Colonia riparte da una “nuova” Creazione

In La versione scenica di Melly Still di Die Schöpfung di Haydn diretta da Minkowski inaugura la stagione del teatro tedesco Protagonisti Kathrin Zukowski e Sebastian Kohlhepp

La potenza è tutta nella Parola. La potenza raccontata dalla Genesi, dalla Schöpfungsgeschichte, dalla Storia della creazione che sta all’inizio della Bibbia, è tutta nel Verbo – quello che poi si farà carne. Potenza, quella della Parola, che non è legata solo alla forza evocatrice del racconto, già di suo dirompente. È una potenza creatrice quella della Parola della Schöpfungsgeschichte. «E Dio disse…». Parola che crea. Non serve altro. «Dio disse: Sia la luce!. E la luce fu». Nessun gesto che plasmi la materia. Anche perché In principio quando «Dio creò il cielo e la terra», la terra «era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso». Meglio, «Die Erde war ohne Form und leer, und Finsternis war auf der Fläche der Tiefe». Perché la materia non c’era. C’era solo «lo spirito di Dio che aleggiava sulle acque». Nessun gesto. «Der Geist Gottes Schwebte auf der Fläche der Wasser». Nessuna azione. Il gesto, l’azione arriveranno solo alla fine, quando «furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere», dopo che «Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro», arriveranno solo con la creazione della donna quando «Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo». Nessuna azione. In principio solo la Parola. «E Dio disse…».

Potenza della Parola. Potenza del racconto della Genesi. Potenza del Berescit – detto in ebraico, l’antica lingua della Bibbia –, dell’In principio da cui tutto inizia. Inizia. Tempo presente. Perché la Creazione, Die Schöpfung, non è qualcosa di chiuso, di concluso, di confinato in un tempo e in uno spazio – che poi non lo sono nemmeno quelli raccontati dalla Genesi, immagine evocativa, quella del primo libro della Bibbia e del suo In principio, che non ha nulla di scientifico o dimostrativo.  Di cronologico sì, perché il tempo della Bibbia, il tempo cristiano, è un tempo lineare (altri tempi di altre fedi sono ciclici, i tempi di perenni ritorni e di non apertura ad un oltre… ma questa è un’altra storia), un tempo che ha un inizio e tende verso una fine, un’Apocalisse per restare nella struttura letteraria biblica. Presente. Che allo stesso tempo è radice che affonda nel passato e sguardo che si allunga sul futuro. Presente che si rinnova quello della creazione. Di Die Schöpfung, di Franz Joseph Haydn. Che racconta, oratorio in tre parti, l’In principio della Bibbia in musica. Dall’«Im Anfange schuf Gott Himmel und Erde». E lo racconta al presente. Nel perfetto intreccio di recitativi, arie e cori che fanno correre in parallelo il racconto biblico e la riflessione dell’uomo – che prima è angelo Gabriel, Uriel e Raphael e poi creatura di carne e fiato, Adam ed Eva – riflessione dell’uomo sul creato stesso, sull’opera di Dio. Nel presente. Qui ed ora.

Die Schöpfung, di Franz Joseph Haydn. Che inaugura la stagione 2024/2025 dell’Oper Köln. Germania. Oratorio proposto in forma scenica, presentato in abbinata, una sera dopo l’altra in modalità festival, con Elektra di Richard Strauss. Doppia inaugurazione pensata per quello che avrebbe dovuto essere (trasmesso anche in diretta tv) il rientro nella sede storica di Offenbachplatz. Ma Die Schöpfung ed Elektra sono in scena (ancora) allo Staatenhaus, la struttura fieristica affacciata sul Reno che ospita l’Opera (dopo gli anni passati nel tendone a ridosso dell’Hauptbanhof dove adesso va in scena il musical Moulin Rouge). Perché è ancora un groviglio di impalcature e container la sede storica (storica nella ricostruzione del Secondo dopoguerra, tutta cemento e piastrelline color cotto tutelate dalla sovrintendenza) di Offenbachplatz, da tanto, troppo tempo – 12 anni almeno – in ristrutturazione. Cantiere infinito, pachidermico nel sul incedere lento e quasi impercettibile (e che sta scaldando la politica locale). Inaugurazione ancora allo Staatenhaus – ma per quanto ancora resterà la “casa” dell’Oper Köln? qui secondo i piani dovrebbe arrivare il musical, quel Moulin Rouge che adesso va in scena accanto alla stazione ferroviaria a due passi dal Duomo. Inaugurazione ancora allo Staatenhaus  con un titolo che avrebbe dovuto essere evocativo di una ripartenza. Ma che diventa, nel qui ed ora della storia contingente dell’Oper Köln, auspicio di una “nuova” creazione.

Nelle intenzioni sicuramente. In quelle musicali anche. Perché sul podio di Die Schöpfung (ma anche di Elektra) avrebbe dovuto esserci François-Xavier Roth, sino alla scorsa primavera generalmusikdirektor della Città di Colonia, che vuol dire dell’Oper Köln e della Gürzenich Orchester (che non suona solo all’Opera, ma anche, in autonomia, alla Philharmonie). Poi il patatrac. Le accuse di molestie, di aver inviato foto non richieste a musiciste e musicisti de Les Siécles rilanciate dai giornali. L’ammissione da parte del direttore d’orchestra francese cinquantunenne e l’addio alla sua orchestra parigina. Al quale è seguita la conclusione, in anticipo di un anno, del mandato a Colonia. Nuova Creazione, intesa come spettacolo, con l’arrivo sul podio di Marc Minkowski, come si dice, specialista del repertorio, al quale basta un gesto per evocare e far scaturire una musica dall’In principio. Nuova ripartenza morale, questo avvio di stagione a Colonia. Un riscatto che l’Opera vive in un modo composto, non esibito, ma ben percepibile. Nuova creazione, nuova Schöpfung, come a dire, ripartiamo da capo, da un nuovo In principio. Momento intensissimo. Ed è un peccato che le prime parole cantate di questa nuova stagione – che non sono però solo parole, ma appunto una bandiera, una dichiarazione di ripartenza – ed è un peccato che quell’In principio, «Im Anfange schuf Gott Himmel und Erde», suoni calante, nel canto incerto di Alex Rosen (e non sarà l’unico inciampo di intonazione nel corso della serata per il basso americano che veste i panni di Raphael).

Nuova Creazione musicale. Suono antico, impasto tra musica e canto avvolgente e sempre drammaturgico, passo narrativo avvincente nella lettura di Minkowski, barocchista esperto, ma non maniacalmente filologico. La Gürzenich è impeccabile, nell’insieme e nei soli (c’è anche un italiano, il flautista Paolo Ferraris). Il fortepiano, l’Hammerflügel di Theresia Renelt fantasioso, con inaspettati echi di Novecento. Il coro – anche se senti nel passo che è un coro lirico – pronto a restituire le atmosfere sacre (perché la vita e il creato sono sacri) di Haydn. Kathrin Zukowski Gabriel che meglio non si può, musicalissimo, in perfetto stile, puro piacere di ascolto, intelligenza musicale e capacità di essere sul testo ad ogni nota per il soprano tedesco. Tedesco come Sebastian Kohlhepp, tenore che dà voce e corpo in modo impeccabile a Uriel. In un racconto avvincente guidato con mano salda da Minkowski. Capace, il direttore d’orchestra francese, di sbalzare nella sua modernità – modernità musicale che si fa contemporaneità dei temi raccontati da Haydn – l’oratorio, forma indissolubilmente legata alla parola che qui si fa teatrale.

E parte da qui – e l’intuizione è bella, azzeccata, tutta sul testo – anche la lettura della regista (e coreografa) britannica Melly Still. Perché la Still immerge la scena nella Parola, la fa diventare scenografia proiettando tutto il libretto di Die Schöpfung sui velari neri che sono quinte e fondali (tanto che sui consueti schermi ai lati delle gradinate della Saal2 non scorrono le parole del testo). Intuizione giusta per mettere al centro del racconto – Haydn attinge, naturalmente, alla Schöpfungsgeschichte della Bibbia, ma anche al Paradise Lost di John Milton – la Parola. Intuizione che resta, però, l’unica. Non sviluppata. Scorre uguale dall’inizio alla fine in uno spettacolo che ha i contorni astratti di un’installazione contemporanea, le movenze di una pantomima che non si fa mai davvero danza, intreccio estetico, ma senza una vera e propria urgenza drammaturgica di corpi – quelli dei ballerini e quelli dei cantanti, coinvolti nel disegno coreografico che in locandina è ricondotto alla Still, ma anche a tutto il gruppo dei performer (qui, per essere politicamente corretti si scrive così: Tänzer*innen).

Melly Still confeziona uno spettacolo che alterna visioni alla Magritte a squarci quasi fumettistici – la sfilata di costumi (bellissimi, per altro, realizzati da Judit Peter) fatti tutti di materiale riciclato (bottiglie, bicchieri, bottoni, plastica e carta) della terza parte, quando Adamo ed Eva, modellati su un’iconografia pittorica classica contemplano la Creazione che verrà. Realizza una sorta di sacra rappresentazione medievale (in costumi contemporanei) dove la perenne presenza di un Satan danzante evoca i Misteri che sulle piazze raccontavano (a volte infondendo paura) le storie della Bibbia. Ma non si chiede oggi cos’è la Creazione. D’accordo, c’è quel video che dalla visione della terra zoomma sullo Staatenhaus in una sorta, però, di morale appiccicaticcia, di ributtare la palla in platea per dire: tutti dobbiamo fare la nostra parte. C’è quell’ammiccamento ironico, ma forse dal marcato segno femminista sul ruolo della donna con Satan che si butta a terra (come in un cartoon, appunto) sulle parole di Eva O du., für den ich ward… Und dir gehorchen bringt Mir Freude, Glück und Ruhm, «tu per il quale sono nata… obbedirti mi da gioia, fortuna e gloria» che non significano sottomissione, ma dono all’altro… ma anche questa è un’altra storia… Ma manca, nello spettacolo monocromo, virato sul nero, della Still il graffio degli oratori proposti in forma scenica (vedi alla voce Robert Carsen o Romeo Castellucci…), manca l’urgenza, e forse la curiosità, di trovare nel nostro oggi quell’In principio da cui tutto muove. Peccato.

Haydn ce lo fa trovare nella sua musica. Dove Gabriel, l’angelo più bello di tutti, quello che annuncia, che porta (porterà, in un eterno presente di ri-creazione) la buona notizia a Maria, dove Gabriel e Uriel e Raphael ci conducono per mano nei sette giorni, nei sieben Tage della Schöpfung. Racconto della Bibbia nei recitativi, lo stupore e le lode di fronte al creato nelle arie, nei duetti, nei cori. Kathrin Zukowski lascia il segno (lo fa ogni volta, sempre di più e in modo sempre più convincente) con un Gabriel umanissimo, dal canto cristallino, che sembra provenire da un altrove che riconosci, perché forse ci sei stato. L’altrove di un Eden che abbiamo perduto, ma che ha lasciato un germoglio dentro ciascuno. Come racconta l’Uriel musicalissimo e timbratissimo di Sebastian Kohlhepp. Il cielo, il sole, la luna e le stelle, piante e fiori, animali e bestie… poi l’uomo. Adamo, l’Uomo, ed Eva. Che sono André Morsch e Giulia Montanari, sicuri e fragili allo stesso tempo nel disegnare l’umanità che stava In principio. Perennemente in dialogo fisico – loro e gli angeli, coinvolti massicciamente nella coreografia dalla Still – con il Satan di Francesca Merolla. Che alla fine innalza un frutto. Il frutto della discordia. La mela, come ci ha detto la tradizione – ma la Bibbia non la cita mai, parla genericamente del «frutto dell’albero». Apfel. Malum in latino. Ancora la parola che evoca. Che crea. Conservata, la mela rossa come quella della strega di Biancaneve, in una teca. Illuminata. Guardata. Scrutata. Perché il male, ancora oggi, per alcuni è più prezioso del bene.

Nelle foto @Sandra Then Die Schöpfung all’Oper Köln