole dio…  Lo “dice”, con un canto tutto modellato sulla parola, Krassimira Stoyanova, Marescialla di immutata bellezza nel canto e nell’eleganza con la quale il soprano disegna, in tutte le sue sfaccettature, un personaggio sul quale sin dall’inizio c’è un velo di dolente, ma non rassegnata malinconia. All’opposto, tutto esteriorità e voluta ruvidezza, il Baron Ochs di Günter Groissböck, modernissimo ritratto di un arricchito di provincia, di uno dei tanti strafottenti , di uno dei tanti strafottenti individui, non solo caricaturali, ma cattivi dentro, che popolano non solo le nostre strade, ma i nostri social con i loro chiassosi post.

Chiassosi, ma di felicità, sono Sophie e Octavian. Lei è una musicalissima e misuratissima Sabine Devieilhe, stile perfetto, accenti giusti, canto sempre sul personaggio. Lui, Octavian – che poi è una lei nel gioco mozartiano di vocalità e travestimenti scenici con un mezzosoprano che canta un ruolo maschile che vede il personaggio a un certo punto vestirsi da donna… Cherubino delle Nozze – lui, Octavian, è Kate Lindsey, accenti e stile appropriato, temperamento e guizzo scenico sempre vivace. Lunghissimo e perfetto in ogni voce della locandina il resto del cast. Michael Kruas è un Herr von Faninal godibilissimo, mai spinto verso il carattere, così come la Jungfer Marianne Leitmetzerin di Caroline Wenborne. Carattere – e questo è demerito di Strauss, maledetto nel dipingere come caricaturale l’Ein Sänger e il belcanto italiano – per il Cantante, l’Ein Sänger appunto, al quale Piero Pretti (sicuramente non era in perfetta salute, non era il Pretti di sempre) regala il suo squillo e la morbidezza del suo canto. Personaggi e non caratteri da commedia dell’arte anche Valzacchi e Annina, Gerhard Siegel e Tanja Ariane Baumgartner.

Merito di Kupfer, certo. Merito di Petrenko. Della sua lettura moderna. Tutta sul nostro presente, musicale e sociale. In pertenne bilico tra commedia e melodramma, tra il ritratto di una società spocchiosa ed egocentrica (le guerre, si sa, nascono nel piccolo…) e la riflessione malinconica sul tempo. Moderna, capace di farti briciare la pelle. Che, se non fosse per la musica tutta intrisa di malinconia, stupenda e struggente, grondante vita di Strauss, ti farebbe pensare che la Marescialla oggi sarebbe su Tinder. Ecco il fazzoletto e quegli accordi che si disgregano della rosa d’argento. BichetteWien e MohammedEineKleineNeger. Match!

 

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Der Rosenkavalier